Premio Racconti nella Rete 2021 “Nel bel mezzo del bosco incantato” di Paola Ruggieri
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2021
Nulla è impossibile.
Se mi avessero detto mentre stavo salendo sulla funicolare di Bergen diretta a Fløyen che mi sarei persa nel bosco e ritrovata nel pieno di un rituale esoterico multietnico, non ci avrei mai creduto.
Bergen, sabato 30 maggio, tardo pomeriggio. Alle spalle giornate di lavoro intenso notte/giorno/notte/giorno senza sosta in una città piena di colori irriverentemente mortificati dal grigiore del cielo, sempre piovoso ma sempre acceso (alba alle 4:30, tramonto alle 22:30/23, mai notte piena).
Poche persone per strada, pochissime macchine, tutto è perfettamente rifinito e ossessivamente ordinato, la natura è piegata alla geometria che nessuno osa scomporre. Bergen, La città vuota.Ma quando è graziata da un raggio di sole, Bergen solleva il mento trionfante e si mostra in tutto il suo splendore: le case si accendono di raffinati colori pastello, il verde dei prati e degli alberi diventa esplosivo e la vista si riempie dei colori vividi dei fiori dai gambi ritti come i soldati alle parate – sfido, con giornate così lunghe e umide! La gente scopre i capelli dorati sotto ai cappucci degli impermeabili e mostra la pelle di luna sullo sfondo del mare gelato e dei salmoni e dei granchi reali del mercato del pesce.
Peccato, però, che il sole si dimentichi troppo spesso di Bergen.
Un sabato piovoso e freddo, ma ormai ci si è fatta l’abitudine: finalmente qualche ora libera dopo due settimane di prigionia lavorativa, così, pioggia inclusa, decido di godermi un po’ di sana solitudine con tanta voglia di un bel panorama sui fiordi prima del rientro a Roma l’indomani.
Ore 18:00 – sono sulla funicolare in salita verso tonnellate di nuvole e un panorama mozzafiato: un villaggio perfetto come un plastico si frastaglia in una distesa di acqua di tutte le tonalità del grigio (le 50 sfumature di Bergen…).
Eh sì, dal monte Fløyen si vede l’anticamera del Paradiso.
Già, il monte; il monte che alle mie spalle continuava a salire, come la mia voglia di rubare altre foto da una prospettiva più ampia. Decidiamo così, io e il mio ombrello ben aperto, di avventurarci verso un punto di vista più originale.
Le scarpe non erano propriamente quelle che si indossano per una camminata in montagna in un giorno di pioggia, ma erano pur sempre stivali: si poteva fare.
Se sulla terrazza bagnata e fredda del Fløyen ero in compagnia di una decina di persone, e più tardi solo di 3 nel negozio di Trolls-a-forma-di-qualunque-cosa (3 persone incluso il commesso), tra gli alberi del bosco, già dopo un paio di minuti, ero diventata l’unica persona al cospetto del mondo. Del resto chi si sarebbe avventurato in un bosco sconosciuto, in una giornata piovosa e fredda, a migliaia di chilometri da casa e con poco campo nel telefono?
Neanche finisco di sentirmi un po’ sola e malinconica, che strane figure ricavate dai tronchi iniziano a fare capolino tra gli alberi: qualcuna intera, qualcuna a mezzo busto, e poi facce gigantesche che spuntano dai dossi quasi a farti “BU!”.
Di cui almeno un paio, devo dire, particolarmente angoscianti.
Ma non abbastanza da convincermi ad abbandonare questo bosco fiabesco, con tutti i colori irreali della primavera che sta lentamente separandosi dall’autunno invertendo il corso del tempo.
Decido quindi di continuare ad avanzare e più mi addentro più inizio a ritenere plausibile l’incontro con qualche strano folletto norvegese nascosto tra i rami degli alberi più importanti. Silenzio assoluto e la fantasia inizia a volare, dimentica dell’obiettivo della foto dei fiordi e stuzzicata da un po’ di frizzante fifarella.
Ancora pochi passi e… colpo di scena.
