Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2021 “Irene” di Giovanni Pezzino Rao

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2021

Seduta sul letto, con una gamba incrociata sotto l’altra, il trucco scolato e i capelli raccolti malamente da un elastico verde, Irene trovò finalmente il coraggio di dirgli che il loro era un rapporto di vicinanza, sì, ma una vicinanza diversa, ti prego capiscimi, ti voglio davvero bene, è che proprio mi sembra che per certe cose abbiamo preso direzioni diverse e non voglio essere un limite alla tua libertà, è solo che non cerchiamo più la stessa cosa.

In quel tiepido tardo pomeriggio di agosto, mentre il giallo caldo del crepuscolo ammantava la tenda bianca del grande soggiorno della casa al mare, lui non oppose alcunché, spostò di qualche centimetro il piccolo pesce di tufo posto sul tavolino di marmo bianco che era rimasto a fissare per tutto il tempo, la guardò appena negli occhi e, infilate le mani in tasca, se ne andò.

Di lì a poco la sua omosessualità e forse anche la sua impotenza si stesero come olio su tutti i discorsi e i pettegolezzi che lo riguardavano. A poco a poco se ne convinse anche lui, sfinito all’angolo della sua esistenza, ridotta ad un susseguirsi meccanico di schemi ripetitivi che non contemplavano alcun tipo di compromissione che andasse oltre la scelta di uno shampoo nuovo o la visita a sua madre. Lui non reagiva, per indole o perché non lo aveva mai visto fare. Incassava molto bene, rimaneva sempre educato e signorile. Il suo rifugio era la routine e una certa cerchia di conoscenze di superficie, di teatrali pacche sulle spalle davanti al bar, di goliardia raccontata e mai vissuta e di donne che salutavano più gli altri che lui. E al bancone del bar, dopo i saluti, restava a lungo con la mano attorno al bicchiere ghiacciato, a fissare i cubetti che galleggiavano, cercando di trattenere un disperato bisogno di scoppiare in pianto. E a volte non ci riusciva, ma il cameriere lo sapeva e continuava a tirare il marmo a lucido.

Per prendere aria, nel dicembre dell’ anno dopo, fece un lungo viaggio in Inghilterra, dove ebbe più di una conferma che non si trattava di omosessualità o di impotenza. Tuttavia, già poco tempo dopo il suo ritorno l’euforia era passata, le donne inglesi erano rimaste lassù, nessun seguito a parte una conferma alla loro richiesta di seguire il suo account di Instagram con zero foto e trentadue follower.

Il grande magnete piazzato dietro al congegno ben oleato della sua ordinaria esistenza lo attrasse a sé senza la minima resistenza da parte sua e ricondusse i suoi passi sul solito tracciato e i giorni ripresero a susseguirsi come al solito. Ma c’era una tarma che dal ritorno dall’Inghilterra aveva cominciato, con le sue traiettorie tortuose, a scarabocchiare sulle linee dritte della sua agenda: il pensiero di Irene.

Era tornata insistentemente a mostrarsi in sogno, a volte mentre gli veniva incontro in una grande strada alberata e deserta, a passo deciso e con uno sguardo di sfida, altre volte nel mezzo di una accesa discussione durante la quale si toglieva la giacca e la lanciava sul divano senza smettere mai di parlare. Non ci volle molto prima che, un giovedì pomeriggio, si sorprendesse a superare le vetrine del bar adornate con finti fiocchi di neve e luci bianche intermittenti senza neanche salutare il cameriere e tirasse dritto verso casa di Irene, che non stava più con quello per cui lo aveva lasciato e viveva da sola in una casa al decimo piano.

Il portiere gli disse che Irene non era in casa. Uscì dalla portineria e dopo aver rigirato in mano il cellulare per qualche minuto la chiamò. Dopo diversi squilli, appena prima che riuscisse a rinunciare a quell’impresa, Irene rispose – Paolo Testi! Mi sono caduti i sacchi della spesa per terra appena ho visto il tuo nome sul telefono! Ma da dove spunti? Oddio che bello sentirti, non ci credo!

Paolo rimase per qualche secondo con un sorriso sul volto senza parlare, con lo sguardo nel vuoto, poi un – Come stai? – detto al volo riuscì a colmare il silenzio evitando imbarazzi.

– Io bene, cioè mi do da fare, sempre un po’ un casino come al solito, ma tu? Dimmi cosa hai fatto tutto questo tempo.

– No dai, che noia, veramente vuoi sapere cosa fa un dentista single tutto il giorno? Forzò una risata disinvolta, compiacendosi del tono spigliato.

