Premio Racconti nella Rete 2021 “Sulla cresta dell’onda” di Giulio Natali
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2021Alla fine del secolo scorso c’erano persone a Sarnano che si mettevano in attesa dell’apertura dell’edicola del vialone. Cioè dell’arrivo di Matteo.
Costui era un giovane poco più che ventenne che abitava in una cittadina vicina e teneva il negozio come teneva alla sua igiene personale: approssimativamente.
Alle 7,20 di solito Matteo con i pantaloncini quattro stagioni spiegazzati e lisi parcheggiava la Panda (va da sé, scassata) a fianco dell’edicola e prelevava la risma di giornali lasciata sul marciapiede chissà quanto prima dal distributore, iniziando a dar via ai più mattinieri le copie fresche di stampa e di rugiada.
L’edicola si trovava di fronte ad un altro importante punto di ritrovo del paese. Dall’altro lato della strada, da decenni, Manola ogni alba scesa in terra tirava su la saracinesca del Bar Capriccio. Sarebbe ingeneroso ridurre alle mere funzioni di ristoro quelle quattro mura, che diventavano vero e proprio tribunale del paese, specialmente per politica, corna e calcio; quasi mai gli innocentisti prevalevano e il verdetto era, inappellabile, di condanna.
Tra gli avventori fissi c’era Pietro Paccazocco, per tutti lu Viru, a indicare un acume identico a quello degli animali da cortile.
Stempiato oltre la media, poteva rasarsi completamente per apparire più giovanile di quanto i suoi trentacinque anni dimostrassero, ma questo non avrebbe cambiato i denti storti e pieni di tartaro e lo sguardo vitreo. Pietro si annoiava a stare nel suo monolocale perché era nato per animare le udienze del Capriccio; sin da piccolo era stato bersaglio dei coetanei e con gli anni avevo maturato un senso di frustrazione che sfogava nei litigi calcistici e nei superalcolici. Quando le due cose si combinavano, erano fuochi d’artificio.
Mentre Matteo nei suoi pantaloncini quattro stagioni tentava di aprire la risma umida con il trincetto, Pietro, a pochi metri da lui, era al terzo Fernet. Già a quell’ora, dalla strada a volte si vedeva un’ombra urlare che era rigore puntando minacciosa il dito verso il frigo dei gelati.
Manola pensava che il suo più che un lavoro fosse una missione e svolgeva l’attività con rassegnazione; il marito, ormai sulla cinquantina, apparteneva all’esercito dei metalmezzadri, contadini delle contrade strappati alla terra dai tomaifici della zona, e al bar non si vedeva mai, preferendo dopo il turno attardarsi con altri coetanei a tirare la ruzzola in qualche discesa di campagna.
Molto spesso era l’unica donna in mezzo ad alticci energumeni ed era contenta che ci fosse un bancone a dividerla da loro. Dopo la messa delle 9, anche don Paolo scendeva lento per i ciottoli di via Roma per un caffè corretto al Varnelli, ma la sua presenza non condizionava la quantità di bestemmie dei giudici del tribunale del Capriccio. Convinto che, come per le star del cinema, a Dio importasse che, bene o male, si parlasse di lui, fingeva di non sentire e volentieri aggiungeva il suo parere alle dotte discettazioni dei presenti.
Matteo andava ad unirsi alla combriccola del bar a metà mattinata, per fare uno spuntino, che le prime ore di lavoro erano le più faticose. A forza di contare spiccioli e dare il resto per i giornali, poco prima delle undici avvertiva una crisi glicemica reversibile solo con un bombolone alla crema. Allora, lasciava aperta la porta dell’edicola, attraversava la strada, ordinava il solito a Manola e consumava provocando don Paolo e coglionando lu Viru, dando un occhio al suo negozio, fosse mai che qualche cliente se ne andasse perché non lo trovava.
Col tempo, di quest’ultima cosa, si sarebbe preoccupato decisamente meno.
I pomeriggi di Matteo, invece, non erano prevedibili, perché dipendeva da lei. Dall’onda. Se, prima di fermarsi per il pranzo, vedeva spirare “lu ventu justu”, era quasi certo che solo il mare lo avrebbe visto nelle ore successive. Ci sono persone che dichiarano di vivere per lavorare, altre di lavorare per vivere. Lui lavorava – il minimo indispensabile – per cavalcare l’acqua. Su un windsurf.
A quei tempi, David Hasselhoff imperversava in televisione con Baywatch, ma Civitanova non aveva nulla a che vedere con le spiagge americane, e i tentativi di Matteo finivano spesso come quelli di chi pensa di acchiappare farfalle con un retino bucato. Senza considerare che, a Civitanova, Pamela Anderson non l’aveva vista nessuno. Tutto questo, anziché farlo desistere, lo portava a perseguire il suo sogno con maggiore determinazione: andare a vivere in California campando della sua passione.
