Premio Racconti nella Rete 2021 “Estratto autobiografico di una giovane frammentata” di Deianira Vaccaro
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2021Soffro di dissociazione. Il primo psicologo che ho avuto, così come i seguenti psicoterapeuti, e tutti i miei psichiatri, hanno detto che la dissociazione è un disturbo comune a chi subisce traumi. Il disturbo dissociativo dell’identità è la cosa che fino a qualche anno fa, o forse soltanto fino allo scorso anno, mi definiva in toto. Lentamente, ora, sto cercando di districarmi tra le maglie che la dissociazione ha tessuto. È scorretto dire che sia stato il disturbo a cucirle. Sono stata io, attraverso lui, ad averle prima imbastite e poi consolidate in una rete talmente resistente che, adesso, anche io, con difficoltà, riesco a spezzare e spesso non ce la faccio.
Disconnettersi dal proprio corpo può sembrare complicato e probabilmente lo è, solo che, per un certo periodo, per me, è stato davvero semplice farlo. Mi connettevo e disconnettevo da me stessa ininterrottamente. Un momento ero relativamente io a parlare o a fare le azioni più disparate, il momento dopo era solo il mio corpo. O viceversa. Un momento ero relativamente io che tentavo di fare qualcosa senza però che il corpo rispondesse al mio comando, un momento dopo, semplicemente, non ero. Non c’ero io e il mio corpo pareva un guscio abbandonato, a volte in posizione fetale, a volte semplicemente messo lì, ad osservare il vuoto, con pupille vuote, che trasmettevano solo assenza. In quei momenti non so dove mi trovassi, non tanto fisicamente (infatti ero a casa, o a scuola, o forse anche in giro per la città), quanto mentalmente. Il fatto è che non ho idea di dove si trovasse la mia mente. Non so che pensieri la attraversassero, non so cosa l’angosciasse o rallegrasse. Faccio fatica a capirlo anche adesso, figuriamoci allora.
Nitidamente, ricordo che ero spaventata dai rumori forti. Non tolleravo il suono della campanella o di qualcuno che alzasse la voce anche solo di poco. Erano uno dei miei tanti trigger, delle molle che mettevano in atto, che io volessi o meno, il meccanismo che si cela dietro ogni mia dissociazione. È relativamente da molti mesi che non mi capita di perdere il contatto con me stessa. Dico relativamente perché quindici o diciassette mesi o poco più, non credo siano molti. Riconosco però che sono un gran risultato date le mie condizioni precedenti. Purtroppo, però, non è detto che non ricapiti, non per forza a breve, non per forza ora, ma in generale. Potrebbero passare anni, decenni, e poi capitarmi di nuovo. Non so precisamente quale sia il mio pensiero al riguardo.
Le mie emozioni sono sempre state altalenanti e i miei stati d’animo cambiano repentinamente. Mi hanno sempre detto che sono lunatica e così non ci ho mai fatto troppo caso. Credevo fosse normale, essendo lunatica, cambiare emozione o sentimento (la cui differenza è enorme, ma allora non la percepivo affatto) da un momento all’altro e molto velocemente. Più o meno presto, scoprii però che no, non lo era, non troppo per lo meno. Attraverso queste emozioni, che, nel momento in cui sopraggiungevano, erano esondanti, si sono costruite le altre me: me i cui desideri spesso non potevano essere neanche ascoltati, me che erano di una violenza inaudita e quindi bannate dalla vita reale, me che erano autolesioniste a livelli che non potevo permettermi. Così, operando per anni sempre allo stesso modo, sono finita con il frammentarmi in tante parti. Parti che prendevano il sopravvento sulla me cosciente e che mi hanno resa artefice di più gesti di cui in parte mi pento, in parte no. Parti spesso in lotta tra loro, che hanno tentato e tentano ancora di spodestarsi l’un l’altra e di spodestarmi. Al giorno d’oggi, molte parti si sono riappacificate con la me sciente, molte, però, ancora no.
Due sono le mie identità che più in assoluto temevo e adoravo al contempo. Entrambe erano violente e aggressive ai massimi livelli, con un’unica, esorbitante, differenza: tutta questa violenza e aggressività una la scagliava verso chiunque gli si parasse davanti, l’altra verso se stessa, e quindi, contemporaneamente, verso me e in particolare verso il nostro corpo, unica cosa che avevamo tutte in comune. Così, vorrei dire che la prima volta che ho ricevuto una lesione da parte delle mie stesse dita, ero sotto il “suo” controllo. È falso. O meglio, non è completamente vero, ma neanche completamente falso. In quel momento non ero pienamente io, ma ero proprio io, allo stesso tempo.
