Premio Racconti nella Rete 2010 “L’uomo del ponte” di Emanuela Fontana
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2010La mattina in cui pescarono mio padre dal fiume indossavo un cappottino verde e avevo le mani sporche di blu.
L’avevano tirato su, dissero, come se fosse un pesce.
Dragavano il fiume da due giorni, sembrava che cercassero l’oro. Ci telefonarono a casa.
“Hanno trovato papà”, annunciò mia nonna.
Lo disse come un sollievo. Uscimmo a piedi. Pioveva.
Io mi appoggiai alla balaustra del ponte con tutto il mio peso, e aspettai che le barche lasciassero il fiume con il loro pesce, mio padre, fasciato in un sacco come un bozzolo di farfalla.
Se la transenna avesse ceduto, sarei caduta nel fiume, anch’io. Le mani mi scivolavano sulla balaustra. Erano bagnate di acqua e sudore. Ma sotto le maniche avevo freddo, e i denti mi sbattevano più veloci della pioggia. Chiusi l’ultimo bottone del cappotto con le mie dita blu. Salutai con gli occhi le barche lontane. E fu allora che lo vidi. Sul ponte di fronte c’era mio padre. Che mi guardava. Vivo.
Iniziai a dirlo quella sera a mia nonna.
“Ho visto papà vivo”.
Lei stava mescolando la minestra nel piatto con il cucchiaio per farla raffreddare. Quando le dissi così, non mi rispose con una parola.
Continuò a rimestare la poltiglia che aveva sotto il naso. Poi mi guardò: “Hai fatto i compiti? Devi tenerti in pari per quando torni”.
Non disse niente di mio padre.
Il giorno dopo tornai al ponte indossando un maglione giallo. Volevo che, da lontano, mio padre mi notasse e mi desse un segno di saluto. Rimasi per almeno mezz’ora a controllare. Infilavo lo sguardo tra i ramoscelli e i cespugli ai lati della balaustra di fronte.
Quando stavo perdendo le speranze, finalmente mio padre comparve. Da lontano mi sembrava vestito di una coperta che teneva poggiata sulle spalle come un mantello. Non gli potevo vedere la faccia in tutti i dettagli, eppure da quella distanza io vedevo, o forse solo sentivo, come mi stava guardando. Con un sorriso ironico e triste.
Sventolai un braccio sopra di me e gridai piano, con una voce che non mi sembrava la mia: “Papà”.
Stava passando di lì uno zio professore, un cugino di mio padre con cui avevo scambiato sì e no una parola nella vita. Avanzò verso di me e mi chiese con un tono troppo gentile: “Carolina come va? Vuoi tornare a casa?”. Io feci di no con la testa, tornai a guardare il ponte e lo lasciai andare via.
La mattina dopo decisi di tornare a scuola anche se nonna aveva stabilito che il mio rientro sarebbe avvenuto solo dopo il funerale. Ma io a casa mi annoiavo, e pioveva ancora a dirotto. Consegnai un tema in cui raccontavo di come avevo visto mio padre vivo dopo che lo avevano ripescato dall’acqua.
Intanto mi succedeva di vedere da lontano papà non solo su quel ponte, ma anche davanti casa, nascosto dietro a un platano alto. La mattina in cui andai a scuola fu la prima in cui lo sorpresi in quel posto, ad aspettarmi.
Ancora mi sorrise in quel suo modo un po’ triste, un po’ allegro, poi si ritirò dietro l’albero con la sua coperta.
Una settimana dopo compii tredici anni. Alla mia festa mostravano quasi tutti un viso addolorato, espressione di un lutto ancora recente. Io invece ero felice, perché avevo visto mio padre che mi guardava da sotto la coperta oltre il prato, davanti alla mia camera, appena avevo aperto la finestra quella mattina. Raccontai ancora daccapo la storia a una mia zia, sorella di mio padre.
