Premio Racconti nella Rete 2021 “Mezza briscola” di Danilo Paolucci
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2021Noi cugini eravamo tutti col sedere sul gelido pavimento di marmo rossiccio, spalle contro il muro della stanza.
Alla mia destra, i bianchi visi dei gemelli. A parte me, nessuno ha ancora capito che Giovanni ci ha il naso più lungo, due piccole macchie rosse ai lati della gobba, gli occhi di un celeste più acceso di quelli di Pietro.
Per il resto, sì signore, due gocce d’acqua; la stessa fronte spaziosa, i corti capelli grano, le orecchie un tantino a sventola.
Da quest’altra parte, la spalla di David sormontava la mia di almeno un palmo. Lo guardai in faccia: la bocca appesa, le orecchie infuocate nei capelli carota.
Oltre il suo faccione lenticchioso, la punta stondata del grosso naso di Enrico, pure lui seduto a gambe incrociate come noi altri. Allungai il collo. Accanto a Enrico, il biondo capoccione di Luigi appiccicato alla carta da parati ingiallita, i verdi occhi spremuti contro il tavolo al centro della sala, le mani giunte tra le cosce.
Con quei fini pantaloncini di tela blu di sicuro pure lui ci aveva le chiappe congelate.
Dal tavolo si alzò un brusio, tornai con le spalle contro il muro, la partita cominciava a momenti.
Nonno Umberto diede un grasso colpo di tosse e strofinò le spalle sullo schienale della sedia di legno. Pizzicò la sigaretta che spuntava dal pacchetto tra lui e zio Graziano e la infilò tra le labbra.
Zio strappò un prospero dal pacchetto davanti a lui, lo sfregò per la capocchia e fece la conchiglia fino alla sigaretta in bocca a nonno.
Un paio di labbrate e dagli angoli della sua bocca uscirono dei piccoli mostri di fumo che salirono verso il mostro grande sdraiato sul soffitto.
Tirai su forte col naso. A me l’odore delle sigarette è sempre piaciuto.
Una delle due teste bianche sedute dall’altra parte del tavolo si sporse verso il centro.
«Carte a te, Grazia’,» gracchiò qualcuno dei due.
Allungai il collo verso i gemelli, per rubare la visuale migliore. Giovanni scostò la testa, mi guardò con occhi da vipera e strusciò col sedere verso Pietro.
Nonno si schiaffeggiò i neri pantaloni di cotone, strusciò con la sedia sotto al tavolo e fece un altro giro alle maniche della camicia. Il suo braccio peloso era scuro come il carbone.
La testa bianca di fronte a lui gli mostrò un ghigno. «Sor Umbe’, ma il partito ancora non vi riconosce nulla per tutte ‘ste belle camicie rosse che portate sempre a spasso per la città?»
«Piantala Calime’, non ripartire…» lo imbeccò nonno.
Il tizio scoppiò in una crassa risata agitando la testa avanti e indietro.
Zio Graziano mischiò le carte fino a farle fumare. Poggiò il mazzo sotto testa bianca alla sua sinistra. «Alza, Forna’…»
Fornaro lo conoscevo per sentito dire, era padre a una bionda senza tette tutto culo che andava in terza c.
Ci hanno un grande forno a Via Acqua Traversa. Nonna ci comprava sempre il filone salato e tutte le sante sere le madonne di nonno le sentivano fino a Ponte Mollo e giù per Viale Pinturicchio, che per lui il pane doveva essere solo sciapo.
«Dico sul serio Sor Umbe’, il partito vi deve riconoscenza per quella faccenda del Ponte Duca D’Aosta…»
«Intingi, Calimero?» ringhiò nonno.
Zio schiarì la voce e iniziò a servire le carte. «È acqua passata, babbo, non farti il sangue amaro.»
Nonno ruotò la capoccia appresso alle carte che scorrevano lisce sul tavolo di frassino. Diceva che il frassino è il legno più pulito di tutti.
«Si, ma il Ponte sta ancora là,» ribatté nonno a zio.
«E che volevate che crollava, Sor Umbe’?» biascicò Fornaro.
«Babbo, non è che un cippo di marmo. Piuttosto, sta a te.»
Nonno spizzò le carte dondolando la sua piccola testa bruna. La chierica abbagliava sotto la calda luce delle candele del lampadario di ottone. «Ancora non ci avevo trentaquattro anni…» mormorò calando una carta.
