Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2021 “La fontanella” di Giovanni Pezzino Rao

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2021

Dopo nove anni quella panchina è ancora la posizione migliore per osservare l’obitorio, nonostante il grande platano arrivi ormai a coprire una parte della facciata con le sue foglie appuntite gialloverdi. Tutta la vegetazione attorno rende fresche le sere d’estate, le più lunghe dell’anno, quelle con la luce arancione che bagna le colonne della facciata del palazzo, nascoste dietro al fumo denso della mia sigaretta, mentre sto qui seduto a grattarmi la barba. Medici e infermieri mi salutano con le chiavi della macchina in mano, a passo svelto verso il parcheggio nel cortile sterrato.

Il tonfo del vecchio portone di ferro e vetro, cigolante e malfermo, dà inizio alla mia notte. Faccio molto rumore la notte. Sbatto lo sportello dell’armadietto e vado picchiando i lunghi termosifoni bianchi con il bastone della scopa, mentre l’eco delle mie ciabatte risuona nel lunghissimo corridoio.

Seduto al grande tavolo vuoto della sala medici, con la Madonna in un angolo e la TV nell’altro, mangio la cena nella vaschetta di plastica, saltando da un canale all’altro e fermandomi solo quando trovo la pubblicità dei profumi con le modelle bellissime vestite d’oro e quelle delle automobili che imboccano sentieri a strapiombo sul mare o emergono dalle dune del deserto.

Spesso mentre sciacquo lo spazzolino mi guardo allo specchio: mi vado facendo sempre più simile a mia madre in quella piccola foto dentro il ciondolo che porto al collo, il naso mi si sta allungando e gli occhi si piegano all’ingiù. Mia madre era allegra, come una fontana. La vedevi illuminarsi se per caso trovava una lumachina rimasta intrappolata nella lattuga, ti prendeva per mano all’improvviso per andare a vedere i conigli che si erano spinti fino al ciglio della strada, camminando a passo svelto in punta di piedi, prima che scappassero via; era una scintilla, una scaturigine irrefrenabile di acqua e di luce.

Il corridoio verde penicillina coi muri alti cinque metri è illuminato da una fila di neon. Me lo faccio avanti e indietro tante volte per sentire sbattere le mie ciabatte, con le mani affondate nelle tasche della casacca verde, poi giro in fondo a sinistra e vado a vedere i morti.

Il pavimento della sala bluastra pende verso il centro e va a convergere verso la griglia di scolo posta sotto il lettino per le autopsie, lucido e splendente sotto il grande cono di luce bianca, solenne come un monumento.

Entrano tutti già morti, non ne ho mai visto respirare neanche uno. A me i morti non fanno né schifo né paura, mi danno piuttosto una sensazione di pace molto curiosa. Ne conosco solo il nome e il volto con gli occhi chiusi. Li guardo liberi e sereni sui loro lettini d’acciaio, sotto il lenzuolo. Mi sono sempre chiesto perché, tranne che in rari casi, anche per morire si debba tribolare. E nel vederli così, distesi e placidi, spesso tiro un sospiro di sollievo e chiudo il cassetto. A volte aggiusto qualche ciocca fuori posto oppure raddrizzo un piede scivolato fuori dal lettino. Il dolce volto di una arrivata oggi, sarà stata una mamma, con le mani rilassate sul ventre, non diceva niente dello strazio che avrà di certo lasciato in questo mondo, di uomini e donne che, nel momento in cui lei è distesa lì, stanno in piedi a fumare o a fissare il vuoto in attesa delle lacrime; giaceva, distaccata e leggera, senza un prima o un poi, non era più dei nostri.

Il sogno, alla fine mai realizzato, di fare il medico veniva da mio padre, che medico lo era per davvero. Quando ero piccolo la gente moriva di malattie antiche che oggi si curano con farmaci da due soldi. Ne vedeva di sofferenza mio padre, di morti strazianti e di agonie insostenibili. Ne parlava a voce bassa con mia madre, di sera dopo cena, sprofondato nella poltrona di velluto verde illuminata dalla debole luce giallognola del lume di ottone, mentre si stropicciava il viso con una mano sotto gli occhialini rotondi dalla montatura sottile. Spesso stavo nascosto lì in salotto dietro al trumeau in noce, tutto rannicchiato col mento in mezzo alle ginocchia, ad ascoltare. Quei racconti mi trasportavano accanto a mio padre al capezzale di un vecchio minatore paralitico, davanti alla branda di un soldato mutilato; davo una mano a cambiare le medicazioni, rimanevo in piedi a testa bassa, in rispettoso silenzio.

