Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2021 “Un Airone a Venezia” di Anna Bellini

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2021

Se ne stava immobile al limitare dell’acqua.
Ritto sulle estremità lunghissime, composto, di una dignità nobile e fuori tempo, proteso verso l’alto come a dover spiccare il volo da un momento all’altro.
Nulla di ciò che gli succedeva attorno pareva turbarlo.
Poi aprì le ali, si scrollò, guardò quelli che lo stavano fissando e disse: “benvenuti a Venezia, vi porterò a vedere cose diverse, per altre strade”.
In quel momento ho capito che sarebbe stato un incontro speciale.
Venezia a settembre splende ancora dei residui dell’estate e i visitatori, che ne prolungano e minano l’esistenza, non cessano di arrivare.
La stazione pullula, i ponti sono pieni di fotografi, i traghetti traghettano e un eterogeneo gruppo di persone è in attesa davanti a un etereo individuo in giacchetta verde chiaro e camicia rosa, riccioli
neri, occhi di velluto e gambe lunghissime.
A guardarlo pare davvero che possa volare o che il vento stia per sollevarlo come un aquilone o un uccello: magari un airone.
Per tutto il tempo della nostra relazione il punto di ritrovo è sempre stato lo stesso di quella prima volta: la piccola formella incastonata nel marciapiede davanti alla stazione che indica la posizione
della vecchia chiesa di Santa Lucia.

Ricordo che conduceva il gruppo parlando con aria estatica di una città che io non conoscevo al di fuori dei comuni percorsi turistici, raccontava di navi che rovinano i paesaggi e inquinano l’ambiente, di una chiesa piena di affreschi, romanica e fortunatamente aperta al pubblico, di rara bellezza e di certo mai vista: San Nicolò dei Mendicoli.
Lui pareva non aver consistenza. Ogni tanto balzava su di uno scalino e piegando le braccia come ali inarcava il dorso recitando i versi irriverenti di Giorgio Baffo, che sciorinava con il gusto di
scandalizzare: “Tette fatte de latte, e de zonchiada,/ pastizzetti, che ’l genio m’incitè,/ pometti, che la vita consolè,/ cara composizion inzuccarada…”
E poi non so neanche come mi ci sono trovata dentro. Alla storia intendo. Una storia che anche ora a distanza di anni sfugge a ogni possibile definizione. Forse “onirica” è l’unico aggettivo che può
rendere l’idea.
“Maestro… lustrissimo… giovane… Casanova…
Come ti sta?… dove ti va?… cossa ti fa?…”
Eco di gondolieri sull’acqua al nostro passaggio che lo salutano.
Tabarri per la festa dell’Immacolata, freddo sereno e Serenissima assolata, il Doge Dandolo e la crociata, e io mi perdo in quella sensazione fuori dal tempo, immersa in un tempo d’altri secoli,
consapevole di essere lì “in prestito”.
L’Airone in tabarro rosso è magnifico, superbo, di un’eleganza settecentesca, forse un po’ troppo esile, ma io non voglio fare il dottore e voglio credere al sorriso che mi assicura che così è sempre
stato: non si può essere sempre razionali e guardinghi, bisogna poter credere alle bugie, soprattutto se dette con grazia.
La lingua ha la dolcezza delle erre arrotondate sotto al palato e scivola sullo “xe”.

Sarei rimasta ad ascoltarlo solo per la musica della voce anche quando ripete mille volte cose già dette.
Venezia è la sua donna, già da molto prima di me, la sua amante, il suo unico amore, di lei sa tutto: il colore, l’odore, il sapore salmastro, conosce ogni calle e ogni giardino, indica le antiche pietre
inserite nei palazzi, i battacchi antropomorfi delle porte, gli anzoli incastonati agli angoli delle case e i diavoli alla base dei campanili.
Va in estasi per il riflesso del sole sulla nebbia e identifica il bagliore dell’anzolo del campanile di San Marco prima ancora che sia visibile agli altri.
La sua dichiarazione d’amore è stata suggestiva.
“Ti me piasi parchè ti sa la lingua e ti xe normale”, dopo una settimana aveva già cambiato versione ed ero diventata, “ti me piasi parchè ti sa la lingua e ti xe stramba”.
La lingua, che fortunatamente conoscevo per aver recitato Goldoni, mi ha dato parecchio da fare, ogni volta mi pareva di parlare traducendo dall’italiano, dopo mesi ho chiesto pietà e preteso che
fosse lui a tradurre in italiano.
“La xe una maravègia”, detta da me, restò per lui un regalo.
“Ti xe stramba come la marchesa Casati Stampa”, mi costrinse a documentarmi su chi fosse costei.
Con lei avevo forse in comune la libertà d’idee, i giri per il mondo, i capelli rossi, non certo il patrimonio o i debiti e neppure un D’Annunzio per amante.
Mi ha portato a palazzo Fortuny a vederne i ritratti, gli abiti e gli orpelli, perché mi facessi un’idea di lei e mi rendessi conto che in fondo non eravamo molto diverse.
Il concetto di normalità nell’ambiente artistico è come minimo suggestivo.
Che io fossi definita stramba da uno che non era certo da meno mi faceva pensare.
E poi ci fu la casa, la casa museo.
Me lo avevano suggerito gli altri del gruppo che lo conoscevano bene, insistendo che era da vedere, lui ci portava la gente in visita perché l’aveva riempita di opere sue.
È successo ai primi di ottobre, quando ci siamo ritrovati.
Mi ha fatto aspettare in giardino dieci minuti prima di farmi entrare.
Gli archi delle rose avevano solo foglie, il caprifoglio arrampicava la rete e tutto era curato al millimetro.
Gli oleandri potati, il grande cespuglio di salvia scintillante nell’ombra della sera ormai quasi notte, qualche ciuffo nell’orto che poteva essere di carote o prezzemolo o sedano; due palme infinite che sovrastavano la casa conferendole un’aria esotica di mistero e poi solo ombre quiete, senza luci.
La casa dentro era ancora più surreale.
Per fortuna conservo alcune foto altrimenti potrei credere di essermi inventata ogni cosa comprese le gigantesche opere a mosaico che coprivano le pareti.
Una ridda di colori, migliaia di tessere di vetro o di specchio o di tessuto, messe a creare geometrie che ne riflettono altre, che ne evocano altre ancora, in una teoria di spirali primordiali.
“La gioia di vivere” è un’opera magnifica, tutte le declinazioni dell’alba esplose dal centro alla periferia di un quadro grande almeno due metri per due.
Superbo e felice, come l’autore che mi guida trasognato da una creazione all’altra, presentandomele come fossero creature, pezzi di vita, nugoli di pensieri coagulati sulla tela, mescolati ai materiali e
pronti a passare nella mia testa per evocarne altri di altrettanto colore e gioia.
Per festeggiare ha stappato uno spumante di cui non abbiamo sentito il sapore perché troppo intenti ad abbracciarci.