Quando arrivò l’estate, mi portarono in una comunità. Non era un manicomio. Ma i ragazzi che erano lì dentro mi sembravano tutti strani. Era insomma una casa per piccoli matti. Una casa estiva, perché a settembre, mi avevano spiegato, avrei ripreso la scuola. Ma già il primo giorno una bambina di undici anni mi confidò con un orgoglio leggermente esagerato che lei in quella casa abitava ormai da un anno. Non le chiesi perché.
Non so dire in base a quale decisioni fui trasferita nella villetta dei matti bambini. Non ero stata ancora affidata in via definitiva a mia nonna. Ma qualcuno, non so esattamente chi, doveva aver deciso che il mio posto adesso era quello, almeno fino a quando avrei smesso di vedere tutti i giorni mio padre, ufficialmente morto suicida nel fiume, per me vivo e appoggiato alla balaustra di un ponte, o accovacciato sull’erba a guardarmi.
Alla comunità organizzavano molti giochi di gruppo, ma tante ore le dovevamo passare a raccontare le nostre vite a due psicologi, una ragazza con la faccia magrissima e un signore barbuto, a seconda dei giorni, che mi infastidivano perché mi trattavano come una malata. Avevo paura di quei colloqui. Sia l’uno che l’altra avevano la tendenza a non credere alla storia di mio padre. E con questa premessa li odiai da subito intensamente.
Poi fui sconvolta da una novità. L’avevo avuta sotto gli occhi sin dal mio arrivo, ma chissà perché a volte quello che è evidente spunta fuori all’improvviso, come un albero che compare in mezzo alla nebbia.
La novità erano un paio d’occhi che mi guardavano. Occhi turchesi, o turchini, perché mi sembravano dello stesso colore del vestito di Mago Merlino.
Aveva sedici anni e si chiamava Claudio. Era più alto di me di ameno due spanne, e quando ci sedevamo sulla panchina a chiacchierare la sua gamba piegata mi sembrava lunga il doppio della mia. Si portava appresso un odore come di rosmarino. Sapevo che stava arrivando in mensa al mio tavolo prima ancora che si sedesse, per quella scia di rosmarino.
Parlavamo circa due ore ogni giorno, dalle due alle quattro, mentre gli altri si riposavano nelle loro stanze.
Un pomeriggio mi prese la mano. Io mi guardavo intorno con il cuore che mi batteva velocissimo, perché era la prima volta che stavo così con un ragazzo, e temevo che qualsiasi comportamento in quel posto fosse scambiato per un sintomo di pazzia.
Fu così, con la sua mano intrecciata alla mia, che Claudio mi raccontò delle sue visioni da quando era morta sua madre. Mi disse che lei gli dava molti ordini, “e io sento che devo eseguirli”, mi disse.
Mi mostrò alcuni piccoli tagli sul polso. Mi spiegò che se li era procurati da solo perché era stata sua madre a dirglielo, in una delle sue visite. Chiamava quei momenti in cui lei veniva a trovarlo ‘visite’.
Io rimasi impressionata, ma alla fine gli dissi anch’io della storia di mio padre scomparso, poi ripescato dal fiume ma in realtà vivo, sul ponte di fronte a me.
“Mi sorride, anche se non mi sembra felice”.
Lui mi guardò negli occhi e iniziò a piangere senza singhiozzare.
Da quel giorno diventammo inseparabili. Mi accorgevo che appena si staccava da me, sentivo un vuoto allo stomaco, una nostalgia, che non avevo provato nemmeno quando ci dissero che papà era nel fiume.
Fu sulla panchina che mi diede il primo bacio. E da allora, per tredici giorni, trovammo qualsiasi pretesto, qualsiasi piccolo angolo chiuso agli occhi degli altri, per baciarci fino a perdere il fiato.
Claudio diceva che eravamo uguali, e che saremmo stati sempre insieme. Non mi ero mai sentita così felice. Felice e infelice, perché quella mancanza che mi prendeva quando si allontanava, mi faceva sentire quasi malata, anche se per pochi minuti.
Un pomeriggio gli proposi: “Scappiamo di qui”.