Quel Calimero sbuffò addosso alle carte. Aveva la faccia abbrustolita dal sole. Sollevò le folte sopracciglia color ghiaccio e ne giocò una. «Io, per me, una targa, una cornice, qualche cosa ve la doveva l’Impresa Aureli. A uno come voi…»
Fornaro scattò verso il tavolo strusciando la sedia contro il pavimento. Girammo tutti la testa verso di lui. Gonfiò il petto e lanciò una carta con leggerezza in mezzo al tavolo. «Calimero non ci ha tutti i torti,» disse guardando pure lui nonno, «vi ci siete pure fatto male su quel travertino…»
Zio Graziano smaniava sulla sedia, il verde cuscino di feltro sbuffava sotto le sue vaste chiappe. «Ah, babbo, questa è verità,» disse con voce solenne. «La mano è tua, Calime’.»
Nonno torse il collo verso di noi. «Voi altri, chiamate nonna, se ci porta un boccione e quattro bicchieri.»
Luigi schizzò in piedi e sgommò come un gatto verso la porta alla nostra sinistra.
«Bah, questa vostra fissazione di giocare davanti ai monelli… non la capirò mai,» disse quel Calimero. Ci squadrava con la bocca a punta, come se volesse cogliersela e buttarla via.
Nonno mugugnò. «Sta a te, non pensare ai marmocchi. Loro non fiatano.»
Dalla porta del salone, il massiccio ciabattare di nonna. Girammo tutti la testa verso la soglia.
Penetrò l’aria con passi sordi, il tacco degli zoccoli di legno martellava il pavimento, i duri calcagni segnati da solchi fondi come ruscelli.
Con le dita della mano sinistra teneva appesi quattro bicchieri da trattoria, l’altro braccio spingeva un boccione di vino rosso sotto i grandi seni. Era una nonna enorme, la più grossa che avessi mai avuto.
Passò davanti a noi smuovendo l’aria sulla mia fronte sudata, il vestito blu di cotonina a fiori piccoli, il bianco collo, il mento di marmo, le labbra serrate.
Piazzò i bicchieri sotto gli occhi di zio e piombò il boccione accanto a nonno: il tavolo scricchiolò.
«Sora Anna, buonasera,» biascicarono in coro Fornaro e quel Calimero.
Nonna sollevò il mento peloso in aria e riprese a ciabattare per la porta. Sotto alla soglia si fermò all’improvviso, la testa innevata sulla spalla sinistra. «Voi altri zompa fossi, lo volete l’uovo alla cocca?»
Di colpo saltarono tutti in piedi come cavallette di fiume e corsero appresso al suo grande sedere che sparì dietro al muro.
Slegai le gambe e mi sollevai pure io. «No Silva’,» tuonò nonno con l’occhio di pesce sulla spalla sinistra, «tu resta, con te tra i piedi non perdo mai. Anzi, prendi la sedia là all’angolo, siediti qua tra me e zio.»
Ebbi un tumulto d’orgoglio in petto. Andai verso la sedia di legno accanto al comò, l’afferrai con entrambe le mani e la tirai su come una coppa. La piazzai tra zio e nonno e sedetti con aria audace.
Zio accostò i bicchieri tra loro. Fecero cin. Afferrò il boccione per il collo e lo sollevò portandolo a sé.
Allo schiocco secco del tappo Calimero aprì un ghigno a zio, la faccia carbonizzata, i bianchi capelli sulla fronte fini come spago, gli occhi pieni come la palla otto.
Zio riempì i bicchieri fino all’orlo e posò il boccione. Il tavolo scricchiò ancora.
Con la mano destra ne spinse uno sotto ai miei occhi e fino al braccio di nonno. Con la sinistra avvicinò gli altri due a Fornaro e Calimero. Acciuffò il suo e lo sollevò. «A papà, che per la famiglia ha mandato giù il boccone più amaro.»
Tutti mostrarono il bicchiere riboccante a zio.
Nonno si pizzicò i baffetti con le dita e storse la bocca, prese il bicchiere e si voltò verso di me. «Li vedi questi? Sono come le tarme da lana.»
«Glielo hai mai raccontato a Silvano?» borbottò Calimero.
Guardai nonno dritto nelle palle dei lucidi occhi marroni, lui mi scompigliò i capelli.
Le sue dita erano pesanti come pezzi di cemento. Un lungo sorriso gli allungò il naso a patata.
Rovesciò gli occhi verso zio. «Te la racconta lui la storia, visto che ti porta sempre appresso.»
Mi girai verso zio Graziano, lui buttò giù una grossa sorsata di vino e sbatté il culo del bicchiere contro il tavolo. «Sabato mattina torniamo a Tor di Quinto e chiediamo i calzoncini a Giorgio.»
Mi guardai il palmo delle mani, aprii e chiusi un paio di volte. Sentivo ancora la durezza delle fine maglie della rete intorno al campo di allenamento.
