Premio Racconti nella Rete 2010 “Il mimo” di Emanuela Fontana
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2010
I bambini guardano e ridono, i cani mi fanno la pipì sui piedi, i vecchi qualche volta mi ringhiano contro. Ma io non posso rispondere, non posso muovermi. Fermo. E’ il mio lavoro, sono un mimo. Faccio la statua e oggi devo decidere della mia vita.
Fino a questo momento ho guadagnato bene, una cinquantina di euro al giorno, sei ore di posa, qualche soldo speso per il trucco. Mi alzo la mattina alle sei in un appartamento di tredici metri quadrati che pago cinquecento euro al mese. Faccio colazione e mi preparo. Ho bisogno di due ore di trucco. Mi spalmo di crema dorata dall’attaccatura dei capelli fino all’ultimo pezzo di pelle visibile. Sono così abituato, a tenere questa pasta sul corpo, che quando la tolgo la carne brucia. Si secca senza trucco e non con il trucco, ma questa è solo una delle deformazioni di questo mestiere.
Gli abiti che indosso sono già dorati, come bagnati in un amalgama giallo, ho solo bisogno di rinfrescarli ogni tanto. Indosso un paio di pantaloni sdruciti, scarponcini da lavoro, una camicia larga con le maniche rivoltate e un gilè. Tutto è d’oro. Faccio la statua del minatore.
Il trucco più difficile è quello delle mani, ma intorno alle nove sono pronto. Ho imparato a non sentire più il caldo. Come i monaci buddisti che apprendono a non farsi indebolire dalle stagioni o dagli insetti, io mi sono addestrato a rimanere immobile nonostante tutto. Penso per sei ore che sono una statua, un pezzo di marmo, e allora la mosca che mi stuzzica il naso mi sforzo di non sentirla. E allora sudo. Ma è come se sudasse una statua.
Mi è occorso un esercizio di due anni per arrivare a questo punto. A casa e fuori. I primi tempi resistevo due ore, e ogni trenta minuti mi era necessaria una pausa. Poi, piano, quel tempo si è allungato, e io sono diventato una pietra.
Quando rientravo a casa, al posto di struccarmi e rilassarmi sul letto, rimanevo con l’oro colato sulla faccia, seduto sul materasso, a guardare il muro. Mi risultava sempre più difficile pulirmi del trucco. Finché, pur facendolo, io non sono più stato capace di condurre una vita normale. A parte il tempo necessario a fare un po’ di spesa per non rimanere completamente digiuno, il resto delle ore le trascorro in poltrona o sul letto, fisso, fermo.
Tolti gli automatismi come l’andare in bagno o mangiare, io ho perso la vita. Non riesco più a muovermi. E’ come se il mio corpo non fosse capace di esprimere con uno slancio, di una mano, di un ginocchio e persino degli occhi, qualsiasi desiderio. Fino a oggi mi è sembrato di non desiderare nient’altro se non la mia pietra. Immobile. Fisso, fermo. Fino a oggi, e questo è il problema.
Ho lavorato di mattina, e allora mi sono svegliato alle sei e per le nove ero pronto. Tutto come avevo stabilito, la statua che si prepara per la sua messa in scena. L’oro sul viso, il trucco difficile delle mani. Ho indossato gli scarponi, i pantaloni sdruciti, la camicia con le maniche rivoltate, il gilè.
Sono uscito e ho camminato più in fretta possibile. E’ come se, truccato da statua, io abbia ancora più urgenza di fare la statua. Essere di pietra fuori mi imbarazza, se sono in movimento. E quando arrivo al posto stabilito, e poso a terra, contro un muro, un cubo di polistirolo, e mi ci appoggio come un minatore stanco, allora finalmente torno tranquillo. Perché divento fermo.