– È di quelli impegnati che non mi importa niente – rispose Irene – quindi sì, lo voglio sapere!

– Senti ma è vero che abiti in quel palazzone davanti a Villa Maderni, quello coi campi e il parco?

– E a te chi te l’ha detto?

– Ti pedino ogni giorno da due anni, so tutto di te.

– Cretino. Ma dove sei?

– Davanti a casa tua, il portiere mi ha detto che non c’eri.

– Aspettami lì, arrivo in dieci minuti.

Era dimagrita ma in forma, i capelli castani legati in una coda alta, un abitino nero stretto e un cappotto di lana, stivali alti e la borsa che gli aveva regalato lui per un compleanno. Lo abbracciò come se fosse un parente emigrato che non vedeva da vent’anni, poi lo guardò per qualche secondo negli occhi e disse – Ci sei ancora. Paolo riuscì a rispondere con un sorriso che sperò potesse contraccambiare quell’euforia, che lo confuse e lo indispettì lievemente.

L’appartamento era grande e con molti spazi aperti. La porta d’ingresso si apriva su un soggiorno con pareti curve, lungo le quali correvano sinuose librerie bianche. Di fronte all’unica parete retta erano posti a ferro di cavallo tre divani davanti a un camino con una massiccia cornice in ferro scuro, sormontato da una gigantesca tela graffiata da veloci pennellate rosse su uno sfondo bianco. La linea di luce che promanava da dietro la cornice posta lungo il perimetro del soffitto, sospendeva l’atmosfera dando una sensazione di fioco torpore.

Paolo quella sera cercò invano di rilassarsi, con Irene che non faceva altro che raccontare vecchi aneddoti su di loro che non suscitavano in lui la simpatia o l’ilarità irrefrenabile che in certi momenti la trascinava in risa sfrenate, e nelle quali non era certo che le importasse più di tanto coinvolgere anche lui. Sta di fatto che per Irene restò una magnifica serata, che si ripeté per altre due volte, dopo di che lei si rimise con lui e a lui non rimase altra scelta che rimettersi con lei.

Paolo rientrò così nel giro delle coppie fidanzate. Rispolverò il repertorio di rituali di saluto, di variazioni sul tema spassosissimo del tavolo della pizzeria diviso in due, maschi da un lato e femmine dall’altro, di chilometri al litro e di resort per le vacanze. L’anestesia era entrata pienamente in circolo ma aveva sempre quell’effetto collaterale, quel serpente silenzioso che lo solleticava in fondo allo stomaco quando cadeva il silenzio per qualche secondo o quando finiva il vino, e che a volte tentava la risalita. Lo sentiva sibilare e muoversi a scatti.

Irene era una donna che riusciva ad essere bella anche quando non lo era, i suoi movimenti erano superbi e imprevedibili come il fumo sottile illuminato dalla luna, i suoi colori scuri tenebra inquietante e ombra che ripara. Riusciva a risucchiarlo a sé in turbini di piacere, in sfoghi di pianto tempestosi, in carezze silenziose. Tutto di lei lo sovrastava, la sua bellezza, il suo impeto, le sue risate acute e cristalline, il suo potere vibrante e assoluto.

Nella nuova casa insieme a Irene vivevano tre gatti, ma per fortuna le stanze erano numerose e grandi e raramente le loro strade si incrociavano. Ogni tanto ne trovava uno acciambellato dentro un vaso o in passerella sopra la cornice del camino con la coda alzata e lo sguardo fisso su una preda invisibile, oppure udiva dall’altra stanza il martirio dei tappeti sotto gli artigli ben tesi. La reciproca ignoranza rendeva tollerabile quella convivenza, che per Irene invece era la chiosa perfetta dell’idillio ritrovato. Paolo, come spesso si trovava a fare, aveva trovato anche per questa parte della vita di Irene un posto da spettatore torvo e voyeur. La padrona chiamava a raccolta le bestie davanti alla porta d’ingresso, nel salone. Si abbassava per versare i croccantini, a volte senza curarsi della scollatura che si apriva. Li accarezzava tutti più volte, facevano a gara per strusciarsi sulle sue gambe. Da sopra il giornale gli occhi di Paolo diventavano fessure e rimaneva sovente in apnea senza accorgersene, le dita affondate dentro la carta.

