Premio Racconti nella Rete 2021 “Questione di sangue” di Maria Nives Pasqualini
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2021Ciao mamma, hai visto che sono tornata finalmente. Sono passati quindici anni, è vero, ma sono tornata, te l’avevo promesso. Ogni promessa è debito, si dice.
Non mi aspettavi proprio stasera vero?
Eh già. Così tardi. Eppure lo sai che sono sempre stata una testa matta Sei già nella tua vestaglia rosa mamma, quella coi fiorellini ricamati.
Che carina.
Sono le undici di sera, e tu sei da sola. Il papà è morto, buonanima, quattro anni fa. Lo so anche se non sono venuta al funerale.
E Serena è via quasi sempre. Studia lei. E studia lontano.
Siamo qua io e te mammina. Possiamo parlare finalmente, e tocca a me.
Come mi trovi? Hai visto come assomiglio a mia madre, quella vera, che il signore la perdoni.
Hai fatto di tutto per farmi ravvedere, me lo ricordo bene. Ma non avevo il fisico.
Hai sempre guardato con fastidio i miei capelli rossi, tanti e sempre sugli occhi. Le lentiggini.
La bocca sempre imbronciata, mai un sorriso.
Come se ci fosse stato da ridere, cara mia.
Quando hai conosciuto mio padre io già c’ero. Lui te lo ha detto, ma questo non ti ha fermato. Volevi un matrimonio, e ormai non avevi più molte possibilità. Hai dovuto prendere quello che restava, un vedovo con figlia annessa.
Avevi trentacinque anni, è vero, ed eri già vecchia: le gonnelline sempre un po’ sotto il ginocchio, i capelli castani corti e a posto, gli occhiali con la montatura anni 30. Le sciarpette attorno al collo. Non dimentichiamo le scarpe simil ortopediche, tanto comode.
Come hai fatto non lo so. Devi essergli sembrata molto rassicurante dopo la prima moglie.
Io non ho molti ricordi di lei, ero piccola quando è sparita, e ancora piccola quando è morta.
Ho qualche foto però, rubata dal mucchietto che tu hai conservato sotto le mutande nel cassetto più nascosto del tuo armadio.
I capelli rossi li portava lunghi, disordinati, anche a lei coprivano gli occhi. Aveva un sorriso luminoso: in una foto mi stringe a sé, avrò avuto due anni, e sta sorridendo.
In un’altra ha una minigonna esagerata: trucco tutto sul mattone, anche il rossetto. E sempre piena di capelli ovunque.
Nell’ultima invece è seria, pensosa, quasi di profilo. Guarda lontano, forse si era messa in posa.
Era molto bella, il tipo selvaggio.
Mi sono chiesta spesso perché aveva scelto mio padre, che tutto sommato devo dire era più adatto a te che a lei. Ma chissà che bisogni aveva, non l’ho mai saputo.
In questi anni ho cercato sue notizie, senza trovare niente. Era orfana, forse veniva da un istituto, forse viveva da parenti. Ho immaginato tante di quelle cose su di lei, sul perché ha fatto quello che ha fatto. Sono stata furibonda con lei per avermi abbandonata. Per essere morta.
Per avermi lasciata con te. Furibonda anche con lei, oltre che con te.
Da quando è scappata di casa nessuno l’ha più nominata. La vita è stata tranciata con un colpo netto, un prima proibito, e un dopo da lì in avanti.
Mio padre è diventato un uomo trasparente: lavorava, mangiava, guardava la tivù.
Ogni tanto mi guardava, ma senza vedermi. Spesso veniva la nonna, che mi faceva compagnia tra abbracci lacrimosi, e povera la mia bambina, e il preparare la cena anche “per il tuo povero papà”.
Io ancora non andavo a scuola, ho cominciato in quell’anno lì.
E verso dicembre di quell’anno, un giorno è venuta una vicina a prendermi e mi ha portato a casa sua, senza troppe spiegazioni.
Sono tornata a casa due giorni dopo, e tutto è ripartito come prima.
Ero confusa, disorientata, triste.
Velocemente la mamma è diventata un ricordo lontano, fumoso. Talvolta mi chiedevo se fosse davvero esistita, perché non me la ricordavo più.
Le giornate avevano preso una loro regolarità: scuola, pranzo col papà che poi tornava al lavoro, e dopo un paio di ore arrivava la nonna, o una vicina. Facevo i compiti svogliatamente.
Poi cenavo. E basta.
Non potevo invitare amiche a casa, avrebbero dato fastidio.
Non potevo andare io dalle altre bambine, non sarebbero riusciti a venire a prendermi.
E poi, tesoro bello, sei spuntata tu.
Una sera il papà è arrivato a casa portandoti con sé.
Eri tutta sorridente, mielosa. “Mileeena… mio dio, povera bambina”
Mi hai abbracciata come se volessi stritolarmi.
Ho guardato il papà chiedendo aiuto: che dovevo fare? Come dovevo reagire?
Niente, come al solito. Quando mi hai mollata ho fatto quattro passi indietro, mantenendoli ogni volta che tentavi di avvicinarti.
Non ti guardavo con antipatia allora, credimi. Ma con perplessità e paura.
Siete andati via subito, ma da allora quelle visite sono diventate una costante: due sere alla settimana, il sabato e la domenica, tu eri lì.
Mettevi ordine dappertutto, ti occupavi della cucina, buttavi tutto quello che non ti “convinceva”: ti ricordi, dicevi proprio così “non mi convince”.
Sparirono tutte le cose di mamma, diversi vestiti miei, molti di quelli di papà. Qualche gioco, un po’ di soprammobili, le poche foto di “prima”.
Quando eri sola mi ignoravi. Quando arrivava qualcuno mi parlavi come se avessi avuto due anni, con la vocina. E non perdevi occasione di prendermi in braccio.