E così anche questa mattina. Un bambino e la sua sorellina si sono presi gioco di me. Il bimbetto ha iniziato a darmi pizzicotti sul naso. Ma io ho fatto la statua e non mi sono mosso. La bambina ha preso a tirarmi i capelli, d’oro anche quelli. Li rendo così con uno spray che mi costa molto, ma come farei, la statua d’oro con i capelli neri?
Poi la bimbetta ha provato ad allungare verso la mia bocca il suo gelato. Io ho sentito un profumo di fragola, e non so se venisse dalla bambina, o dal gelato. Le pietre non pensano, le pietre non devono fare domande. La madre ha lasciato cadere una monetina nel mio cappello aperto a terra.
Poi è passata una vecchia pazza. La vedo spesso da queste parti. Gira la manopola di un carillon ed è così triste quella musica, che la gente si allontana. O forse è lei a fare ribrezzo, coperta di stracci cosparsi di briciole.
La vecchia mi ha guardato e ha riso con quel suo occhio folle, rivoltato, dove non brilla la ragione, e nemmeno la pietà per un mimo, per la mia pietra.
L’ho lasciata passare con il suo carillon e non l’ho seguita con gli occhi. Anche quello è un movimento, e non me lo posso permettere. O non ne sono più capace, non so.
Poi è arrivata una ragazza. Le ho visto solo i piedi, e le gambe fin sotto al ginocchio. Il minatore d’oro è stanco, ha lo sguardo abbassato, la statua che sono io ha sempre gli occhi rivolti alla terra. Per questo vedo solo bambini, e matti, perché i bambini sono piccoli e i matti ti si avvicinano di più.
Di questa ragazza ho visto i piedi, e sembravano quelli di una bambina. Eppure non erano piccoli, calzava sandali femminili con un tacco leggero, color oro, come la mia pelle. Erano le dita che me li facevano sembrare da bambina, ma forse ancor di più le caviglie, non sottili, neanche grosse, ma solide, da adolescente, o da cerva alle prime uscite, fiere.
C’era qualcosa in quei piedi e in quelle caviglie che ha intaccato per un attimo la mia pietra. Io ero fermo, ed era ferma anche lei. Non potevo alzare lo sguardo, perchè sono un mimo. Ma ho iniziato a farlo un poco, piano, come se anche quello fosse un esercizio.
L’ho imparato durante l’addestramento, rallentare i movimenti come se non fossero movimenti. Un secondo, poi un altro, e nessuno che se ne accorge, solo il mimo, la statua.
E così, contravvenendo alle mie regole, alle mie abitudini, e alla mia noia, per la prima volta ho alzato gli occhi fino alle ginocchia, che erano sfiorate da un vestito verde chiaro, con minuscoli fiori stampigliati, e poi li ho alzati ai fianchi, stretti, ma rotondi, e poi fino alla vita, sottile, da cui partivano dei piccoli bottoni. Ma io non potevo salire la corsa dei bottoni, dovevo andare piano, rallentare i movimenti come se non fossero movimenti.
E così ho fatto, e ho seguito la mia disciplina, e allora ho salito piano, un bottone alla volta, come se ogni bottone fosse un gradino, e ogni gradino un’attesa. E ogni attesa una contraddizione al mio essere mimo, statua, pietra.
Finché i miei occhi si sono posati sulle onde dei seni, morbidi, mi sembrava, e questa morbidezza mi ha trasmesso un brivido che ha fatto sciogliere una piccola goccia di sudore sull’oro della mia guancia.
Mi sono concentrato ancora, per seguire il mio esercizio, ma sentivo che c’era un’ansia nuova, insolita per una statua, per la mia vita di pietra. I bottoni erano finiti, e rimaneva solo un pezzo di pelle non chiara, non scura, d’oro, mi è parso, da seguire senza farmi vedere, per salire più su, con il movimento senza movimento. E allora prima ho visto una bocca sottile e rossa, incendiata, e poi la linea d’oro della pelle mi ha portato più su, lungo narici piccole, di un naso così simile a quelle caviglie, spavaldo, da adolescente, e poi ancora su, agli occhi. E allora mi sono accorto che erano gli occhi di una donna. Nocciola e intensi, d’oro.
