Premio Racconti nella Rete 2021 “Espulso” di Violivia
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2021
I raggi sbiechi del sole fendevano l’aria già pregna di sudore e testosterone del palazzetto, ma lui, il Coach, ormai non ci faceva più caso da anni. Gli era familiare, era l’odore acre della battaglia.
Il pulviscolo oscillava in controluce, vorticando a ogni spostamento d’aria, poggiandosi sulle sue spalle un po’ curve e risollevandosi un attimo dopo.
Accovacciato come sempre accanto alla panchina, i gomiti appoggiati alle cosce e le mani che gli pendevano dalle ginocchia, seguiva l’azione soltanto con gli occhi, senza muovere un muscolo, come un cecchino pronto a sparare.
E di nuovo quel fischio, senza ragione apparente, lo faceva scattare in piedi, perfino saltare, come si fosse appena accorto di essere seduto su un carico di dinamite.
Le gambe chilometriche avevano già fatto quel percorso almeno venti volte, panchina-arbitropanchina-arbitro-panchina-arbitro, ma non mostrava segno di stanchezza. Di Esasperazione, semmai.
Non ce la faceva proprio a tenere la bocca chiusa di fronte a quella tronfia ostentazione di incompetenza, eppure la sua protesta era sempre educata, rispettosa, anche adesso che, era chiaro, c’era ben poco da rispettare.
Dopo due quarti di testa a testa, un’altalena di punti persi e guadagnati, a metà del terzo quarto la partita stava prendendo una piega che non gli piaceva per niente. L’arbitro pareva in attesa del provino per la parte da protagonista di un film brutto ed era come se l’avesse ingoiato, quel fischietto, tanto sibilava a ogni respiro. Sempre a senso unico, sempre in faccia alla squadra di casa, la sua, talmente sua che oltre ad allenarla l’aveva addirittura fondata, insieme ai suoi fratelli non di sangue ma di sudore, lacrime e risate.
Solo un anno prima era questione di lui e degli altri. Insieme per il tempo che si poteva, rubato agli impegni e sempre bello, ma poi ognuno per la sua strada. E di colpo, con qualche firma, le loro strade erano diventate una sola, da percorrere insieme, e lui era diventato parte di qualcosa di più grande, una creatura giovane, bellissima e piena di speranza, che aveva contribuito a concepire.
Gli amici di sempre, i loro genitori, erano diventati la sua famiglia anche sulla carta. Si erano presi per mano e, al primo tentativo, contro ogni pronostico, erano arrivati fino ai play-off. Era a loro che doveva rispetto, non a quel pagliaccio travestito da arbitro che gli era toccato in sorte quel giorno maledetto, spedito su quel campo di Promozione troppo lontano per non guastargli l’umore. E, per dispetto, l’umore lo stava guastando a tutti, in particolare al Coach, che glielo avrebbe fatto volentieri ingoiare davvero, il fischietto.
A dimostrarlo era quella piega all’attaccatura del naso, identica a quella di suo padre, che compariva soltanto quando era concentrato e che ora somigliava sempre più a un crepaccio buio e profondissimo.
Le mani avevano preso a tremargli, la voce si strozzava, tutti si erano accorti che la sua proverbiale tranquillità era sotto attacco. A segnalare il pericolo era il sangue, che già gli coloriva il collo pallidissimo e che, come mercurio in un termometro, saliva alle guance, poi alla fronte, fino in cima alla testa.
Sapeva di doversi trattenere, a ogni costo. Lo doveva alla sua nuova famiglia, che negli ultimi mesi si stava allargando sempre di più, che si era popolata di bambini entusiasti di cui lui era “il maestro”, quello che scherzava rubando la palla e fingendo che gli cadesse dalle mani al momento di tirare. Cercava di pensare alle loro risate per non sentire i fischi che piovevano dalla tribuna, gli insulti che non avrebbe mai voluto fargli ascoltare.
Ma le cose gli stavano sfuggendo di mano, non poteva controllare tutto, cominciava a non controllare più neanche se stesso. Li stava deludendo tutti?
Fu quel pensiero subdolo, condito dall’ennesimo inspiegabile fischio, a scatenare il blackout. Ed eccola, la parola di troppo, quella che non si accorse nemmeno di aver pronunciato e che già non ricordava più, ma cui l’unica risposta possibile fu: espulso!
Nel suo cervello calò il silenzio, un’onda di calore montò dalle gambe alla testa facendola vorticare, sentì il sangue pulsare nelle orecchie come il timer di una bomba innescata. E toccava a lui disinnescarla. Aveva solo una frazione di secondo per decidere il da farsi e scelse il sangue freddo.
Si trasformò in un automa, seguì la direzione indicata dall’arbitro senza guardare nessuno, superò gli spogliatoi e uscì dalla porta antincendio sbattendola, senza neanche sentirne il rumore. Imboccò le scale di metallo che portavano su in tribuna, sordo anche ai suoi passi, cercava di fermare almeno uno dei mille pensieri che gli affollavano la mente, invano.
Appena aperta la porta, fischi e ululati si spensero di colpo e tutti gli sguardi si fissarono su di lui. Amici, parenti, allievi, genitori, ognuno avrebbe voluto dirgli una parola, dargli una pacca sulla spalla, ma nessuno osò muoversi né parlare.