Dicevo, la dissociazione, con conseguente depersonalizzazione e derealizzazione, sintomi che sono stati presenti a lungo nella mia persona e che in una certa quantità ancora persistono, scaturisce da un trauma, il più delle volte situato nella prima infanzia e per lo più prima dei cinque anni. Diciamo che anche il mio caso potrebbe rientrare tra questi. Si presume che le mie dissociazioni siano iniziate già da bambina, quando, a detta di mia sorella, «facevo quella da film», fino a presentarsi in modo debilitante nella tarda adolescenza. Dall’infanzia all’adolescenza ho sempre avuto ottimi voti a scuola, ma la mia personalità era già davvero provata e minata. Con lo scandalo della terza media, poi, si sono aperte ufficialmente le danze per i successivi traumi.
Sono tutti di natura sessuale, i miei traumi. Non posso dimostrarne nessuno. Non posso denunciare né tantomeno fare altro, in quanto, l’unico segno che hanno lasciato è il disturbo mentale. Non ho segni sul corpo e i miei ricordi sono talmente sfocati e sconclusionati che non sarei una testimone valida. Spesso non saprei neanche dire cosa sia accaduto o se ciò che è accaduto sia stato reale. Le tracce, però, sono rimaste, se non su questa carne che mi ostino ad odiare, sulla fragile mente che tenta di farci i conti. Sfibrati, i pochi neuroni rimasti intatti hanno tentato a lungo di non riportare al centro della memoria viva i frammenti di quegli orribili avvenimenti e, infatti, molte di quelle schegge affilatissime e mortali, che potrebbero cancellare definitivamente e per l’eternità i miei progressi, non si sono mai palesate. A nessun ricordo integro è stato mai permesso di varcare la soglia della me sciente, consapevole e perfettamente vigile. Ho solo pochi frammenti su cui lavorare e quei frammenti sembrano davvero surreali.
Le gambe di quella donna mi trasmettono ancora un terrore ferreo e palpabile, al punto che si potrebbe sezionare, ma, pur di proteggermi, la mia mente non riesce ad andare oltre quelle gambe sottili, avvolte nelle calze color carne. Il cuore perde i battiti ogni volta che quell’immagine prende forma nella mia testa. La paura torna a stringermi forte le viscere e rimango, come allora, paralizzata. Non emetto un fiato, niente. Non so dire, in quanto non lo ricordo, se quella che segue questa scena sia una violenza sessuale o meno. Tutto mi dice di no, eccetto le sensazioni che ho addosso: nauseanti. Tuttavia, quelle potrebbero essere una ricostruzione errata dei fatti elaborata a posteriori. All’epoca avevo circa quattro anni, mentre ora quasi ventidue.
Lo scandalo terza media, invece, lo rammento bene e risveglia sempre pensieri atroci. Per un lungo periodo decisi di ignorarlo. Proprio durante quel periodo, riuscii addirittura ad iniziare una relazione, tanto desideravo seppellire ogni dubbio o anche solo strane reminiscenze di quelle gambe e di quello scandalo. Alla fine, il ricordo delle gambe svanì nel nulla. Si risveglierà solo sette anni dopo. Spariva il ricordo delle gambe, peccato che veniva presto sostituito da quello delle sue mani. Non riesco a ricordare niente di quelle mani schifose. Nel momento stesso in cui mi svegliai e le sentii, la mia mente si scollò dal corpo al punto tale che potevo vedermi dall’alto. All’inizio il ricordo era confuso e non riuscivo a capire la prospettiva, non capivo l’inquadratura perché, effettivamente, l’angolatura era troppo strana. Alla fine pensai di aver fatto un incubo e che tutto quello non fosse veramente accaduto. Quando, poco dopo, mi chiusi in bagno a piangere, continuavano a scorrere le lacrime ma non riuscivo a spiegarmi bene il perché.
Ancora oggi, ripensando a sette anni fa, non so cosa sia realmente successo. Credo però che l’accaduto non fosse un orribile sogno, ma la tremenda realtà. Più vado avanti, più sono certa di questo, anche se non saprei come dimostrarlo né tantomeno come poter dire di non essere stata consenziente.
