Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2021 “Rimembri?” di Claudia Vazzoler e Stefano Fontana

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2021

Da tempo le rotaie non sferragliavano sui binari e nessun altoparlante annunciava arrivi e partenze.

Le lancette dell’orologio della stazione erano cristallizzate sulla mezzanotte, sebbene fosse una vaga ora di un imprecisato pomeriggio. Quando la concezione del tempo viene meno si confondono i limiti che solitamente lo demarcano e tutto all’improvviso appare meno nitido.

Fiocchi di neve turbinarono e volteggiarono in una danza sinuosa.

Chissà da quanto nevicava, Ines se lo stava chiedendo, mentre saliva su quel treno destinato a rimanere fermo. Percorse lentamente il corridoio, indugiando a tratti lo sguardo sul finestrino.

Scelse accuratamente il vagone che l’avrebbe accolta, quasi fosse un rito magico.

 Aprì la porta scorrevole e sistemò accanto a lei il suo bagaglio: un grande zaino viola con due borracce nelle tasche laterali e all’interno tutta l’attrezzatura per l’arrampicata. La corda avvolta e arrotolata a parte. La sollevò, adagiandola su una vecchia cappelliera in ferro dipinto e doghe in legno.

Si sentiva intirizzita dal freddo e per alleviare quella sensazione estrasse dalla capiente borsa in cuoio il thermos che portava con sé, versandosi del caffè caldo nella tazza d’alluminio.

Fece il gesto di offrirgliene una tazza e lei acconsentì con un sorriso abbozzato e un timido gesto di assenso.  Per un istante i loro sguardi si incrociarono e le loro menti si lessero.

Agnese indossava un tailleur dal taglio elegante e confezionato con tessuti di ottima qualità. Una giacca grigio antracite abbinata a una gonna dello stesso colore, decolleté nere e tacco a stiletto discretamente alto. Sembrava rappresentare il perfetto connubio di femminilità ed eleganza.

I capelli castani erano raccolti in nodo sulla nuca e la montatura degli occhiali leggermente rettangolare rendeva ancor più piacevole quel viso rotondo. Sulle ginocchia teneva stretta una borsa in pelle dal design moderno e originale dalla quale fuoriusciva la sagoma di un pc.

Si guardarono, intuendo il rispettivo stato d’animo. Il Paese in cui vivevano era stato costretto all’immobilità per lungo tempo, a causa di un misterioso virus dilagante e, sebbene ne fosse stata proclamata la fine, la vita dei cittadini era ancora immobilizzata.

Quel treno che probabilmente non sarebbe mai ripartito era l’unico svago concesso. Lì era possibile raccontare la propria storia ad una persona che la annotava e registrava. Era quello il compito di Agnese: raccogliere testimonianze, riflessioni, pensieri, sfoghi e vissuti. Lo scopo era dare vita a ogni storia, creandone un racconto. Avrebbe donato, tramite la scrittura, la libertà che era stata negata. Il suo sguardo, nonostante l’abbigliamento impeccabile, rivelava stanchezza. Era provata dall’isolamento prolungato dovuto alla massiccia contaminazione virale.

 Il lavoro le aveva consentito di non pensare continuamente al numero dei contagi e ai proclami dei virologi che si avvicendavano nei vari talk show. Per due anni lei e i suoi concittadini avevano vissuto senza uscire dal proprio cancello di casa.

Agnese e Ines si guardarono negli occhi, una di fronte all’altra. Era la prima volta che si davano appuntamento in quello scompartimento. L’espressione era di reciproca intesa. Nonostante fossero estranee avvertirono quell’affinità che derivava dal sentirsi sopravvissute a qualcosa di più grande di loro. Le sovrastava un silenzio surreale: nessun rumore di motori o binari sconnessi.

Agnese ruppe il silenzio, decretando l’inizio del loro viaggio immaginario.

Accese il pc e con un’espressione carica di compassione pronunciò le seguenti parole: “Inizi pure a raccontarmi la sua storia”.

Ines, dopo aver distolto lo sguardo dal finestrino, rispose:

“Vede questa scritta sul vetro appannato? Qualcuno, entrato qui prima di noi, ha tracciato con le dita “Rimembri?”