Il silenzio assoluto si spezza. Da molto lontano, dal centro del bosco, arriva l’eco di schiamazzi, si sentono gridare “yuh uh!” sulla base di una strana musica… Inizio a vedere anche del fumo e a sentire gli odori di carne alla brace.
Forse è una braciolata nel bosco sotto al diluvio: che i norvegesi avessero imparato a convivere con la pioggia mi era chiaro, ma fino a questo punto…
Cammino in quella direzione e man mano che la musica sale inizio a vedere tante macchie di colore, sembrano palloncini e stracci colorati: vedo movimento di gente che balla, salta, grida e ride a squarcia gola. Penso a una festa di compleanno di qualche bambino norvegese. Ma…perché festeggiare un bambino nel centro di un bosco deserto e piovoso?
Mi avvicino ancora e zummo con il cellulare: no, non sembra proprio una festa per bambini, né mi sembra di vedere teste bionde di placide famiglie norvegesi, anzi, uomini scuri dai tratti forse gitani con lunghi capelli neri e tante collane…
Una festa di zingari ubriachi fradici nel bosco e io sono sola e senza campo nel telefono???
Scatto un paio di foto con lo zoom quasi a voler lasciare una prova alla polizia scientifica che troverà il mio scalpo su un albero, e mi accorgo che al centro della festa c’è lo scheletro di un albero spoglio, con sopra qualche palloncino colorato, nastri e strani pacchetti: un albero di nata-carnevale. Mi sembra di vedere chiaramente anche un uomo con una scure in mano. Deglutisco. Le grida e le risate iniziano ad assumere un sapore orrendo, condite della mia paura e dell’eco deformante del bosco…
Senza accorgermene mi sono avvicinata troppo: quasi mi sembra di essere stata notata tra gli alberi; quasi mi sembra di vedere una mano che mi fa cenno di avvicinarmi.
La pioggia è sopportabile, chiudo l’ombrello.
Devio velocemente a sinistra per cercare di tornare sulla strada principale che costeggia il bosco, e mentre cammino a passo meccanico cercando di contenere la voglia di correre per non dare troppo nell’occhio, mi sembra quasi che un gruppetto di 3 o 4 mi stia indicando e stia ridendo di me.
Ora addirittura un ragazzo mi viene incontro e mi fissa ridacchiando con lo sguardo malizioso di chi ha un ritardo mentale e ti sta scambiando per chissà cosa…
E’ ufficiale, mi sta seguendo.
E oltretutto riprende anche a piovere violentemente.
Apro l’ombrello, che inizio a ripensare come la mia arma di difesa, e intanto esco fuori dalla stradina ricavata nel bosco segnata da tappeti di grossa segatura, e preferisco continuare nel fango: se verrò seguita anche nel fango le sue intenzioni non saranno più opinabili e io inizierò a correre e probabilmente morirò dilaniata dalla scure gitana.
Invece no, fortunatamente non mi segue.
Raggiungo finalmente la strada asfaltata che sale lateralmente al bosco. Gli stivali di camoscio sono zuppi di acqua e fango come i miei pantaloni, ma non tanto da placare il solletico fastidioso della crescente curiosità.
Finalmente un passante: incrocio una tipa che fa jogging completamente fradicia, con le ciglia finte colate di rimmel e una lunga coda bionda: forse è un trans. Si scusa, non sa nulla del party nel bosco.
Cinque minuti più avanti vedo una donna peruviana con una bambina di 10 anni: si affrettano sotto la pioggia senza ombrelli, ma con grossi cappucci. Non c’è dubbio, vanno verso la festa.
“E’ la cerimonia della grande madre” mi dice in inglese, mentre la riparo con l’ombrello.
“Un’antica tradizione peruviana, vieni con noi, andiamo!”. La donna ha un viso dolce e oltretutto è con una bambina: non dovrei correre pericoli.
Accetto l’invito e mi preparo a un’esperienza indimenticabile: ci copriamo tutte e tre sotto il mio ombrello e rientriamo nel cuore del bosco.