Fornaro si guardò intorno. «A chi stava?»
«Ha preso Calimero col gallinaccio,» bisbigliò Nonno. «Sta a te.»
«Scrivi, Calime’,» disse zio, con gli occhi sulle carte. Allungai il collo verso di lui, ma ruotò le mani e mi lanciò un’occhiata accigliata; la fronte ricoperta di onde, il nasone arricciato, gli azzurri occhi venati di ruggine. Tornai composto, accostato a Nonno. Con la coda dell’occhio sbirciai le sue carte: fante e asso di bastoni. Guardai il mazzo al centro del tavolo, il seme era proprio bastoni.
Calimero calò il quattro di briscola.
«Grazia’, e raccontagliela a Silvano ‘sta storia…» disse con tono aspro. Gonfiò le guance e sbuffò addosso alle carte. «Carica, Forna’!»
Fornaro agitò i bruni occhi arrossati a destra e sinistra, pizzicò una carta e scagliò l’asso di spade come una frustata sul tavolo.
Zio Graziano mostrò un grugno da cane randagio a nonno, sfilò una carta e buttò giù il cavallo di briscola.
Nonno diede una bella sorsata con risucchio e ripoggiò il bicchiere, afferrò l’asso per il tronco e lo rovesciò sopra il cavallo facendo scricchiare il tavolo un’altra volta. «E racconta ‘sta storia a Silvano,» disse. Ammucchiò tutte le carte contro il petto e fece un respiro lungo.
Zio lo fissò con aria severa, le nere sopracciglia frastagliate si sfiorarono. «Devi sapere, caro Silvano,» disse rimettendomi la mano sulla coscia, «che quando nonno ci aveva trentaquattro anni, la ditta Aureli lo chiamò per un lavoretto…»
Calimero e Fornaro sghignazzavano a bocca aperta.
Nonno serrò le labbra.
«Insomma, lo sai che specie di mastro era nonno tuo… ad ogni modo, lo chiamano per completare il cippo di travertino del Ponte Duca D’Aosta…»
Fornaro e Calimero scoppiarono in una crassa risata guardandosi negli occhi.
Nonno agitò la testa su e giù, su e giù. Pescò il re di briscola dal mazzo, posò le carte faccia al tavolo e schiacciò la cicca nel posacenere.
«Pagavano bene,» farfugliò, fissando il culo delle carte. Le riafferrò e giocò il cinque di spade.
Guardai fisso il suo pallido profilo scaldato dalla luce sopra la sua testa. Per me il Duca D’Aosta non era che il bianco ponte scintillante che porta allo stadio Olimpico, significava solo Giorgione. E mi pare abbastanza.
«Puntarelli?» borbottò zio verso Calimero.
«Due,» rispose lui. Giocò l’otto di spade e diede un’altra sorsata di vino.
«Dunque… dicevamo che Aureli chiama a nonno per sistemare il cippo di marmo del Duca D’Aosta…»
Calimero sghignazzò e si voltò verso nonno. «Ve lo dico sempre Sor Umberto, quelli volevano menarsi il vanto di avere lui in persona al foro!»
Nonno scattò dritto in piedi e scaricò un pugno tremendo sul tavolo che scrocchiò più forte ancora e si inclinò verso di lui. «Per la Madonna, questo no!» tuonò con la voce da orso.
Calimero pure saltò in piedi e fece un passo all’indietro mandando la sedia contro il pavimento.
Anche Fornaro era rizzato, gli occhi grandi addosso a nonno.
Zio agitò il pacchetto di sigarette e ne sfilò una.
Dalla porta piovve un esercito di scarpe contro il pavimento.
In un attimo erano tutti assiepati sulla soglia con facce di pietra.
«A queste condizioni non è più una partita da giocare,» disse Calimero con voce solenne. Guardava fisso il tavolo.
«Bè… vabbè, casomai ve ne andate!» berciò nonno e risedette con pesantezza.
Fornaro fece sì con la testa un paio di volte e storse la bocca. Calimero prese la via della porta del salone facendo il giro antiorario. «Buona serata a tutti,» sussurrò attraversando lo stretto passaggio lasciato dai miei cugini asserragliati sulla porta.
Nonno pizzicò via la sigaretta dalle dita di zio, la portò alla bocca e fece due lunghe tirate.
Risputò il fumo dal naso come un toro.
«Sor Umberto, vi ci mangiate il grasso del cuore con ‘sta faccenda,» disse Fornaro con le mani in grembo. Guardò zio e abbandonò il salone.
«Voi altri rospi tornate di qua!» gracchiò nonna dagli oscuri meandri della cucina.