Una fresca notte di luglio Paolo stava seduto sul letto con le spalle appoggiate alla testiera mentre un filo di luna puntava sul viso sereno di Irene. Per molte notti era rimasto a guardarla; quella notte, invece, le passò una mano in mezzo ai capelli, le carezzò tutto il volto, i fianchi, le gambe, la rigirò finché non fu sveglia e senza farla parlare si calò su di lei. Non ne fu sorpresa, né seccata. In silenzio si tesero i suoi muscoli, si schiusero le labbra e le unghie cominciarono a premere e a strisciare sulla schiena ricurva di Paolo. Poco dopo lei era sopra di lui, gli sorrideva con occhi che nelle tenebre sembrarono ridere di lui e si nascondevano dietro i capelli calati sul viso.

Irene guardava Paolo steso a gambe dritte e con le braccia aperte in mezzo alle coperte stropicciate. Gli occhi verdi fissi sui suoi occhi celesti non abbandonavano quel sorriso che Paolo non riusciva a ricambiare, che lo inchiodava lì su quel letto come un peccatore e un disgraziato. La vestaglia completamente aperta sul seno, Irene scostò una ciocca di capelli dal viso portandola dietro l’orecchio, si alzò in piedi e scomparve dietro la porta del bagno.

Paolo si alzò lentamente, si passò le mani tra i capelli radi e sul viso, si alzò per fare qualche passo ma subito si dovette rimettere a sedere sulla poltroncina all’angolo della stanza. Nudo, semiafflosciato, sperimentava per la prima volta la sensazione della tappezzeria damascata a contatto con il suo sedere. All’improvviso si sentì senza vestiti, il che fece riaffiorare in lui l’ancestrale disagio dell’uomo nei confronti di ciò che deve stare coperto. Poggiò la caviglia destra sul ginocchio sinistro mettendosi dritto sulla schiena, stese una mano sul bracciolo della poltrona mentre con l’altra lisciava i pantaloni invisibili.

Nella semioscurità, unica complice in quello stato di attesa davanti alla porta del bagno, poco era possibile mettere a fuoco nella stanza. Paesaggi neri appesi alle pareti, tende fatte di luce sottile e fievole, la silhouette di una larga foglia di filodendro stesa sulla parete grigia.

Con un soffio di vento la tenda rianimò la stanza e Paolo si ricordò del balcone. Con una torsione del collo, mantenendo le gambe accavallate, si voltò verso la finestra e vide uno dei gatti camminare sulla ringhiera sottile. Era quello tutto grigio col pelo corto e lucido, che nella notte sembrava nero con riflessi di luce. Si fermò a metà del suo vertiginoso percorso, inarcò la schiena stiracchiandosi in profondità, allungò le zampe anteriori in avanti, si ricompose e scomparve nel buio con un balzo.

Irene tornò in camera e fecero l’amore. Dopo circa un’ora le venne sete e andò a prendere dell’acqua in cucina inoltrandosi nel corridoio scuro e lucido. Mentre Paolo la aspettava disteso sul letto, la testolina bianca dell’altro gatto apparve in mezzo alle sue gambe. Gli occhi gialli lo fissavano immobili. Il terzo sbucò dal cachepot argentato, da dove aveva evidentemente assistito a tutto quello che era avvenuto in quella stanza fino ad allora, mentre il primo, che aveva visto in balcone, attraversò la tenda come se non esistesse, per venirsi infine a sedere sul tappeto posto davanti al letto.

Erano tutti lì. E Paolo in mezzo. Irene rientrò con una brocca e due bicchieri su un vassoio che dimenticò all’istante sul cassettone, senza neanche versare l’acqua né per sé né per Paolo, non appena i gatti le si fecero incontro trottanti per accoglierla. Le loro flessioni, le torsioni e gli attorcigliamenti di coda le dipinsero in viso un treno di espressioni intense, le fecero allargare le narici e affondare i polpastrelli nel pelo che copriva quei fragili scheletri. Questa visione sembrò suggerirgli che se quella notte era destinata all’apoteosi del piacere, essa avrebbe potuto essere raggiunta solo se a quello umano si fosse aggiunto il piacere felino. Sentì la mascella per qualche istante in preda a spasmi incontrollabili. Ne chiamò uno a sé per accarezzarlo. Il grigiastro gli si avvicinò per primo e con un’apparente docilità ne sopportò le carezze in mezzo alle orecchie con gli occhi socchiusi ma dopo pochi secondi si congedò senza complimenti, andandosi a sistemare su una poltrona.