Ti ho chiesto un paio di volte se volevi giocare con me, o disegnare. Mi hai detto che casa nostra era un disastro, e tu non avevi tempo da buttare.
Ora di tempo ne hai.
Per quello sono tornata qui. Per giocare con te, adesso.
E vedo che mi dai soddisfazione.
Vivi qui da quando vi siete sposati, due anni dopo che hai conosciuto papà.
E anche io sono venuta a vivere qui.
Nonostante fossi in realtà figlia di “quella là”.
Sono sempre andata male a scuola. E a casa ero un disastro: disordinata, pigra, e col tempo molto ribelle, scontrosa, cattiva.
Sei rimasta pure incinta, pensa. Chi l’avrebbe detto che saresti riuscita.
Dopo dieci anni hai reso di nuovo padre il mio insufficiente padre: e di un’altra figlia.
Serena: assai migliore di me.
Intanto bionda. Poi buona. Simile a te povera figlia.
Però le volevi bene, e si vedeva. Eri paziente, amorevole. La vestivi da schifo, ma la baciavi e abbracciavi spesso. Vi guardavo da dietro i capelli, e poi tornavo in camera. Ma vi sentivo.
È allora che hai cominciato a tessere la tua tela: ora una figlia l’avevi fatta pure tu, ed era lei ad avere più diritti. Lo spazio per me cominciava a mancare.
Quando ho iniziato le medie, continuando a studiare il minimo, è cominciato il tuo assedio: i professori non erano contenti, ero distratta, parlavo e disturbavo. Rispondevo male.
E chissà da chi avevo preso. Tu ce l’avevi messa tutta. E anche il mio povero papà di sicuro non mi aveva fatto mancare niente. Quindi.
Quindi … ti sentivo la sera, quando uscivo dalla mia camera e mi avvicinavo non vista alla cucina… ho paura che farà la fine di sua madre.
Farà la fine di sua madre è diventato il titolo di quegli anni: per gli amici che vedevo, per le sere in cui uscivo, per come mi vestivo.
Per quando ho cominciato a fumare, e per quando ho cominciato a farmi le canne.
E per quando ho cominciato a usare tutto quello che trovavo.
Eri silenziosamente trionfante: avevo finalmente fatto la fine di mia madre.
Da lì alla cacciata di casa sono passati altri due anni: non si dica di te che non hai tentato di tutto per salvarmi, ma cari miei, “ce l’aveva nel sangue”. Mi hai portata da medici e psicologi. Mi guardavi con rassegnazione, e io stavo ostinatamente zitta.
Forse avrei potuto dire qualcosa credo, se mi fosse stato dato il tempo necessario. Se qualcuno si fosse seduto vicino a me, senza fretta, parlando del più e del meno. Verso la fine di un qualche pomeriggio avrei detto tutto, senza saltare niente.
Ma così non è stato mai. Perciò dovevo tornare qui, una specie di resa dei conti tardiva, capisci?
E guarda: sono davanti a te. E sono viva.
Cercavo una vendetta stasera, ma credo di averla già avuta: sono qui, ancora qui, viva. Viva, davanti a te.
Non avere paura. Me ne andrò, oltre a noi nessuno saprà mai nulla, non è necessario.
Sparirò, come ha fatto mia madre, perché avevi ragione: ce l’ho nel sangue.
Un bel pugno allo stomaco questo racconto. Un grido, il bisogno d’amore che si manifesta attraverso un rancore sordo che scava in profondità. Inquietante, a tratti commovente. Una storia che non lascia indifferenti e fa riflettere. Spero non autobiografica.
Bello, intenso.
Grazie Monica e Davide per la vostra lettura e le belle parole.
Quanto male può fare l’assenza di sentimenti, la mancanza di parole… Non è mai “questione di sangue” ma è un’ottima scusa per chi proprio non sa, non vuole amare. Ma voglio credere che Milena ce la farà…
racconto pieno di amarezza, ma anche di vita, a dispetto di tutto!
il rapporto madre figlia non è tra i più semplici e metterlo su carta in maniera cruda e realistica richiede abilità e coraggio. Qui ci sono!
Una lettura magnifica, niente, proprio niente di meno. Ti ringrazio Maria.
Racconto che si potrebbe definire una sorta di pietra tombale sul rapporto tra figlia e madre adottiva. Un rapporto che in questo racconto – confessione si evince essere sempre stato addirittura più assente che conflittuale. Mancanza di legame genetico, certo, ma anche e soprattutto di qualsiasi affinità. Narrazione cruda, che ferisce, ma sapiente e senza quelle trivialità nel linguaggio alle quali sarebbe stato facile cedere dato l’argomento trattato..
Grazie per la lettura e i vostri commenti: Claudia, Silvana, Anna, Jose, Andrea.
Un ottimo testo, davvero; lessico asciutto perfettamente in linea con le sensazioni che vuole trasmettere… bravissima…
Mi fa mozzato il fiato perchè descrive un’immensa verità
Bel racconto; l’ho trovato di notevole intensità. Lo scandaglio psicologico poi è raffinato.
Complimenti Maria, scorrevole il tuo racconto, nonostante scavi in profondità, e stimolante l’intreccio.
Ho corso con ansia lungo le righe del testo, desideroso di trovare conferme al mosaico che cercavo di riscostruire.
Bello leggerti Nives, anche se descrivi sentimenti duri, rabbiosi, forse “non sentimenti”. Anche io in passato ho parte con un racconto di “madre-non madre”, per cui empatizzo con la scelta fatta e concludo facendoti i complimenti per le parole scelte e per come ti renda possibile immaginare i volti, di chi parla, di chi viene descritto, anche nelle pieghe dettate dai rancori e delle cose non dette.