Soltanto suo padre fu così coraggioso da fargli un cenno con la testa, come a dire “Sta’ calmo, vieni qui, c’è la visuale migliore”. Accettò l’invito, si sedette accanto a lui per un istante e subito scattò in piedi, si accovacciò davanti al vetro ma era troppo sporco per vederci qualcosa, perciò si aggrappò alla ringhiera della tribuna e cominciò a dondolare da una gamba all’altra.
Di sotto lo spettacolo continuava impietoso a svantaggio dei suoi: nervosismo in aumento, punti persi malamente, sguardi smarriti a cercare il suo, che invece correva da una parte all’altra, alla ricerca di una soluzione. Con le mani strette alla ringhiera, le nocche bianche dallo sforzo, sentì fischiare la fine del terzo quarto. Svantaggio ormai consistente e solo due minuti per fare il punto.
Il Presidente gli comparse accanto, incalzandolo. In poche decine di secondi misero a punto una strategia di fortuna e subito il messaggero imboccò la porta e le scale per riferire le direttive del prigioniero. La squadra si riunì in cerchio, ci furono un paio di cambi e la partita riprese.
Nessuna gradita sorpresa. La storia non sembrava cambiare, anzi, a rafforzare l’accanimento dell’arbitro contribuirono una serie di errori non forzati della squadra di casa e lo scherno degli avversari, ormai avviati verso la vittoria. Dalla tribuna non volava più una mosca, a eccezione di qualche fischio o boato di disapprovazione da parte del pubblico di casa, a coprire i timidi interventi del Coach, che aveva ritrovato la voce ma stentava a trovare la speranza. La speranza della vittoria, almeno. Sapeva bene come sarebbe andata a finire, era troppo tardi per rimediare. Quello che realisticamente sperava era che la partita finisse presto e senza ulteriori danni.
Minuti eterni lo separavano dal fischio finale. Lo sentì risuonare, assordante, e qualcosa esplose in migliaia di minuscoli pezzi, lì, proprio in mezzo al petto. Quel groviglio di rabbia, frustrazione e sgomento andò in frantumi e fu allora che si sentì davvero espulso.
Espulso. Come un pilota da un aereo in fiamme. Sparato fuori dalla gabbia della tribuna.
Le gambe ritrovarono l’energia e la strada. Alla velocità del fulmine imboccò la scala di lamiera, scese i gradini a due a due, inspirando l’aria ancora tiepida del crepuscolo. Una porta, poi un’altra e di nuovo calpestava il linoleum del campo, la gomma delle scarpe che strideva accompagnandolo verso i suoi, assiepati accanto alla panchina, che lo guardavano senza sapere bene cosa fare.
Scelse di agire per primo. Assestò una specie di cazzotto nella schiena del capitano, lanciò uno sguardo inspiegabilmente divertito al numero 2, il suo quasi-fratello, che prima lo spinse via e poi lo tirò a sé in un mezzo abbraccio virile.
E poi fu subito una festa di pacche e strattoni, la loro medicina per buttarsi tutto alle spalle.
Calore contro delusione. Nulla è perso, ci sarà sempre un’altra partita, un altro campionato.
Con il sollievo di chi è uscito indenne da un potenziale inferno, il Coach cercò il sorriso più convincente che gli riuscì di trovare e si dispose ad affrontare il manipolo di amici-parenticonoscenti superstiti.
Mentre incassava baci, abbracci e parole a caso, un ultimo pensiero gli attraversò la mente.
Memoria corta e cuore ci vogliono, fanculo il sangue freddo.
Calore contro delusione. Nulla è perso, ci sarà sempre un’altra partita, un altro campionato. Che bel racconto e che bel messaggio rafforzato anche dalla chiusa finale Memoria corta e cuore ci vogliono, fanculo il sangue freddo. Una bella indagine psicologica. Hai descritto benissimo il disagio, la rabbia, la forza che occorre per mantenere il controllo. Ma un coach deve sempre dare il buon esempio.
Mi è piaciuto molto.
Credo che la cosa più appagante, per chi scrive, sia sapere di aver condiviso lo stesso pezzetto di mondo, anche solo per il tempo della lettura. Questo è successo e ne sono molto felice.
Mi è sembrato di essere lì, accanto al protagonista, poi addirittura in esso, nella sua mente. Non è semplice entrare in empatia con un personaggio di un racconto breve, ma tu sei riuscita a creare questa connessione. Complimenti!
Piacevole. Dal “non poteva controllare tutto, cominciava a non controllare più neanche se stesso” al “Memoria corta e cuore ci vogliono, fanculo il sangue freddo”; sembra quasi l’atmosfera di “Ogni maledetta domenica” con Al Pacino ma senza nessuna imitazione, qui poi il lieto fine non è quello della vittoria all’ultimo insperato secondo, a cui segue il ritorno a casa del coach, ma al contrario consiste nella fine dell’espulsione, che arriva inseme alla fine della partita e il ritrovarsi poi in mezzo alla famiglia della sua squadra, pensando già alla nuova partita da affrontare tutti inseme, con dentro se stessi questa esperienza in più.
Bellissimo racconto, scritto benissimo con grandi proprietà descrittive e frasi “ad effetto” ben curate che fanno vivere tutta la gamma di emozioni vissute dal Coach. Poi per me, appassionato di basket fin da bambino, racconto bello due volte. Complimenti!
Anche io ho trovato questo racconto scritto con grande maestria. Complimenti!