Il piano liscio su cui quella notte sembrava destinata a scivolare si era improvvisamente riempito di asperità pelose, irsute e urticanti. Si sentiva fiacco e la gola gli si andava seccando mentre la ascoltava raccontare un aneddoto dopo l’altro, incluso quello del graffio ad un suo ex, che decretò la fine di una serata e, in pochi giorni, della loro storia. Da un pezzo si era rannicchiato sul letto, abbracciato ad un grande cuscino nel quale trovò copertura e conforto precari.

Cercava tra le curve nere del disegno sulle lenzuola un modo per fare deragliare il discorso, ma ogni curva si intrecciava con un’altra, così come i suoi vani tentativi monosillabici, quasi afoni. Con i gatti ormai padroni della stanza e del discorso, non gli apparve del tutto assurda la prospettiva che Irene potesse subire, nel giro di pochi anni, una regressione contronatura, che l’avrebbe portata a miagolare invece che a parlare.

Alle quattro del mattino non aveva ancora preso sonno. Si alzò, andò in bagno a sciacquarsi il viso, si vestì e se ne andò da casa di Irene.

Si incamminò senza una meta precisa con la giacca in mano. Contava le mattonelle quadrate sul marciapiede evitando accuratamente di calpestare le fughe. I gatti lo graffiavano da dietro le costole e lui li colpiva con piccoli pugni sul petto, ricacciandoli nel buio della cassa toracica.

Arrivato all’incrocio con il viale principale si fermò e rimase immobile per diversi minuti a fissare il grande platano. Non si accorse neanche di un vecchio ubriaco che, barcollando, lo spinse così forte da fargli cadere di tasca le chiavi di casa. Di quell’uomo si limitò a rilevare l’odore forte di luppolo e sudiciume, senza neanche guardarlo. Raccolse le chiavi, le soppesò nella mano e le infilò in tasca.

Aveva un gran sonno.

Il platano a gambe aperte faceva cadere gatti dai suoi rami, li lanciava e li faceva schiantare a terra. Gliene lanciava anche addosso, e loro lo riempivano di graffi che lui curava con grossi fiocchi di ovatta che si tingevano man mano di rosso.

Strinse forte la corda che aveva al collo e si tagliò di netto la testa. Un taglio obliquo, ben fatto. La prese e la fissò al collo di un altro corpo pulito e sano. Stando attento a non farla scivolare a terra, con un piccolo balzo riuscì a salire sul battello che navigava sulla strada. Nudo e soddisfatto si addormentò sul ponte, disteso su un sedile.

L’imbarcazione cadde in preda a una violentissima tempesta e per Paolo non ci fu scampo. Lo scafo si schiantò contro un muro d’acqua e lui finì catapultato in alto, il corpo libero nell’aria salmastra.

Si ritrovò accovacciato sul pavimento, freddo, tremante e con un forte dolore alla gamba destra. Si era tirato addosso le coperte del suo letto e aveva fatto cadere la sveglia per terra.

Per qualche giorno si limitò a sentire Irene per telefono, accampando scuse innocue ma efficaci per far sembrare la sua assenza imposta dal combinarsi fortuito dei suoi impegni. La sera si trovava sempre davanti alla sua cena solitaria, un calice di bianco ghiacciato e una ciotolina di arachidi salate, nella casa pulita, perfettamente ordinata e vuota. La luce gialla delle piantane si rifletteva sulle gocce dorate che scivolavano sul vetro del bicchiere e che il suo dito raccoglieva una ad una prima che bagnassero la tovaglia color écru. Furono notti tranquille, solo ogni tanto abbagliate da lampi verdastri e sottili lame aguzze.

Il giorno dopo, di sera, uscito dallo studio decise di fare strada a piedi. Al telefono Irene gli disse che non aveva ancora finito di lavorare e che potevano vedersi da lei tra un’ora, ma era meglio che lui andasse già ora ad aprire un po’ le finestre e mettere il vino in freezer.

Non aveva mai usato le chiavi di casa di Irene, pur avendole da tempo. Appena entrato lanciò la giacca sul divano e aprì tutte le finestre della casa, nonostante in quel periodo l’aria avesse cominciato a rinfrescarsi parecchio. Dopo una decina di minuti sembrava quasi di stare in una grande terrazza esterna ma col soffitto. L’odore forte di lettiera sporca non se n’era andato ancora del tutto, così si sedette in balcone.

Da lì si poteva ammirare il panorama urbano tipico dei piani alti. Gli appartamenti che di solito non si riescono neanche a vedere dalla strada si rivelavano come fini e segreti decori posti sulla cima dei palazzi di cui si conosceva l’aspetto solo dal basso, e che ora si mostravano nella loro interezza, più belli e misteriosi, come rari unicorni sorpresi ad abbeverarsi alle acque di un lago. Sotto, un tremolio di puntini e di scatolette che scivolavano ordinatamente su strisce grigie, non emettevano suoni e, a guardarli bene, non avevano neanche molto senso.