People from Perù, Norvegia (Bergen e Oslo), Paraguay, Cina, Argentina, Cuba, Cile, Venezuela… chi suona, chi canta, chi mangia, chi beve, chi ride, tutti zuppi e sorridenti sotto la pioggia, una quarantina di persone estremamente ospitali, divertite dal sapermi arrivata lì casualmente e dal nulla: forse mi vedono come un dono del bosco per incrementare la multiculturalità della loro esperienza mistica.
Io, l’italiana con l’abbigliamento decisamente inadatto, con tanto di occhialetti da vista piovuti, con il fare impacciato di chi arriva lucido e imbucato a una festa già decollata, e che si ritrova abbandonato dal suo gancio con il festeggiato al centro della sala da ballo…
Ma Susanna, la peruviana portata dalla pioggia, mi rimane accanto finché non mi vede a mio agio: è molto amichevole e mi presenta a tutti con entusiasmo. Sento il calore dell’accoglienza incondizionata.
Probabilmente ho ancora un po’ di paura, ma mi sento allegra come una bambina in una stanza piena di bambole da scartare.
Susanna mi dice che da lì a breve inizierà il rituale: Carlos-detto-Inca ci sta chiamando a raccolta.
Pochi minuti e tutto si ferma: il silenzio del bosco fa da padrone. Ci ritroviamo tutti attorno all’albero di nata-carnevale e attorno a Inca.
Provo a indovinare nella mia mente il discorso che l’uomo dallo sguardo saggio reciterà di lì a breve e mentre lo immagino sento l’adrenalina salire: è fatta, ora parlerà del dono che ogni anno il bosco fa ai peruviani di Bergen, indicando loro un’anima smarrita da offrire come omaggio sacrificale alla grande madre, in cambio di prosperità, fertilità e altre robe. Sì, il dono di una forestiera da fare a fettine e cuocere sulla brace ardente ma vuota.
E cos’è quel tappeto nero che ora Carlos-detto-Inca sta srotolando ai piedi dell’albero?
Ah, certo, il mio letto funebre.
Inca ci invita a tenerci per mano attorno all’alberello secco vestito di pacchetti, stracci, piume di pavone, stelle filanti e palloncini: stiamo formando una catena di energia.
Il rito sta per avere inizio. Sento la felicità scorrere sempre più velocemente nelle vene, quella felicità che raggiunge la perfezione solo quando è condita da un pizzico di paurosa curiosità.
La felicità di essere in compagnia di persone tanto diverse eppure ugualmente libere e di aver perso completamente con loro ogni indizio spazio temporale. Incontro continuamente i loro sguardi: sono tutti appagati da quel momento, mi sorridono e mi infondono serenità.
Penso: seppure il mio scalpo dovesse finire appeso tra i palloncini dell’alberello, potrò dire di aver detto addio al mondo dopo un’esperienza collettiva di amore incondizionato.
Sì, tanto vale rilassarsi del tutto, quasi quasi mi spoglio pure della borsa a tracolla che mi impaccia e la butto nel mucchio insieme agli altri zaini al riparo sotto una tettoia di legno a una ventina di metri da noi; la mia borsa con il passaporto per ripartire l’indomani mattina per Roma, il biglietto per tornare indietro con la funivia, le mie carte di credito e i miei due telefoni – di cui uno già scarico.
Mentre ci penso su, decido intanto di chiudere almeno l’ombrello incurante della pioggia, tanto per sentirmi anch’io un po’ zingara.
Ma già non piove più e mezz’ora dopo uscirà addirittura il sole, il sole alto delle ore 21, che fa scintillare tutte le pepite d’acqua incastonate nelle foglie del nostro eden.
Sono emozionata.
Ma…
cosa agita quell’uomo al centro del cerchio? Non sarà mica una scure?
Sì, un uomo alticcio sta agitando un’accetta per aria: avevo visto bene prima! L’uomo ride con gli occhi rossi e le guance piene di couperose e si guarda attorno quasi debba fare una scelta. Quindi posa l’accetta sul tappeto nero e si ritaglia un posto nel cerchio di persone.