C’è da dire che pochi erano in grado di giudicare le sue capacità, anche se la postura sull’attrezzo, forse perchè era autodidatta, sembrava incerta e poco plastica; ma il modo con cui si ripresentava, quando lo faceva, al negozio alle 16 era l’immagine più di uno che era naufragato su un’isola deserta che di uno scafato lupo di mare.
La salsedine accumulata sulla pelle si mischiava all’odore che emanava di suo e non era inconsueto vederlo servire i clienti con le ginocchia ancora incrostate di sabbia; in più, giorno dopo giorno, i capelli biondastri crescevano e diventavano sempre più crespi visto che a loro Matteo di shampoo e balsami ne faceva vedere pochi.
Sognare la California, alla fine, era lecito, innocuo e neppure particolarmente originale. Concretizzare il sogno, però, voleva dire fare un salto esponenziale, anzitutto perché significava che in tasca c’erano soldi sufficienti per volare dall’altra parte dell’oceano.
Ma chi li aveva quei soldi? E come pagare poi un buco a Long Beach in cui vivere? Due parole di inglese, poi, doveva pur spiccicarle e anche questo era un bel problema. Il lavoro da edicolante, per le discrete vendite di quotidiani e periodici, aiutava a una decorosa sopravvivenza nelle Marche, ma non poteva portare ad altro.
La madre era casalinga, si arrangiava facendo la domestica in un paio di abitazioni e usufruiva della pensione di reversibilità del padre, mancato un paio di anni prima. Non andava da nessuna parte, fisicamente e metaforicamente. Per fortuna – si disse – che aveva lasciato Andreina, che voleva andare in discoteca tutti i fine settimana e far pagare lui.
Al Bar Capriccio tutti sapevano del suo desiderio e un giorno Manola gli suggerì di parlarne con Donato, che come sempre sarebbe passato in mattinata per un caffè; l’uomo, allampanato e sulla cinquantina, con capelli nero pece ed evidente ricrescita bianca di qualche centimetro, lavorava all’anagrafe ma in paese aveva la fama di essere ammanicato con chi poteva orientare le concessioni di Sali e Tabacchi.
“Non te pozzo iutà, ce sta gghià la fila pe sta concessiò” – la risposta di Donato gelò Matteo.
“Sindimo, però, se ecco lu barre putimo tutti inzieme fa na colletta”.
L’idea di coinvolgere tutti gli avventori del Capriccio arrivò quasi a commuovere Matteo; meno esaltata Manola che dal giorno dopo, per i due anni successivi, si vedeva lasciare spicci per il surfista da conservare in un salvadanaio di plexiglas in bella vista sopra il balcone. Questo compito doveva sorbirselo proprio lei, che non aveva ricevuto cento lire di mancia in tanti anni da quei bifolchi.
Dopo qualche mese, le offerte raccolte iniziavano ad essere consistenti, ma erano ben lontane da realizzare la felicità di Matteo.
Una mattina, davanti a due tazze di caffè, don Paolo lo prese sotto braccio. I due si misero a confabulare in un’area appartata del bar, tra il tavolo da biliardo e il calciobalilla.
“Non te duvrio dì cosa, che lu so saputo in confissiò e non me ce vojo immischià, ma forse ce sta un modo pe tirà su du lire in più co l’edicola”- il prete si agitava come se avesse trovato vita su Marte.
“Te ricordi de l’edicola de Treppalle?”- continuò – “Quella ch’ha chiuso, jo a Pian di Pieca. Fatte dì da lu Viru, issu sa tutto.”
Quel pomeriggio piovigginava pure, quindi Matteo non ebbe neppure la tentazione di preferire l’equilibrio sul windsurf a un maraschino con Paccazocco. La chiacchierata fu rivelatrice. Treppalle oltre i giornali vendeva altro. Servizi. Faceva infatti da fermo posta per coloro che glielo richiedevano. E coloro che glielo richiedevano avevano lo stesso vizio: scambiarsi video fatti in casa in cui scopavano.
Se la polizia avesse tracciato un identikit di questi soggetti avrebbe fatto un buco nell’acqua: in mezzo c’era di tutto, signori e signore, pensionati, professionisti affermati e giovani disoccupati. Un giro parallelo, amatoriale e clandestino, che per alimentarsi aveva bisogno dell’uomo e del luogo di fiducia. E ora, complice l’ictus di Treppalle, uomo e luogo non c’erano più e serviva un rimpiazzo, con urgenza.
Matteo pensò che non gli avrebbe fatto piacere mostrare ad altri lui e Andreina amoreggiare in camera di letto, ma prese tempo.
Il windsurf lo aiutava a essere meno impulsivo, così, dopo un paio di pomeriggi in compagnia delle solite, improbabili, onde, prese la decisione. E, in breve, ampliò la clientela. Si fece una cultura di genere: al ragioniere la cassetta andava messa dentro il Corriere della Sera, all’operaio andava fatta una breve recensione del contenuto prima di consegnare il prodotto. Cominciò ad essere esperto dei gusti dei consumatori-attori. E a fare da tramite dei suggerimenti che uno di quelli voleva dare a un altro con gli stessi interessi, restando però nell’ombra.
