Premio Racconti nella Rete 2021 “Gli amori di Aracne” di Giovanna Albi
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2021Aracne di Colofone, tessitrice provetta, osò sfidare Atena nell’arte del tessere, millantando che la dea stessa avesse appreso l’arte da lei. Dopo la sfida, la dea, adirata per l’abilità della fanciulla, la trasformò in ragno.
Aracne, prostrata per la sua condizione, si rifugiò nei sogni della vita passata e, ricordando Stephanos, così gli ridiede vita:
“In questo penoso stato, io ti ricordo, Stephanos: tu sei la parte più potente della mia giovinezza e con essa coincido. Ti venni incontro con il mio sorriso adolescenziale, esile e flessuosa come una giovane palma; giocavo ancora con la palla vicino al fiume.
Tu mi ti facesti innanzi come un giovane leone, con il vigore del corpo occupasti la mia mente; io mi ritrassi, ne avevo paura. Conoscevo le lenzuola candide, il telaio e la palla; tu uscivi dal fiume riavviandoti i neri capelli. Lo sguardo intenso mi puntava sui seni piccoli e sodi. Io mi voltai: troppo potente per me. Poi mi adagiai a terra riversa, da lì ti ammiravo.
Sentivo il sapore del fiume dentro la bocca, l’odore dei tuoi unguenti, la peluria già formata. Ti osservavo mentre sorridevi con i tuoi amici: ognuno aveva messo gli occhi su una fanciulla; la tua preda ero io. Fingevo di sonnecchiare, ma ero assai desta; l’amore mi squassò le membra e persi il pudore. Sentii un caldo umore scorrermi lungo le esili gambe. Mi chiamavano sciuros (scoiattolo), tanto ero agile; sarebbe bastato un salto per sciogliermi tra le tue braccia. Ma…
Ma trattenni l’impulso, mi ricordai dei precetti di mio padre Idmòne; non potei tuttavia non ammirare il rilievo dei tuoi zigomi, la lucentezza dell’incarnato, la densità dei capelli. Camminavi eretto nell’allegra brigata, ti distinguevi dal branco. Ti appartasti, mi osservavi e sorridevi: sapevi che sarei arrivata. Rimasi sulla sponda del fiume ubriaca, come un naufrago all’ultima spiaggia, mi muovevo a fatica; la passione era un vino scuro che mi slacciava i gesti.
Giorni dopo ci rincontrammo al fiume; dimenticai gli insegnamenti di mio padre: ci fu un intreccio di corpi e di anime dentro la bruma del pensiero. Le membra si contrassero e si distesero nell’amplesso; scoprii la pienezza dei sensi. Eri un giocoliere abile con me, mi scavavi con gli occhi, mi leggevi dentro senza parole.
Nacque la più bella delle storie d’amore; mi ricordo i giorni sul mar Egeo: tu eri padrone del mondo, mi deponevi sulla battigia al risveglio e mi rubavi a me stessa. Eravamo ragazzi: avevamo rotto gli argini, eravamo entrati l’uno nell’altro, e non potevamo più uscirne.
Ci eravamo conosciuti nel mese di Ecatombelione (luglio), presagio delle più intense e devastanti passioni, ci possedevamo nei meandri di noi. La nostra storia fu lunga; non avevamo che fare l’amore, leggere d’amore, pensare e sognare l’amore. Io trascuravo il telaio, tu gli studi; era ormai estate: pochi anni dietro, una vita davanti. Sorridevamo al risveglio, le mani intrecciate, i corpi abbracciati. Le grigliate in barca, le mani nella sabbia, la bocca sapeva di onde, i capelli di salsedine. Le colline a spiovente sul mare disegnavano seni di donna; alle nuvole consegnavamo i nostri messaggi d’amore; il vento ce li riconsegnava e li depositavamo sulla sabbia.
Nulla più ci attirava se non un desiderio che ci desiderava. La natura ci era testimone; venne l’inverno: inalavamo i profumi dei boschi; ci pascevamo di rugiada, di pioggia, di neve. Amavamo la sfida, superare il limite, sentire brividi sempre più intensi, disertare gli impegni, non farci scovare.
Dopo due anni tornammo alla vita normale nella nostra Colofone; continuammo a frequentarci, ma io mi dedicavo anche al telaio e tu agli studi. In casa ci accolsero i nostri genitori, consapevoli di quanto sia travolgente una passione nata sotto il segno del cancro, nel mese di Ecatombelione. Per me la nostra storia sarebbe durata una vita e io tessevo il corredo per il matrimonio, ma un giorno nefasto “io ti amo, ma nuove esperienze ci aspettano”, tu mi dicesti.