Monteverdi riempiva di note una dimensione inesistente.
Io e lui non siamo mai stati in due, la malattia fin dall’inizio è stata il terzo incomodo.
Ho imparato subito che gli Aironi vivono preferibilmente a lume di candela immersi nel rosa.
La casa magica era dipinta di rosa, aveva tende dello stesso colore, perché è quello dell’aurora, e quando imbruniva le candele sparse ovunque gettavano bagliori sui mosaici che diventavano tremuli.
La camera da letto era una grande installazione.
L’Airone aveva recuperato e rimontato il letto in cui era stato concepito, un letto alto, come quelli che c’erano in campagna da mia nonna, e l’armadio e il comò pareva avessero la stessa
provenienza.
Ogni angolo era disseminato di citazioni.
Cesti di melograni e arance rendevano omaggio a Caravaggio, libri d’arte aperti su Tiziano e Tintoretto fungevano da Bibbia quotidiana a cui ispirarsi e copie in scala delle sculture di Bernini biancheggiavano sui tavolini di legno, dipinti alla veneziana, dalle forme più improbabili, in un gioco di equilibri assurdi che occhieggiavano decisamente al surrealismo.
Per capire la casa bisognava conoscere la storia dell’arte, almeno dal seicento ai giorni nostri.
Ci sono tornata ieri l’altro in Laguna.
Pensavo che non sarei riuscita a tornarci mai più.
L’idea di rivedere la formella nel marciapiede davanti alla stazione, senza lui ritto sopra ad aspettarmi, mi era insopportabile.
Ci sono andata per conoscere uno dei suoi amici che voleva conoscere me per raccontarmi i suoi ultimi giorni .
La nebbia è stata mia complice così non ho visto la laguna venirmi incontro, non mi sono neppure resa conto di passare il ponte, non ho visto l’isola sulla sinistra di cui mi sono dimenticata nome e
storia, ho visto solo i muri della stazione quando il treno si è fermato.
Il nostro punto di ritrovo era calpestato da manifestanti incazzati, l’amico mi aspettava sul primo scalino e il suo fiume di parole ha seccato tutte le mie lacrime prima che potessero spuntare.
Sembrava la Venezia normale, quella prima di lui, dove andavo a piangere la fine dei miei amori.
Ma l’Airone l’aveva cambiata per sempre.
L’aveva resa magica, ancora di più di quello che è, misteriosa al di là del mistero, e piena di fantasmi che percorrono le calli, si arrampicano graziosamente sulle vere da pozzo, scalano le
inferriate dei palazzi.
L’amico mi ha portata a vedere il Fondaco dei Tedeschi, appena inaugurato: l’Airone non aveva fatto a tempo a vederlo perché già troppo ammalato.
Gli sarebbe piaciuto il restauro e la conservazione della struttura splendida, forse anche i raffinati
negozi di oggetti di lusso che abitano i vari piani i cui scalini per accedervi sono tutti multipli di otto.
Il Casanova che era in lui avrebbe avuto un guizzo di gioia, lassù sulla terrazza sui tetti, alla vista della sua amata distesa ai suoi piedi: Rialto, il Canal Grande, l’Angelo di San Marco e campanili,
chiese, basiliche, canali e sole a trafiggere la nebbia che non resiste alla sua insistenza e s’è squarciata e io che trasognata lo sento citare nomi, date, stili, in una ridda di parole il cui suono
cantilenante ha il ritmo dell’acqua.

Mi sono girata per trecentosessanta gradi in modo da catturare tutto il possibile, convinta che, come lo avevo sentito, lo avrei visto, in controluce, la mano al cappello e i lunghi riccioli neri scomposti.
Le foto migliori, si fanno con gli occhi della mente e rimangono stampate nel cuore.

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3 commenti »

  1. Hai un modo molto originale di raccontare un amore. Con uno stile poetico e onirico ci porti dentro una Venezia magica, lui diventa un Airone che spiega le sue ali per attraversare la città e poi vola via per sempre. In bocca al lupo!

  2. Quanto amore per Venezia prima di tutto! Racconto sfavillante, vitale, poetico.

  3. Questo è un racconto davvero travolgente, intenso, struggente e magico!!! Travolgente perché entra nel personaggio, intenso perché lotta contro il destino, struggente perché muove empatia e magico, perché è un racconto che narra anche di Venezia, che è… più magica che unica! Complimenti alla narratrice Anna Bellini, che con la sua scrittura rapisce la lettrice.

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