 Ha scelto la lettera maiuscola e sembra invitarci a richiamare alla mente.

 C’è una bella differenza tra rammentare, ricordare e rimembrare.

 Rammentare riporta il passato alla mente, ricordare lo riporta al cuore, ma rimembrare riporta al corpo, alle membra.

È costruito su un semplice richiamo alla memoria. Non è solo forte di un suono lungo e lieve, piacevole da essere sussurrato, ma parla direttamente dell’organo, della funzione della memoria.

Rimembrare è un rievocare nella e con la memoria. Memoria in cui il corpo esiste sempre.

Si sta chiedendo perché le dico queste cose?

Perché il non poter più rimembrare riguarda la mia storia, quella di mio padre.

Rimembrare attinge ad una dimensione totale e profonda. Se mi rammento di quando scalavo le montagne emerge l’informazione della data, dell’avvenimento, dell’incontro con i miei compagni di cordata. Se ricordo percepisco un profumo o l’atmosfera. Ma se rimembro ci rientro cadendoci dentro appieno e sono lì. Chi ha lasciato questa scritta non ha scelto un verbo comune, da tutti i giorni. Ha scelto il vestito della domenica. Ha scelto la ricercatezza. Ha scelto un registro alto. Ha scelto una potenza a cui si deve ricorrere con proprietà.

Non lo vedo da due anni ed è ricoverato in un istituto nella città di Speranza.

Mio padre è malato di Alzheimer, sì sto parlando proprio di quella malattia del cervello che provoca un lento declino delle capacità di memoria. Tutto iniziò in un modo subdolo: cominciò a dimenticare alcune cose, per arrivare al punto di non riconoscermi più e di aver bisogno di aiuto anche per le attività quotidiane più semplici. Lui è ignaro di tutto quello che è accaduto nel mondo in questi due anni. Non ha visto le città fantasma, svuotate delle persone. E nemmeno ha notato le autostrade deserte con file di macchine abbandonate, aeroporti con carcasse di aereo lasciate nelle piste e vagoni ferroviari vuoti abbandonati nelle stazioni. Non sa che gli alimenti sono stati consegnati a domicilio e che a poco a poco sono venute meno tutte le ambizioni e le esigenze di possedere un’automobile, una bicicletta o un sogno.

Si è smesso di viaggiare, ma arriverà il momento di ripartire.

Mio padre non ha visto il trasformarsi delle città. Non immagina che l’umanità, bloccata e isolata da un virus, abbia costruito impalcature sopra i tetti, stanze sopra altre stanze e soffitti sopra altri soffitti.

Solo noi sappiamo di tutte quelle persone che, sperando di vedere oltre la soglia di casa, hanno ricostruito la vita in verticale con l’illusione di intravedere il mondo da lontano.

 Solo noi sappiamo che le città sono diventate tutte uguali, con grattacieli che sfiorano il cielo.

 I ricchi sempre più in alto a rincorrere le loro ambizioni e i poveri sempre più piegati verso il suolo.

Non gli racconterò tutto questo quando lo rivedrò. Anche se non mi riconoscerà gli sussurrerò dolci parole d’amore. Gli reciterò una poesia. Gli leggerò una storia per donargli un viaggio diverso e segreto. Piccoli sogni per pochi viaggiatori.

Gli parlerò della montagna e del tempo in cui la vivevamo assieme.

Mio padre si chiama Aldo, il secondo di tre fratelli nato sotto il sibilo delle bombe nel secondo conflitto mondiale. Seguirono poi degli anni poveri ma dignitosi cercando e trovando quello che serviva allora, un lavoro, una moglie ed una casa.

Solo una passione lo aveva distaccato dal ripetersi dei giorni duri, quello di scalare le montagne.

“La conquista dell’inutile”, come fu soprannominata nelle vecchie pagine ingiallite di un libro che divenne nel tempo una linfa. Lo nutriva al ritorno stanco da ogni vetta calcata.

Io ero bambina, ma vedevo i suoi occhi lucidi mentre guardava quelle foto in bianco e nero appena sviluppate. Scatti rubati a picchi rocciosi e ghiacci senza tempo, ed una foto di vetta insieme ai compagni di avventura baciati dal sole. E quel sorriso che raramente vedevo sulle sue labbra fra le pareti domestiche.

