Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2010 “A una certa età” di Roberta Gramatica

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2010

– Baciami, piccola.

– Sciocco.

– Non sto scherzando, dai, baciami.

– Non ne ho voglia, lasciami in pace.

– Amor che a nullo amato amar perdona.

– Senti, Osvaldo, mettiamola così. Lasciami finire la partita di bridge e poi ne riparliamo, va bene?

– Come tu desideri, mio prezioso diamante.

 

Mai avrei pensato di finire in un posto nel quale avrei trascorso le mie giornate giocando a bridge con quattro vecchi rimbambiti che, l’ultima cosa che ricordano, è il giorno nel quale sono tornati a piedi dal campo di prigionia. E per di più dovendomi difendere dal corteggiamento di un uomo corredato di pannolone per l’incontinenza.
E invece eccomi qua. D’altronde l’alternativa all’ospizio e a un bel certificato di demenza senile, sarebbe stata la prigione o gli arresti domiciliari. Non ci ho pensato neppure per un istante. Almeno qua, con questi rincitrulliti, qualcosa riesco ancora a prelevare. A casa, da sola, avrei potuto contare solo sulle assistenti sociali. Ma cosa vuoi che guadagnino quelle poverette. Sarebbe stato come rubare dalla cassettina dell’elemosina. 

Prima che inizi a tirare per le lunghe forse è meglio che mi presenti. Mi chiamo Mariuccia Marchesi, ottant’anni, un passato remoto come insegnante elementare e un passato prossimo come ladra. Sebbene la mia definizione preferita sia truffatrice, un’attività diventata ben presto una passione anche se, purtroppo, rivelatasi solo in tarda età. 
La mia prima truffa risale a una decina di anni fa. Mi trovavo nella stazione di Ventimiglia, in un bar così desolato che mi fa ritornare la tristezza al solo ricordo. Ma Evelina non si era sentita tanto bene, così mi ero offerta di scendere con lei dal treno per accompagnarla a prendere un bicchiere di acqua fresca. Avevamo tempo. I treni in transito da Montecarlo per l’Italia, al confine si fermano sempre per una lunga pausa. Evelina aveva ordinato una Coca Cola. Disse che le bollicine le avrebbero fatto bene e che era tutta colpa del caldo se si sentiva così intontita. Mentre la poveretta cercava un po’ di sollievo allentando i bottoni della camicetta a fiorellini rosa, sul naso si sventagliava il listino dei gelato che riportava la collezione di così tante impronte digitali da far invidia a uno schedario della polizia. Mi faceva pena. Non che la conoscessi da molto. Anzi. A dire il vero solo da due ore, visto che la prima volta nella quale le avevo parlato era stata proprio su quel treno. Però nei giorni precedenti mi era capitato di notarla alle slot machine del casinò. E una donna di settant’anni, vestita come Mary Poppins che saltella per le sue vincite, non passa tanto inosservata. Poi l’avevo ritrovato quella mattina, in viaggio. Mi ero seduta nel suo stesso scompartimento e, dopo un po’ che chiacchieravamo, le avevo offerto una delle mie caramelle speciali. Improvvisamente Evelina aveva provato torpore e senso di svenimento. Dopo la Coca al bar, non so bene come sia finita. O, meglio, so quello che riportarono i giornali del giorno dopo: “Anziana truffata,  si risveglia in una bar della stazione, senza memoria e con il portafogli vuoto”. Mica è colpa mia se la caramella era stata troppo forte per lei. Quando avevo notato che si stava per addormentare sul bancone, le avevo sottratto il borsellino. Per essere stato il primo colpo, non mi era andata tanto male: tra una foto in bianco e nero di un giovane uomo e quella a colori di un gruppetto di ragazzini, c’erano, ben piegati, due bei viola. Due cinquecentoni intendo. 