Per anni ho pensato di averlo permesso io, di essere io colpevole di ciò che mi era stato fatto e che, in definitiva, quello che mi era stato fatto non era neanche poi così grave: non si trattava di uno stupro, ma “solo” di una palpata al seno. Non potevo lamentarmi, tutto sommato. Non potevo biasimare neanche lui, d’altronde ero io ad essermi addormentata di punto in bianco. D’altronde… io ci sono rimasta insieme pur non provando più sentimenti per lui. Il minimo che potesse accadermi era che il male che gli stavo facendo mi tornasse indietro. Ancora adesso, non riesco totalmente a dire che non fosse colpa mia, anche se so per certo che è così.
Vorrei poter dire che ora, posta fine a qualsiasi relazione dannosa e iniziato l’ennesimo percorso riabilitativo, per di più con buoni risultati, riesco a vivere comunque la mia vita, anche con e nonostante l’ombra di violenze che non ho la certezza siano realmente accadute, tuttavia non è propriamente così. C’è da dire che, ai fini clinici, mi hanno detto che non conta molto se il fatto sia sussistito o meno. Conta come reagisco e, dal momento che io reagisco come se il fatto sia realmente accaduto, bisogna prendere per buona questa reazione e trattare il paziente, e quindi la sottoscritta, come se avesse effettivamente vissuto un abuso sessuale. Questa affermazione se da una parte mi ha consolato, dall’altra mi ha sempre terrorizzato. Perché? Perché non potevo e non posso più, in alcun modo, negare che sia accaduto qualcosa.
Fa paura affrontare la realtà, ma sono stanca della sentenza che mi condanna a non vivere se non frammentata. Sono stanca degli abusi e della violenza, fisica e psicologica, che mi sono stati impressi. Sono stanca di piegarmi di fronte al dolore che questi mi causano, stanca di perpetuare quei meccanismi e quegli schemi che mi colpevolizzano e continuano a farmi soffrire. La mia stanchezza però, per la prima volta, non è sinonimo di arrendevolezza. Per la prima volta ho la sensazione che, anche scoperchiando il vaso di Pandora, un giorno ne uscirò riedificata, con ogni parte al proprio posto, con ognuna che sosterrà l’altra e che l’aiuterà lì dove il fallimento e la disfatta sembrano dietro l’angolo.
Saremo una sola e saremo bella, anche con questo passato, anche portando il peso della nostra tristezza. Troveremo la forza di vivere. E vivremo.
Mi è piaciuto molto il tuo racconto. Hai descritto ogni sensazione facendomi pienamente immedesimare…
L’apertura positiva finale l’ho apprezzata molto!!
“Saremo una sola e saremo bella”: bellissima!
Sono davvero felice che ti sia piaciuto e che tu sia riuscita ad immedesimarti. Per quanto riguarda la conclusione, ci ho pensato molto ma, in definitiva, quelle mi sembravano le parole più adatte ad esprimere i miei sentimenti e sono contentissima che tu le abbia apprezzate tanto! Grazie.
Difficile commentare questo racconto che è anche tante altre cose: liberazione, cura, speranza, denuncia, condivisione, evoluzione. Ma la scrittura trasmette ed emoziona, e questo vuol dire che è andato a segno. Bello il finale positivo.
La scrittura come liberazione, come strumento per dare forma ai pensieri, liberare le ansie e lasciare che queste si depongano. Osservarle a distanza, condividerle fa sì che tutto risulti più accettabile e gestibile. Ecco che tutti i frammenti si mostrano per quello che sono e ogni tessera ha il proprio posto nell’insieme e non fa più paura.
Un racconto potente che arriva al cuore, ma anche una bella storia di coraggio e di forza e che si apre con fiducia verso un futuro lucente. Complimenti.
Il tuo racconto è diretto. Coraggioso, a dir poco. Si percepisce la forza della disperazione, spesse volte decisamente catartica. Proprio come nel tuo caso. Quando arriviamo a toccare il fondo, non possiamo che risalire. Questo sta accadendo a te: attraverso la tua profonda sofferenza, la disperazione è intervenuta spingendoti a guardare la realtà. La scrittura è strumento terapeutico. Scrivendo, dapprima l’hai raccontato a te stessa. In un secondo tempo hai deciso di condividerlo. Tutto questo è davvero importante e straordinario. Emerge la bellezza della tua anima e il desiderio di vivere. Ecco il tuo meraviglioso coraggio. Mi hai emozionata. Grazie dal profondo del cuore.