Avevo 13 anni quando mi chiese di andare con lui a scalare una delle sue montagne.

Chiesi “perché?” senza nemmeno alzare la testa dal libro che stavo leggendo.

“Perché è ora” sentenziò.

Partimmo all’alba del mattino successivo, non dormii un granché quella notte.

 Con il tempo capii che era “l’ansia del giorno prima”, quella con cui avrei convissuto negli anni avvenire prima di ogni scalata importante e che avevo accettato perché alzava la soglia di attenzione.

“Cristallo” si chiamava la Montagna che andavamo a scalare.

Ricordo il freddo e la fatica, la corda che mi strinse in vita per “tenermi” nei passaggi più esposti,

ricordo i “manca poco alla cima” ma questa non arrivava mai.

“Ricordo, Rimembro perché posso farlo”.

Il sole ci sorprese in vetta, mi diede un abbraccio, si congratulò con me e vidi quel sorriso che avevo visto nelle rare foto.

Ricordo stanchezza, ma non la gioia della cima e la preoccupazione per la lunga discesa.

Avrei voluto essere con un balzo temporale fra le sicure pareti domestiche.

Non potevo immaginare che quel giorno avrebbe cambiato per sempre la mia vita.

Nei giorni successivi alla salita il pensiero della fatica si dissolse come nebbia al sole.

Prevaleva una forza interiore, un appagamento indescrivibile per aver superato quelle prove, quei passi audaci, per aver vinto la paura un passo dopo l’altro ed ero arrivata inevitabilmente in vetta.

Avevo vissuto un’avventura incredibile che incrementava il suo valore con il passare del tempo.

Successivamente fui io a chiedere a papà di legarmi in nuove scalate, e fu così per molto tempo e molte vette. Papà era felice e orgoglioso nel vedermi piangere di gioia dopo ogni salita.

Con pazienza e impegno divenni molto brava ed autonoma con l’Arte dell’arrampicata.

 Alzavo l’asticella ad ogni uscita, mentre gli anni nello zaino di Aldo cominciavano a pesare inesorabilmente come macigni. Non si trattava solo dell’abbandono delle forze. Alle volte passava delle ore a cercare di ricordare il nome dei compagni di scalata e ricorreva poi alla ricerca del diario dove aveva meticolosamente annotato tutte le salite di una vita. Ma non erano solo i nomi dei compagni. Era la vita stessa che stava uscendo dal suo archivio mentale. Per qualche oscuro motivo, la sua mente aveva deciso di cancellare dei file dalla memoria. Un processo irreversibile che non accettavo e mi spaventava. Conoscevo il destino e l’esito di questa agonia.

Tuttora fatico a descrivere ciò che sento, dolore misto a rabbia, compassione, impotenza.

Successivamente incontrai Luca in un circolo di alpinisti, ci fu subito una grande intesa in cordata e nella vita stessa. Seguirono molte salite insieme.

Ogni volta che arrivavamo a guardare oltre la croce di vetta non potevo non pensare a quel lontano giorno del “Cristallo”, dove papà mi strinse forte sorridendo. Se penso che ora non mi riconoscerebbe mi si stringe il cuore.

E poi è arrivata questa pandemia che ha cambiato il volto di ogni cosa, è sparito il superfluo e tutto quello che ci avevano detto fosse indispensabile, e con questo si può anche convivere, anzi, con questo si può ricominciare.”

Annotato il racconto di Ines, Agnese sollevò lo sguardo e indugiò in un prezioso silenzio.

Cancellò la scritta “Rimembri?” con un lieve gesto dell’indice e udì, per la prima volta dopo tanto tempo, l’altoparlante annunciare nuove partenze.

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2 commenti »

  1. Molto profondo questo racconto, in poche righe due temi importanti: il valore della memoria e l’essenziale dell’esistenza.

  2. Affronti temi importanti: i ricordi, la memoria, la malattia, la situazione in cui siamo ancora immersi. Il tutto all’interno di un racconto poetico, e delicato.

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