Una pugnalata al centro del cuore; mi accasciai per il dolore. Non mi sono più ripresa. L’unica attività che riuscivo a coltivare era quella del telaio. Vedi, però, Amore, che destino mi è toccato in sorte per aver sfidato Atena e aver dimostrato la mia superiorità, ricamando la storia degli amori degli dei e dei connessi intrighi? O me infelice! Costretta a pendere da un albero e a tessere con la bocca! Non potrò più incontrare mio padre e la nobile madre, non i miei amici; non potrò più incrociare il mio sguardo col tuo, e mai più un giovinetto proverà passione per me, negletta dal mondo.”
Piangeva così, Aracne, e non poteva accogliere il feroce destino riservatole dalla dea Atena, che le aveva fatto a pezzi la spola e il telaio, l’aveva privata del suo splendido corpo e delle mani operose, trasformandola in un orribile ragno appeso proprio a quell’albero a cui voleva impiccarsi. “Tanto grande può essere la crudeltà degli dei, così puniscono la hybris dei poveri mortali, appena osano più di quanto è loro concesso? Quando un essere umano può dirsi libero sulla nera terra se non è svincolato dalla volontà degli dei? Come essi si abbattono contro chi solleva il capo, soprattutto se donna in una società patriarcale! Nulla concedono all’intemperanza giovanile, nessuna comprensione per una fanciulla che ancora non sa cosa significhi sfidarli. L’inesperienza, unita agli ardori giovanili, ha determinato il mio destino, e ora come fare? dove volgere lo sguardo?”
Piangeva e tesseva con la bocca in onore dell’unica dea che si sentiva di onorare e a cui era stata sempre devota, edificando altari e statue nel gineceo della casa del padre: tesseva la potenza di Afrodite, i suoi amori e le sue imprese. Si sentiva riconoscente verso di lei, che le aveva consentito di incontrare Stéphanos e l’aveva travolta nella passione che scioglie le membra, procurandole un inaudito piacere dei sensi e una benefica pienezza dell’essere.
Mentre tesseva, non si accorgeva della colofonìa, una resina vischiosa che colava sulla tela intessuta, imbrattando il suo lavoro, che diventava appiccicoso, come suole fare la resina con ciò con cui viene a contatto. Rimase così impigliata, la povera Aracne, finché la colofonìa non ne fece una palla, che non riusciva né a respirare né a muoversi.
Ne ebbe pietà Afrodite, e veloce corse sulla terra col carro d’oro. Si accostò ad Aracne, che non aveva più occhi per piangere né bocca per tessere, ed ormai sentiva l’anima uscire dall’orribile corpo. La rianimò e le infuse la vita, poi la nascose in una pioggia d’oro e la portò sul carro del padre fino al monte Citerone, tra l’Attica e la Beozia, per nasconderla allo sguardo di Atena. Certo la dea si sarebbe vendicata e avrebbe fatto scempio di lei anche ora, declassata a ragno.
La occultò in una caverna e, come per magia, la sfiorò sulla bocca resinosa, la baciò sulla fronte e la riconvertì in dolce fanciulla, infondendole una straordinaria bellezza e resistenza, a sua immagine e somiglianza. Poi pronunciò calde parole: “Hai tanto sofferto, Aracne, per l’ira di Atena; sbagliasti certo a sfidarla, ma lei già invidiava le tue abilità nel tessere: ha allontanato Stéphanos da te e, in concerto con Artemide, ha voluto che si volgesse alla caccia e disdegnasse la bellezza muliebre. Tanto può la potenza invidiosa degli dei; ma io, figlia di Zeus, so riconoscere il merito a chi onora la mia persona e quella di mio figlio Cupìdo, perché sa che l’amore muove l’Universo e che tutti, uomini e animali, soggiacciono alle sue leggi. Tu hai votato la tua giovinezza all’amore e hai amato il telaio con la stessa passione che hai tributato al tuo uomo; io ti ho osservata dall’Olimpo e, al momento del bisogno, non ho tardato a intervenire, ma ora devo tornare alla casa del padre e lasciarti qui sola ad affrontare la sfida per la sopravvivenza”.