Poi la guerra se lo portò, si portò tutto e tutti. Mi rimase solo il ciondolo con i piccoli ritratti dei miei genitori.

Il mio battaglione si sciolse una notte in mezzo alla campagna deserta di un paesino vicino al fronte. In silenzio gettammo le armi nel fiume e ci guardammo l’un l’altro a testa alta, ognuno prese una direzione diversa e non ci rivedemmo mai più.

Trovai una bicicletta e pedalai per giorni. La polvere, densa e scura, confonde oggi i miei ricordi come confuse allora la mia strada. Poi ricordo che, all’improvviso, trovai un cartello stradale che indicava il mio paese. All’imbocco della strada principale trovai palazzine accorciate di due o tre piani dalle bombe, intere stanze a cielo aperto.

La fontanella della piazza era stata distrutta e lo zampillo che ne sgorgava bagnava il porfido grigio. L’acqua serpeggiava tra i detriti solcando la piazza con tanti rigagnoli neri che mi venivano incontro come tentacoli. Le ultime pedalate mi portarono davanti alla chiesa di Santa Lucia. I colpi della grossa maniglia d’ottone furono l’ultimo suono che udii, prima che don Mario apparisse da una fessura e afferrasse il mio corpo tra le sue braccia.

Tanta gente ricominciò a frequentare la parrocchia quando tornò la normalità. Anzi, ne veniva anche di più di gente, perché molti avevano scoperto Dio sotto le bombe che non li avevano uccisi. Ce n’erano tanti che un tempo frequentavano casa mia; erano compiaciuti dell’assistenza che don Mario mi dava in cambio di un aiuto in canonica, e al tempo stesso sollevati nel non dovere direttamente affrontare il disagio di parlarmi. Sorridevano compassionevoli ma da lontano, sollevando una mano dal fondo della navata, per poi congedarsi velocemente, lasciando qualche scatola ai piedi del parroco. Io lo vedevo come trattava quegli ipocriti, era sempre gentile e sincero quando li ringraziava e li salutava, non disprezzava mai nessuno. Io vedevo ipocriti, lui una mano d’aiuto. Lui sapeva che cosa poteva chiedere e cosa invece era impossibile ottenere dalle persone, e di più non pretendeva. I santi, alla fine, sono quelli che hanno la capacità di vedere sempre un po’ di più di quanto vediamo noi, e lui era un’aquila. Lasciava davanti alla mia porta un po’ dei viveri che riceveva in beneficenza, io gli facevo trovare i soldi che sarebbero serviti per comprarli, chiusi dentro una busta lasciata per terra. Rispettò la mia dignità nel silenzio e non mi restituì mai il denaro. Il primo giorno di lavoro da guardiano notturno mi accompagnò lui all’obitorio, e per tutto il colloquio con l’anziano medico legale mi tenne una mano sulla spalla, stringendola più forte ogni volta che si rivolgeva a me sorridendo con domande alle quali non dovevo rispondere.

Da nove anni ogni sera mi vesto come un medico e mi prendo cura di quelle anime e di quei corpi. Ogni sera sono diversi e ogni sera è come la prima.

Le bare sono sempre allineate in corridoio, pronte per le esequie dell’indomani. Ho trascinato una sedia accanto a una bara di legno lucido che non ha né fiori né una targhetta. Sono seduto qui, con il braccio steso e la testa appoggiata sulla cassa liscia. Tamburellando con le dita ad occhi chiusi mi entra in testa un motivetto che suonava sempre la banda davanti al mare. Volo in alto, fin sopra i neon appesi al soffitto e mi ci siedo a cavalcioni, dondolando sempre più forte. Canto il motivetto a voce piena, rido e piango e saluto il corteo di bare aperte che sfilano sotto di me. Tutti ricambiano il saluto ridendo a occhi chiusi. La mano di don Mario mi stringe la spalla mentre continuiamo a dondolare – Lo sai che fanno i morti prima di andarsene da qui? – mi dice sorridendo – Ti insegnano a stare zitto e ad ascoltare una storia. Servono a questo, a capire il senso della fine e come ci si arriva. E tu, come ci arrivi alla fine? –

È mezzogiorno quando mi sveglio. Seduto sul mio letto con i piedi nudi sul pavimento mi guardo intorno, senza cercare niente. Viene una musica da qualche parte, forse dal vento, e si mischia al vociare scomposto dei bambini che giocano fuori accanto alla fontanella, pestando i piedi nelle pozzanghere. L’acqua riga il cortile scorrendo tra le fughe del lastricato bianco battuto da un sole brillante. Dalla fontanella sgorga ancora l’acqua, non ha mai smesso.