Io nel frattempo, tanto per sicurezza, la borsetta me la tengo addosso.
A questo punto Carlos-detto-Inca si inserisce nella catena umana e rompe il silenzio perfetto annunciando che parlerà in spagnolo e non in inglese per farsi capire dai più. Ma a quanto pare lo stiamo capendo proprio tutti.
Sta pregando a nome di tutti, ringrazia la grande madre, anima generosa e ragione di tutte le cose, e annuncia che le farà dono di beni molto cari. Si inginocchia davanti al tappeto nero e inizia a tirare fuori una busta di foglie di cocaina, una bottiglia di liquore particolare di qualche rara bacca peruviana, una bottiglia di vino bianco, tre sigari, un pezzo di legno. Tutto è a terra sul tappeto: sul tappeto e accanto all’accetta.
Ora Inca ci chiede di mettere sul tappeto un oggetto in nostro possesso: eccola là, mo me fregano qualcosa!
Decido di mettere l’anello che ho al dito: non è di valore ma ci tengo molto. Poco importa, voglio vivermi questo momento fino in fondo. Poi capisco che a rito concluso ognuno riprenderà le proprie cose – magari infuse di magici poteri… Bene, butto nel mucchio anche i miei occhiali 🙂
Quindi il nostro guru si alza in piedi, raccoglie il pezzo di legno e se lo fa accendere da qualcuno: ci spiega che si tratta del palo santo, il cui fumo ci avvolge di un odore squisito di incenso. Un ragazzo peruviano prende il palo santo fumante e cammina all’interno del cerchio per riempirci per bene le narici.
A questo punto un altro peruviano recita ad alta voce una preghiera davanti a tutti, imitato a seguire dalla ragazza di Oslo e da altri due ragazzi, ognuno nella propria lingua. Capisco poco e niente ma mi sento avvolta, e non perdo l’occasione di dire anch’io la mia preghiera – naturalmente tra me e me – non si sa mai…
Qualche minuto di raccoglimento, la conclusione di Inca e le danze sono aperte.
Tappeto nero e doni vengono portati via, rimane solo l’accetta che viene impugnata da Carlos-detto-Inca al centro del cerchio, mentre noi già balliamo tutti mano nella mano ruotando attorno a lui e all’albero. A questo punto… inizia la strage.
Invece no. 🙂
Inca scaglia due accettate sulla parte bassa dell’albero. Quindi passa l’arma al tipo con la couperose che dà altre due accettate negli stessi due punti sempre danzando e così via. Io darò ben 4 accettate all’alberello – alberello già morto e ripiantato lì per l’occasione: due timide all’inzio e due più decise dopo.
Per un attimo non sento più nulla suonare o gridare: vedo tutti attorno a me saltellare in allegria a rallentatore. Siamo tutti in perfetta sintonia, nessuno vuole mettersi in mostra e nessuno è lasciato in disparte: tutti sono ugualmente coinvolti.
La pioggia va e viene ma la musica non si ferma mai: i bongos impellicciati e fradici continuano a battere il tempo, la chitarra è suonata con maestria e il flauto di Pan e il flauto dolce sembrano suonati da un mago con il cappello a punta. Mi viene quasi da piangere: ma in realtà rido, stiamo ridendo tutti a cuore aperto.
E accettata dopo accettata, facile da immaginare, l’albero si spezza e cade a terra – senza fare troppo male a una ragazza che si trovava ahimé sulla sua traiettoria.
“Prendi anche tu il tuo dono, ce n’è uno per tutti”. Il cerchio si spezza e tutti raccogliamo una cosa dall’albero.
Il mio pacchetto sembra interessante, cicciottello e morbido: chissà che sorpresa…
…due cordoni blu.
La tradizione vuole che chi fa cadere l’albero diventi il padrino o la madrina della festa dell’anno successivo: l’anno scorso il colpo di grazia era stato dato da Helen, una ragazza di Bergen.
