Premio Racconti nella Rete 2021 “Cerini” di Sergio Galuzzi
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2021La mano destra scivolò lenta lungo il fianco dell’uomo sdraiato a terra sulla schiena e le nocche toccarono, senza produrre alcun suono, il porfido umido del sagrato. Le dita della sinistra si aprirono in un lento movimento e artigliarono l’orlo della giacca senza riuscire ad andare oltre. Il dolore lancinante al fianco non riuscì neppure a tramutarsi in grido, tanta era la spossatezza dovuta alla mancanza di cibo che, da tempo, era ormai una costante. Due occhi acquosi cercarono di mettere a fuoco, senza riuscirvi, la sagoma scura della torre, là sulla sinistra, di sguincio, dietro al Teatro comunale e fu in quel momento che il cervello del moribondo partì in una folle corsa all’indietro a recuperare suoni e immagini di ciò che era accaduto circa sei mesi prima. Sei anni? Sei secoli?
Ricordò di aver aperto gli occhi quella mattina e, meccanicamente, schiacciato il pulsante della radio che stava sul comodino per scoprire, era ormai la terza volta nell’arco della sola ultima settimana, che non c’era corrente elettrica.
Gli era sfuggito a mezza voce un “Amò!” e nonostante la situazione decisamente fastidiosa aveva sorriso. Ricorreva spesso al dialetto quando era solo: gli piaceva il suono di parole, purtroppo ormai in disuso, che gli ricordavano emozioni lontane, come questa “amò” (“ancora”), confusa dentro urla di adulti e risate di un gruppo di bambini, in fuga precipitosa lungo la stretta via che collegava le case dei contadini, dove viveva con la famiglia, alla piccola piazza della chiesa di Sant’Antonio.
Fuori era ormai il giorno fatto di un inverno assurdamente tiepido.
Diretto al bagno aveva toccato il calorifero: gelido. Mentre si guardava allo specchio e saggiava la barba ormai da rasare aveva aperto il rubinetto: un gorgoglìo breve, una specie di rantolo, e poi fine. Niente acqua.
Era rimasto per qualche secondo interdetto.
“Cosa sarà?”, aveva pensato.
Tornato in camera, indossata la vecchia tuta che metteva quando non doveva andare in ufficio e aperte le persiane, aveva guardato giù nella piazza. Sembrava tutto a posto. Il cellulare sul divano. L’aveva afferrato, acceso, digitato il pin e scoperto che non c’era campo. Si era allora guardato intorno lentamente quasi vedesse per la prima volta la sua casa.
“Che cazzo di silenzio!”, aveva mormorato, e non sorrideva più.
Si era buttato sulle spalle il giaccone pesante ed era sceso in strada. Il bar era aperto ma “Capirà, senza corrente…” gli aveva detto il cameriere con un sorriso impacciato. Tutto nella piazza del resto funzionava così, cioè non funzionava affatto, e non solo nella piazza e non solo in città.
Qualche ora dopo, nel primo pomeriggio, un altoparlante a batteria della protezione civile montato sul camion dei Vigili del Fuoco aveva urlato per vie e cortili la notizia: tutta la fetta d’Europa a occidente di una linea immaginaria che tagliava esattamente in due la città di Padova era senza corrente elettrica e lo sarebbe stata, secondo le autorità, per parecchio. Si consigliava alla popolazione… bla, bla, bla.
Da lì solo incubi. Uno peggio dell’altro.
Per primi si erano fermati i treni, poi gli autobus, poi le automobili. Gli uffici pubblici, le fabbriche, le scuole, gli asili, ogni tipo di attività. Niente acqua, niente gas, niente luce, niente telefono. Esaurite le scorte alimentari erano cominciati i saccheggi: prima nei negozi e ristoranti e poi direttamente alla produzione.
I falò, sempre più numerosi nelle strade, servivano a bollire l’acqua per puzzolenti zuppe, a illuminare le notti, a tenere lontani cani resi pazzi dalla fame e ratti sempre più audaci. I morti non si contavano più e tra loro i suicidi erano la quasi totalità. I quattrini avevano lasciato il posto al baratto. La ricchezza non dipendeva più dal conto in banca, le banche del resto non c’erano semplicemente più, e tutto il denaro che contenevano stava al di là di porte che nessuno poteva aprire o dentro file di computer ai quali era impossibile accedere.
Ricco era chi possedeva una bici, alimenti a lunga conservazione, legna o, molto più semplicemente, mobilio da ardere e, soprattutto, gli strumenti necessari a produrre il fuoco.
L’odore della morte si mescolava a quello degli escrementi lasciati a marcire in un primo tempo nei cessi di casa e poi dove capitava. Niente più allegria, risate, rumori. Solo dolore, pianti, silenzio.
Tutto questo fotografò, il cervello, in una manciata di secondi.
Gli occhi acquosi misero allora finalmente a fuoco, in un unico lento movimento circolare, la sagoma scura della torre, là sulla sinistra di sguincio, dietro al Teatro comunale. La lunga ombra dell’uomo in fuga. La mano destra ostinatamente serrata sulla scatola di cerini, resa inutile dall’assassino che l’aveva svuotata. La lama del coltello conficcata nel fianco sinistro fin quasi al manico. Un rivolo di sangue a sporcare di rosso cupo, il grigio del porfido del sagrato.
Molto bello e scorrevole. È bello per un casalino immedesimarsi nel protagonista che attraversa luog
hi della città
un futuro distopico che fa pensare. Pollice su.
“Però! Mi vien da esclamare. Scenario surreale che mi ha incuriosito fino alla fine. Ben scritto, complimenti.
Struggente scenario distopico. Bel racconto!
scenario apocalittico che ci ricorda quanto siamo tutti dipendenti dalla tecnologia, ben scritto, atmosfera giustamente tragica e inquietante!