Questi occhi mi stanno guardando. C’è l’oro che mi osserva e non si cura del mio aspetto da statua, non mi guarda come una pietra. Mi sento un uomo, è mai possibile? Tutti gli esercizi, e quelle mie manie, lo stare fermo e immobile, fisso, anche in poltrona, sul letto, nella mia casa. E’ tutto così rassicurante, la mia vita, il mio trucco, il mio oro. Ma ora c’è un problema.
C’è quest’altro oro che mi guarda, e io devo decidere di me. Per la prima volta la pelle mi brucia sotto il trucco, non a casa, quando la carne torna a respirare, come mi capita sempre, ma ora che sono statua, con l’oro addosso.
Ci sono bambini, adulti, turisti. Forse non si sono nemmeno accorti che ho alzato lo sguardo. Mi osservano e alcuni ridono, altri si mettono la mano sulla bocca, stupiti. Come sempre, tutti i giorni è così.
Lei mi sta osservando e io sono fermo, fisso, immobile. Mi guarda e ora che fa. Abbassa lo sguardo, lo abbasso anch’io. Vedo le sue caviglie che si muovono. Le dita dei piedi che spingono a terra, si stendono.
Le statue non possono rincorrere, non possono avere guizzi, sentimenti, sorprese. L’oro mi imprigiona, ma c’è quell’altro oro che sta andando via.
Lei non si volta, prosegue sulle sue caviglie fiere, sui piedi lunghi e da bambina. E io qui, fermo. Sento un ruggito che mi sale dal petto, più forte degli addestramenti, del trucco, della mia disciplina e della noia. Non lo conosco.
Sento la mia voce che grida: ‘Aspetta!’. La pietra ha parlato.
I bambini si allontanano, i turisti mi guardano con una smorfia. Che statua è, si stanno domandando, è solo un trucco. Una messinscena, finto. Ma lei si ferma, le caviglie si fermano. Le dita non fanno più pressione sui sandali: si piegano, in attesa. E aspetta.
Che bella descrizione dei sentimenti … di una “pietra”. Brava! In bocca al lupo !!!!
Grazie mille Carmela!!! E grazie per aver letto il racconto. E’ una pietra coraggiosa 🙂
La parte in cui i suoi occhi salgono lentamente per tentare di catturare le forme di lei è di un erotismo straordinario 🙂
Bello, soprattutto per la cura nel descrivere i movimenti…e l’immobilismo. Grazie!
Mi è piaciuto, è ben scritto. Delicata descrizione di pensieri e immagini. Brava!
Anche a me è piaciuto molto, oltre le parole ho potuto immaginare tutta la scena, non hai trascurato i dettagli e il lettore ha potuto gustare quella “scoperta” dei sentimenti…in bocca al lupo.
Bellissimo e toccante. Viene voglia di sapere come andrà a finire… lei lo sta aspettando, ma lui sarà tanto coraggioso da raggiungerla?
Grazie grazie! Scusate il ritardo, ma ho fatto un pasticcio con la password. Io vorrei che fosse coraggioso, sì…Che iniziasse a vivere…
Come vedi ce l’hai fatta !!!! Meritavi di vincere. Il racconto è proprio delizioso e … fa riflettre. BRAVA !
Complimenti e … auguri per nuovi successi.
tanti auguri sono contenta che un racconto che è piaciuto a me personalmente abbia vinto…
Nell’immobilismo forzato e voluto c’è tutta l’intensità della vita. La scrittura trasuda emozioni, sensazioni, sentimenti, desideri, aspettative, sconfitte e vittorie. Un racconto che sembra finito/infinito, aperto/chiuso, ma le parole continuano anche dopo il punto di chiusura.
Dire che è bellissimo è riduttivo e superfluo,
Grazie per le tue parole
Carmina Trillino