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14 commenti »

  1. Giovanni, questo è uno dei racconti che mi sono piaciuti di più. Hai saputo creare un’atmosfera suggestiva, un racconto che si vuole far leggere fino in fondo. Anche a voler trovare dei nei si è in difficoltà. Magari sfoltirei qualche aggettivo, aggiungerei qualche virgola. Poi l’espressione ‘la guerra se li portò’ è scorretta, o comunque sarebbe meglio dire ”la guerra se li portò via’. Te lo scrivo solo perché sono commenti utili, tutte piccolezze comunque. Bella e originale anche la figura del protagonista e voce narrante. Bravo!

  2. Un gran bel personaggio, silenzioso, di quelli tangenziali alla società che non riescono mai a entrare nel cerchio (anche perché non ce lo vogliono più di tanto, probabilmente), e si ripiega a vivere mentre gli altri dormono, a guardare la vita in tv, a parlare con i morti, a cantare per loro. Belle le immagini dei corridoi e delle sale. Piccolissima nota su un’impressione che ho avuto: giustissimo l’uso della prima persona per un personaggio che parla soprattutto con sé stesso, ma a questo proposito il linguaggio in alcuni passaggi a me e’ sembrato più quello dello scrittore che quello del personaggio. Ma nulla toglie alla bellezza di un racconto solido ed evocativo che mi è molto piaciuto. Complimenti!

  3. E’ davvero una ricchezza ricevere i vostri commenti e i vostri suggerimenti, con i quali soltanto è possibile migliorare. In fondo sento che questo è il senso del concorso, un concorso di idee e di esperienze. Grazie!

  4. Un racconto che si fa leggere d’un fiato. In bocca al lupo!

  5. Mi piace molto il personaggio del tuo racconto, solitario, compassionevole verso le persone morte, e verso le sofferenze che precedono la morte stessa. Un essere umano bello.
    Complimenti

  6. Bel racconto, particolare nell’argomento e ben scritto. Hai saputo seminare in giro elementi per creare l’interesse così si arriva alla fine tutto d’un fiato. In bocca al lupo!

  7. Un’atmosfera assolutamente unica e descritta magnificamente, che per qualche minuto mi ha fatto vivere con gli occhi del protagonista.

  8. Mi è piaciuto moltissimo questo racconto. Ci sono il male di vivere, la solitudine, i sogni mai sognati (sognati per noi dai genitori), malinconia, forse rimpianto, ma non tormento.
    Il personaggio ha trovato un proprio modo di barcamenarsi. Lo fa come può, espiando in parte il senso di colpa per aver disatteso le aspettative della famiglia.
    La scrittura è estremamente attuale, visiva. Le descrizioni sono rese attraverso lo sguardo del protagonista e, per questo, chi legge entra facilmente in empatia.
    Complimenti!

  9. Grazie, Monica e Lorenzo, per i vostri commenti lusinghieri. Mi fa piacere che le mie storie arrivino a coinvolgere chi le legge. Grazie davvero!

  10. Dolore, malinconia e poesia in questo racconto ben scritto senza essere pretenzioso, come si conviene all’argomento trattato. La fontanella, ridotta ad un rigagnolo dalle bombe della guerra, torna a vedere giochi di bambini. Come le bare allineate nel corridoio in attesa delle esequie è “seme morto per altra vita”. Grazie per questa storia

  11. Grazie per le tue belle parole, Andrea.

  12. Malinconico e palpitante. Ben fatto! Solo un piccolo appunto: in certe frasi ho sentito la mancanza della punteggiatura.

  13. Grazie Valeria! Farò tesoro del tuo consiglio.

  14. Scrittura molto efficace nella resa espressiva, dall’ effetto malinconico ed evocativo. Molto bello!!

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