Si allontanò come un fulmine, Afrodite, risalendo verso l’Olimpo attraverso l’etere. Rimase felice e basita Aracne, e si pose in ginocchio a ringraziare la dea ormai lontana…
Si aggirava circospetta e timorosa, la fanciulla, come chi muove i primi passi; non sapeva dove mettere i piedi. Pensava al pericolo scampato ma anche all’avventura che l’attendeva, e nutriva nel petto tanta nostalgia della casa di Idmòne. Si proiettava ora nel passato ora nel futuro e viveva una situazione surreale. Lei sola, lì, proprio in quel luogo in cui sopravvivevano i cacciatori, proprio su quel monte in cui abitavano le belve, e il cuore si stringeva di paura. Lei non era mai stata devota ad Artemide, era una fanciulla di mare prestata a un territorio a lei alieno, e perciò foriero di ogni timore. Stava facendo buio e le nubi scure si addensavano in cielo. Sentiva l’ululato dei lupi e il grugnito dei cinghiali, che si aggiravano fuori della caverna; le nubi si ruppero in un temporale violento mentre fulmini e saette tagliavano e illuminavano la volta celeste.
La paura le occupò l’anima e la travolse ; scoppiò in lacrime, Aracne, e cominciò la sua lamentazione: “O dea Afrodite, ritorna! Riportami alla casa del padre nella mia Colofone! Mai più solleverò l’ira degli dei, sarò una fanciulla temperata e modesta, saprò contenere gli ardori giovanili. Cosa ci faccio qui io, sola sull’alto monte, proprio io che aborro la caccia? Non ho un uomo che mi difenda e Stéphanos è lontano”. Al pronunciare questo nome, la voce le si spezzò in gola e piangeva e gridava senza sosta con gli occhi gonfi e il cuore a brandelli.
La sentì la ninfa oreade Eco, e i lamenti di Aracne si propagarono per tutto il monte e i territori vicini: si commossero gli uomini e gli animali, le pietre, i sassi, i monti, i fiori, le stelle e la volta del cielo. Al cessare del temporale, illuminò la caverna un coloratissimo arcobaleno.
I lupi e i cinghiali erano rientrati nelle loro tane, Aracne uscì fuori dalla caverna e osservò la natura in tutto il suo splendore; tutto le sorrideva intorno, e il monte Citerone si stagliava nella sua imponenza verdeggiante e dominava la pianura fiorita. Era arrivata la primavera. Rimase folgorata da tanta bellezza, e, quando spinse il suo sguardo più lontano, intravide i contorni di una esile e quasi diafana figura femminile che le si faceva incontro, echeggiando le sue parole di riconoscenza che rivolgeva agli dei tutti, specie alla variopinta Afrodite. Quando le due donne furono vicine a sfiorarsi, riconobbe in lei l’oreade Eco, cui gli dei avevano ridato vita, trasformando le quattro ossa consunte per amore di Narciso nella bellissima ninfa che era.
Le due avevano molto da raccontarsi: i loro amori lontani e irrecuperabili (Narciso ormai era solo un fiore), gli anni persi a inseguire l’oggetto maschile concupito, la durezza dei loro uomini che le avevano abbandonate, tutti compresi nell’idolatria della loro bellezza. Ora entrambe erano consapevoli che l’amore non è culto dell’immagine esteriore, ma il perfezionamento del Bello interiore che vibra all’unisono con la potenza della Natura madre.
Aracne aprì il suo cuore: Eco venne a conoscenza dell’atroce condizione in cui l’aveva relegata la dea Atena, dell’intervento dell’aurea Afrodite, della sua rinascita spirituale, di tutta la sua vita che sembrava ora un bellissimo viaggio sentimentale. Ora tutto poteva essere letto alla luce del progetto divino; il loro incontro era pilotato dall’Olimpo. Non avevano altro desiderio che abbracciarsi e diventare grandi insieme.
L’alba le colse mano nella mano; si misero in cammino; Colofone le aspettava…
Bellissimo, come sempre. Sei una garanzia!!
Molto fascinoso ed intrigante ti senti proprio ‘invischiata nella tela’ della storia. Bah..forse sarò una delle poche persone a non provare schifo forte per i ragni.( ho scritto anche un racconto) .I ragnetti mi tengono compagnia, così indaffarati , li osservo nei miei momenti oziosi, mi dico ma guarda tu che vita faticosa…Povera Aracne spero si stia rilassando con l’amica , qualche viaggetto, non in. Grecia però! Per farla breve, mi è piaciuto molto ! ( ma così pieno di rancore questo Olimpo !)
Invito i cari lettori a leggere il mio racconto. E’ una rielaborazione fantastica del mito greco di Aracne. Spero piaccia. Mi accingo a leggere gli altri racconti in concorso.
Grazie a Giulipsi e a Laura Florio
Racconto che mi ha trascinata nella storia della misera Aracne. Si capisce che sei esperta del mito. Originale la rivisitazione in chiave moderna. La chiusa fa sognare
Molto bello, ben scritto e curato nei dettagli, complimenti!