Divenuto a breve un riferimento provinciale in questa attività parallela, cominciò anche a smistare comunicazione scritte che i clienti particolari decidevano di scambiarsi; contenevano codici criptati e mappe del tesoro per i loro incontri nascosti.
Tutto questo dietro una buona percentuale, che gli permise, insieme alle donazioni del bar, di mettere da parte nei due anni seguenti un gruzzolo aggiuntivo sufficiente almeno per tentare una vita in California. Aveva ormai organizzato diversamente la sua giornata tipo: i giornali si vendevano sempre meno con l’avvento di Internet e dell’editoria digitale spesso gratuita, così l’edicola rimaneva sempre chiusa nel pomeriggio. Lui era a inzaccherarsi con la sabbia dell’Adriatico o a fare da pony express per quei clienti particolari.
Tutti quelli che giocano d’azzardo sanno però che si può festeggiare solo se con i soldi vinti alla roulette uno è fuori dal casinò. Prima di allora, c’è sempre un altro giro che può cambiare tutto. Questo fu il giro che diresse Matteo e i suoi soldi su un aereo che non andò negli Stati Uniti ma in Uruguay. All’improvviso morì zia Natalina, la sorella maggiore della madre. Si era trasferita da tempo a Montevideo, dopo che andò a trovare parenti e si innamorò di un avvocato locale. Da allora la zia e la mamma si vedevano ogni paio d’anni, quando Natalina tornava nelle Marche per le feste. Questa sarebbe stata l’ultima volta in Italia, quella definitiva.
Matteo e la madre dovettero in fretta e furia sbrigare le pratiche amministrative per il rimpatrio della salma e, prese informazioni, si sobbarcarono ventotto ore di volo per andare e tornare, con il corpo orizzontale di Natalina, da Montevideo.
Prima di partire per l’Uruguay, dritto sul windsurf, Matteo convenne che la vita stava comunque cambiando. Cercò di mentire a se stesso dicendosi che andare in California sarebbe stata comunque una scelta suicida perché non sarebbe sopravvissuto senza la gabbia di piccole certezze quotidiane che si era costruito. Sarebbe stato tutto troppo grande, troppo assurdo. Tuttavia, pensò anche che questa era stata la prima volta che si era scoperto ambizioso: magari la strada poteva anche non svoltare, ma sarebbe stato bello andare a vedere cosa c’era giù in fondo, dopo l’incrocio. Ora invece era chiaro che non c’era alcun incrocio in vista, solo la prevedibile piattezza del rettilineo. L’acqua che lo schiaffeggiava in faccia in mare aperto lo aiutava a capire anche che, come iniziavano a dire le televisioni, per i giornali il futuro sarebbe stato solo di lacrime e sangue.
Seppellita la zia pochi metri lontano da suo padre, Matteo continuò per qualche anno a gestire l’edicola, ma certe mattine la Panda ormai decotta non si vedeva. Cataste di carta invenduta e non resa per errore occupavano sempre più spazio nel negozio così da rendere impossibile l’ingresso a due persone contemporaneamente.
Ormai l’attività principale era diventata l’altra, più compatibile con la sua indole anarchica: qualcuno lo aveva messo in contatto con i professionisti del settore pornografico che lo pagavano per trovare ambienti nei quali girare indisturbati i loro capolavori.
Una volta la ruzzola del marito di Manola non prese l’effetto desiderato e anziché seguire la curva della strada finì in un greppo. Quando l’uomo andò per recuperarla, vide Matteo con telecamera in mano che immortalava due corpi che si aggrovigliavano dietro i cespugli. Al paese la cosa deflagrò.
Ma a Matteo andava bene così. Nessuno gli chiedeva di svegliarsi prima dell’alba, né di fare la spunta ai giornali. La nuova vita non era la California, ma, visto che non aveva potuto raggiungere il suo sogno, tra gli incubi questo era il meno peggio.
Finì che trascorso ancora qualche anno, mollò l’edicola, ridotta senza manutenzione ad un ammasso di lamiere arrugginite. Quando la baracca fu abbattuta, una gran quantità di topi sbucò dalle fondamenta e si diresse per strada. Manola fece appena in tempo a chiudere la porta del bar e maledisse quell’individuo che in quindici anni non aveva mai avuto tempo di comprarsi un pantalone come dio comanda né di passare una botta di scopa al locale.
Di lui in paese si persero le tracce e al tribunale del Capriccio Donato emise il consueto verdetto di condanna ma non confidò a nessuno che a volte lo invidiava, e anche parecchio.
Passò ancora del tempo e lu Viru sostenne di averlo visto su Youporn con un cellulare in mano.
Una storia di paese, fatta di verità nascoste che sai descrivere in modo schietto. Una bella caratterizzazione dei personaggi e l’uso del dialetto rende tutto molto credibile. Ho trovato deliziose alcune descrizioni della vita quotidiana e ho sentito il profumo del caffè e del Varnelli. Un racconto sincero e ben scritto.