Il vento si era alzato forte e teso. Scompigliò le pagine delle riviste poggiate sul tavolo e gonfiò le tende scure fino a farle arrivare al soffitto, per poi ricadere contro le finestre. Le porte aperte sbatterono una dietro l’altra e il fruscìo delle piante dell’appartamento si trasformò gradualmente in uno schiocco ritmico che si faceva frenetico ad ogni folata che entrava dalle finestre. La casa sembrava aver preso vita in maniera sinistra, senza che ciò, tuttavia, turbasse minimamente Paolo. Anzi, consegnare agli elementi quel luogo gli sembrò la cosa più naturale. Lo sentì puro, nuovo, pulito, sano. Una tempesta sembrava essersi alzata a quelle altezze, ma non aveva intenzione di riparare dentro né di proteggersi.

Imperturbabile, il gatto grigiastro lo stava ad osservare dall’angolo della ringhiera su cui era seduto, il suo corpo apparentemente insensibile alle raffiche violente, la testa leggermente inclinata, come se si stesse interrogando.

Cominciò a camminare sicuro sul bordo sottile della ringhiera a passi piccoli e ordinati. Arrivò a portata di mano dell’uomo che aveva scatenato la tempesta nella casa. Ne sentì la carezza, che si fece sempre più pesante fino a fermarlo, con la pancia schiacciata sul freddo metallo. La mano indugiò sulla schiena morbida, poi affondò nella collottola, la presa ben stretta. In un momento la mano si liberò in uno slancio, il vuoto immenso si riempì e il vento trasportò nel cielo il suono del piccolo corpo scomposto, che cadde sordo lì giù, in mezzo ai puntini che non avevano senso.

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8 commenti »

  1. Una ottima scrittura davvero. La storia è originale e l’intreccio funziona. Si percepisce l’ailurofobia che culmina in un finale scioccante. Non credo che Irene gliela farà passare liscia… voglio pensare che sia proprio vero che i gatti hanno nove vite.
    Sottolineo la qualità della tua scrittura. Complimenti.

  2. Monica, i tuoi complimenti mi rendono davvero felice. Grazie, leggerò presto con piacere qualcosa di tuo!

  3. Ho trovato questo racconto molto bello. Ottima stesura, personaggi ben caratterizzati, che appaiono “vivi”. Si percepisce un sottotono di tensione che rende la lettura accattivante e stimola la curiosità. Bravo!

  4. Grazie, Eleonora, per il tuo commento che mi sprona a continuare nel paziente lavoro della scrittura.

  5. Veramente una bella scrittura. Tuttavia noto uno stacco tra le prima e la seconda parte del racconto, l’obiettivo della storia che nella prima parte sembrava essere il suo ruolo di uomo, il suo rapportarsi con le donne, la sua fragilità diventa improvvisamente una piccola ossessione che si ingrandisce, in questa ossessione sembra riposta una piccola invidia forse per l’essere felino, ma non c’è un collegamento forte con la prima parte, con le sue debolezze. Intendo dire che allo svolgimento dell’azione della storia non si accompagna uno svolgimento del percorso interno di Paolo, una sua trasformazione.
    Un mio personalissimo punto di vista chiaramente, che non toglie niente alla bellezza della scrittura

  6. Chiarastella, il tuo commento mi fa particolarmente piacere perchè è indice di una lettura molto attenta del mio racconto.
    La discrasia che noti tra le due parti del racconto c’è e, in realtà, è voluta. Senza troppo inoltrarmi nella (improbabile) spiegazione del racconto, posso dirti che ciò che è voluto, in particolare, è l’attribuzione alla seconda parte del racconto di un valore prevalentemente simbolico. In pratica, ciò che nella prima parte viene raccontato attraverso elementi di vita reale, nella seconda viene ripercorso e descritto attraverso il filtro dell’onirico e di elementi simbolici.
    Senza troppo spiegare, proprio per lasciare ai lettori la libertà di una interpretazione personale come la tua, posso dire che quello che succede nel finale è un crollo, una sconfitta.
    In ogni caso, grazie davvero per esserti soffermata così attentamente su ciò che ho scritto.

  7. Complimenti, sai usare molto bene le parole, come di rado capita di leggerne.

  8. Grazie Angelo!

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