A questo punto il rito è davvero terminato ed esplode la fiesta!
Birra norvegese a fiumi e ballo libero scatenatissimo. Ogni tanto qualche fuori programma ci fa riprendere il fiato: l’uomo con gli occhi rossi e la couperose, che recita una poesia sul vino accompagnato da una chitarra cilena, o una donna sudamericana che canta una canzone triste sull’amore.
La cosa pazzesca è che sulle note della stessa musica ognuno balla nel proprio inconfondibile stile: balli argentini, danza orientale per la cinesina, una ragazza cubana sculetta sexy per tentare il suo amico, le ragazze norvegesi ballano a loro modo, chi balla la baciata, chi preferisce tenersi per mano e saltellare al ritmo dei bongos… Ogni tanto anche un trenino attraversa la pista o si riforma un cerchio danzante.
Nessuna tradizione, nessuno stile è infastidito o sovrastato da un altro.
E se è possibile nel mezzo del bosco di una Bergen fredda e piovosa, è possibile sempre e ovunque.
Prima delle 23 ci diamo tutti da fare alla svelta a pulire e a sistemare: ed è incredibile, ci allontaneremo da un posto rimesso perfettamente in ordine, senza un coriandolo di carta in giro. Ci allontaneremo da un bosco immutato.
Scatta la corsa sotto la pioggia per prendere l’ultima funicolare che riporta a Briggen.
Siamo circa in 20, molti sono andati a cambiarsi e ci raggiungeranno di lì a poco: foto di gruppo alle pendici del Fløyen prima di passare al secondo tempo nel mondo reale.
Ci trasferiamo in un locale dove c’è una band norvegese che suona musica dal vivo rock contaminato e che dopo un’ora passerà il testimone alla “nostra” band. Sì, capisco che i nostri che suonavano così bene sono una band vera e propria, la band stabile nel locale più cool di musica dal vivo in Bergen.
Inca canta e suona il flauto, il ragazzo del Paraguay e il peruviano dai capelli lunghi sono i chitarristi, e il cileno e un altro peruviano suonano due strumenti a percussione, mentre un ragazzo norvegese tiene il tempo con uno strumento rotondo di cui non conosco il nome: la gente del locale balla e si diverte e andiamo avanti per due ore.
All’1:10 finisce l’ultimo pezzo, non si può più suonare oltre l’una e già si è sforato ed è rischioso…
Anche la birra si può bere solo all’interno della catenella che divide i tavolini esterni dalla strada: una scelta di perbenismo mi spiegano.
Rimaniamo ancora per 4 chiacchiere ma poi una pioggia scrosciante ci costringe ai saluti: per altro io ho ancora la valigia da preparare e poche ore di sonno da dormire.
Ci scambiamo degli abbracci pazzeschi.
Ci scambiamo anche i contatti facebook e le mail.
Fanno parte anche loro del mondo reale:
Susanna, che con la sua dolcezza mi ha convinto a seguirla in questa esperienza indimenticabile; Carlos-detto-Inca, il saggio suonatore di flauto di Pan, che con le sue parole mi ha scaldato il cuore; Helen e Linn, le due ragazze norvegesi che mi hanno fatto scoprire la Bergen che si nasconde dentro la città vuota e che se fossi tornata a Roma senza conoscerle non mi avrebbe mai trafitto il cuore; Miguel Angel, il peruviano che insieme a un altro ragazzo di cui non so il nome mi ha invitato più volte a ballare e alla fine mi ha anche detto “quindi in Italia non si balla latino-americana…?” (ahahah! ‘:-) ), Juan Carlos e Marco Antonio, i due percussionisti; Tor, il ragazzo norvegese che quella sera si è fidanzato con Susanna; e tanti altri di cui non conosco i nomi ma che non potrò più dimenticare.
Loro, i folletti del bosco a me caro che mi hanno dimostrato che danzare in armonia nella diversità è possibile ed è il miglior mondo possibile.
Ore 2:00.
Riapro il mio ombrello e mi incammino verso l’hotel sotto la pioggia: sono felice.