Lui all’iniziò mi guardò come se avesse la febbre. Per la prima volta vidi una luce esaltata nei suoi occhi, ma sul momento non ci badai. Mi disse subito di sì.
Tre giorni dopo sarebbe arrivato nel giardino della comunità un piccolo circo per la festa di ferragosto.
“Gli artisti del circo – spiegai a Claudio – viaggiano sempre su grossi camion su cui trasportano anche i loro animali”. Quello che dovevamo fare era sgusciare via nel buio poco prima che lo spettacolo finisse, e infilaci in uno di quei camion.
Era un piano rischioso, ma Claudio, per darmi il coraggio, mi strinse forte la mano nella sua.
Avevamo poco tempo per ragionare su quello che stavamo facendo, e questo mi aiutò a non avere paura.
Decisi che avrei portato con me solo lo spazzolino da denti, un elastico per capelli e una piccola bambola dagli occhi grandi.
La sera dello spettacolo io e Claudio ci sedemmo vicini. Ci fecero stare tutti a gambe incrociate sull’erba, sentivo caldo. Quando lo spettacolo degli elefanti e delle contorsioniste stava per finire, gli strinsi la mano nel buio per dargli il segnale del via.
Alcuni ragazzi vicino a noi non si accorsero di niente, perché io e Claudio scivolammo sull’erba da seduti, come animaletti che camminano al contrario, finché fummo sicuri di poterci alzare senza essere notati.
A quel punto iniziai a correre veloce verso il camion più grande della compagnia del circo. Avevo notato che all’interno erano accatastati alcuni tendoni di tela non utilizzati. Sarebbe stato un nascondiglio perfetto, coprirci con quelle tende.
Salii di slancio facendomi forza con le braccia. Il cuore mi batteva forte da soffocarmi, quasi non respiravo. Ma quando fui su, in un istante mi resi conto di non sentire più l’odore di rosmarino.
Mi voltai e vidi Claudio fermo che guardava il cielo.
“Claudio!”, gridai. “Salta su”.
Lui continuava a scrutare il cielo.
“Claudio!”, gridai ancora.
Non mi guardava.
Allora scesi dal camion, corsi verso di lui e gli tirai la maglietta, obbligandolo a guardarmi.
“Mamma dice di stare qui”, mi disse. Gli rividi negli occhi un barlume allucinato.
“Ma non è possibile, mio padre non mi ordinerebbe mai una cosa simile”, gli risposi.
Lui fece di no con la testa: “E’ venuta a fare una visita”.
“L’abbiamo deciso insieme, non possiamo stare qui. Noi non siamo pazzi!”, gli gridai addosso.
Ma Claudio tornò a osservare qualcosa in alto, nel buio. “Mamma mi ha detto così”.
“Claudio!”, lo chiamai ancora, tempestandolo di pugni sul petto.
In quel momento sentii il fragore dell’applauso. Claudio continuava a guardare il cielo, io sentivo il sale delle lacrime in bocca.
In un istante mi lasciai alle spalle l’odore del rosmarino e tutti i miei baci, saltai sul camion proprio quando le prime voci degli uomini del circo mi arrivarono distintamente da lontano, dopo che l’applauso era finito. Alzai il lembo di un telone e m’infilai sotto.
Durante il viaggio che non sapevo dove mi avrebbe portata, in quel camion che puzzava di fieno, di chiuso, di pipì e di altri odori che non avevo mai conosciuto, piangevo a occhi chiusi per il mio amore distrutto per sempre, per la delusione di quello che era appena successo. Ma poi la nostalgia diventò sollievo.
Sollevai il telo. La notte comparve attraverso un foro nel tendone. Tutto scorreva veloce, da quell’apertura. Mi sembrò di vedere un’ombra, all’improvviso. Forse era un albero, o forse era mio padre.
La discesa nella schizofrenia ha diverse gradazioni, essa non sempre ha un identico decorso per tutti coloro che si trovano nella sfortunata circostanza di conoscerne e sperimentarne i sintomi. La protagonista al contrario del suo sfortunato compagno avrà forse una chance di guarigione. Istruttivo