In un attimo svanirono tutti nell’aria. Nonno schiacciò la sigaretta nel posacenere stracolmo, fece un altro giro alle maniche della camicia e si voltò verso zio. «Grazia’, gli somiglio così tanto?»
Zio sollevò la testa, gli occhi seri, le labbra serrate. «Più di quanto dicono tutti gli amici.»
Nonno si alzò in piedi e respinse la sedia col piede sinistro. «Bè… vabbè, casomai me ne vado a letto. Buonanotte.»
Lo scalpiccio delle sue nere scarpe opache svanì oltre la porta.
Guardai zio negli occhi. «Ma a chi assomiglia nonno?» gli chiesi con un filo di voce. «E perché è così arrabbiato col Ponte Duca D’Aosta?»
Zio acchiappò il pacchetto di sigarette e gli diede una sgrullata. «Ah, finite…» biascicò.
Agguantò il bicchiere di vino, una lunga sorsata e lo ingollò tutto. Sbatté il bicchiere sul tavolo e sbuffò un rotto con le labbra da cavallo.
«La natura, certe volte si diverte con le facce di noi altri,» disse e si alzò.
Virò verso il comò. «Però, a nonno tuo, che già ha dovuto mettere le mani sul travertino del Ponte che porta all’Obelisco di Mussolini…» aprì un cassetto scrollandolo nella guida.
Frugò all’interno con entrambe le mani. «Ah eccolo,» mormorò.
Si girò e tornò da me con un giornale piegato a libretto tra le mani. «Ecco… a lui gli poteva risparmiare la somiglianza co sta faccia…» disse e mi stese il giornale sotto al naso.
Spalancai la bocca, sgranai gli occhi, c’era nonno sul giornale.
«A lui, che gira con l’Unità sempre in bella vista nella tasca della giacca, ed è iscritto al partito da vent’anni!» disse zio. Lanciò il giornale sul tavolo inclinato verso la zampa da leone.
«Buonanotte Silva’…» Le sue vecchie scarpe da passeggio crepitarono contro il pavimento. Il giornale scivolò qualche centimetro sul tavolo pendente.
Mi sedetti alla sedia di nonno e fissai il giornale; era ancora più giallo della carta da parati del salone.
In prima pagina, sotto la grande scritta nera che proprio non capivo perché non era proprio italiano, c’era uno preciso a nonno, portava un cappello da generale con un’aquila dorata al centro, gli stessi piccoli baffi, lo stesso naso a patata, ma questo aveva gli occhi cattivi, quelli di nonno erano buoni, grandi come i baci di cioccolato.
Aveva ragione a essere incazzato, quello non gli somigliava per niente.
Interessante spunto per un racconto: una vecchia storia che si dipana durante una partita a carte, condita dai personaggi dai colori vivaci, sanguigni. Forse certi passaggi non sono chiari, ma sono inezie. Mi è piaciuto. Complimenti!
Che viaggio nel passato! Devo però dire per chiarezza che i miei riferimenti domenicali erano a quei tempi, e sono tutt’ora, nella curva opposta! : ) Detto questo, il racconto mi è piaciuto molto. Come le mezze stagioni, oggi non ci sono più i bambini di una volta. Qui invece ritornano, nelle parole, nei gesti, nell’attesa di un permesso per entrare o solo per avvicinarsi a quel mondo da uomini che non si capisce, fatto di carte, vino, e fumo. Di nonne che restano fuori dalla porta. Un tempo maschile, datato, trascorso, ma che qui si ritrova tutto. Una macchina del tempo alimentata da una scrittura dosata, meticolosa, materica e molto efficace. Complimenti all’autore.
Una storia d’altri tempi ambientata in una famiglia come tante, che in quei tempi erano famiglie normali..
una famiglia di quelle che oggi non se ne vedono più.
Bravo, spero che la tua storia faccia riflettere un po’, oggi giorno (pandemie apparte) quale famiglia passa le domeniche o un giorno estivo qualsiasi tra fratelli cugini genitori nonni zii, tutti insieme nella casa dei nonni a giocare a carte o a morra, con i ragazzi incuriositi.. come avrebbero detto i nostri vecchi: adesso non è più vero niente.
Complimenti Danilo Paolucci
Grazie e tutti per le belle parole!
Racconto che si legge molto bene e riporta il lettore a tempi più genuini e famigliari dove una partita di carte era il divertimento anche dei più piccoli.
Bravo.
Novella d’altri tempi. Gli infiniti particolarI riescono ad immergerti perfettamente in un altra generazione, proprio come la mia. Davvero un gran penna questo Danilo!
Tempi passati eppure così viva questa storia, bravo!
Grazie!