Non ho bisogno di soldi. Nella mia vita ho sempre lavorato e mio marito, capo ferroviere, prima di morire mi ha lasciato un bel conto in banca. I miei ragazzi, fortunatamente, sono cresciuti bene, senza grilli per la testa, e ben presto si sono messi a lavorare. Uno fa l’avvocato, l’altro è un medico e poi c’è la terza, la piccolina, che credo viva di espedienti, ma ho preferito non accertarmene mai. Ha un’ottima istruzione e un alto tenore di vita. Che cosa faccia per guadagnarsi da vivere, sono fatti suoi.
Certo, finché mio marito è stato in vita, non la pensavo così. Un po’ preoccupata per il suo futuro lo ero. Ma poi, a una certa età, le cose iniziano a scivolare addosso e ci si preoccupa più delle questioni divertenti che di quelle importanti. Ed è stato così che ho incominciato a interessarmi al furto. Ma solo a quello fatto con l’inganno.

Dopo Ventimiglia ho iniziato a prendere gusto per il prelievo di denaro, al punto da preparare un piano di lavoro. Le mie vittime sarebbero state i miei coetanei, meglio se vedovi; i luoghi quelli maggiormente frequentati da loro, come i casinò e le località di turismo religioso. Il perché è semplice: vuoi per il gioco, vuoi per guadagnarsi qualche santo in cielo, chi frequenta quei posti ha portafogli belli pasciuti ed è sempre piuttosto ben disposto nei confronti del prossimo. Se poi questo prossimo è una deliziosa quanto arzilla signora un po’ in là con gli anni come lo sono io, ogni diffidenza viene meno. 

Dopo Evelina, è stata la volta di Armando. Lo incontrai a Medjugorie. Era un bel uomo che aveva passato da poco gli ottanta, alto, portamento eretto e una testa di capelli bianchi, ricci e ben tenuti. Si trovava lì per accompagnare un suo cugino, costretto su una sedia a rotelle. Ma il vero motivo è che voleva scontare, prima del grande giorno, una vita di vizi e bagordi, testimoniata ancora dalla miriade di braccialettini di caucciù che ancora indossava sul polso sinistro. Ci incontrammo per caso, mentre io rovistavo nella borsa in cerca di qualche moneta per accendere l’ennesima candela della giornata. Vedendomi affannata, aveva infilato nella scatoletta un paio monetine e, in attesa di capire quale lumino si sarebbe acceso, aveva scommesso su chi dei due, tra me e lui, lo avrebbe individuato per primo. Alla sera eravamo a cena insieme. Lui ordinò un piatto di pesce cucinato con l’aglio, per poi pentirsi subito dopo a causa del sapore che gli aveva lasciato in bocca. Io gli offrii una delle mie caramelle. Armando si addormentò sulla panchina sulla quale ci eravamo seduti per una sosta, di ritorno verso l’albergo. Per fortuna il portafogli lo teneva infilato nella tasca interna della giacca. Essendo un omone grande e grosso, non sarei passata inosservata se avessi iniziato a fare leva sotto il suo sedere, cercando di avere accesso alla tasca posteriore dei pantaloni.

Dopo Armando ci furono Elena, Ernesto, Letizia, Vittoria, Angelino e tutti gli altri. 
Quando i carabinieri un anno fa mi hanno arrestata, mi hanno chiesto dove avessi preso le caramelle con narcotizzante con le quali stordivo le mie vittime. Originariamente erano dei sonniferi per i cani di mio marito. Dei pastori maremmani affetti da epilessia, ai quali il veterinario aveva prescritto tranquillizzanti per le crisi più acute. Li avevo ritrovati dopo la morte di mio marito in fondo a un cassetto. Li avevo sciolti in un po’ di zucchero ed erbe, e avevo inventato le mie speciali Ricola sedative.

Non fosse stato per quel tale, Giacomino, sarei ancora in giro a distribuire caramelle. Lo avevo da poco conosciuto su un tavolo verde, dunque non potevo ancora sapere che da anni era in cura con forti sedativi a causa di un violento esaurimento nervoso, e che le mie caramelle speciali gli avrebbero procurato lo stesso effetto di un bicchiere d’acqua. E così, fuori dal casinò di Venezia, mentre eravamo seduti a un bacaro per un cicchetto di intervallo, vedendolo un po’ accasciato su se stesso, avevo pensato che fosse già entrato nel mondo dei sogni. Gli affondai la mano nei pantaloni. Peccato che Giacomino, con trascorsi giovanili da guardia giurata, fosse in realtà ben vigile e perfettamente consapevole che la mia non era un’affettuosa avance. Non mi denunciò subito. Ma dopo un mese. Non so ancora perché. Forse per simpatia.

Quel giorno, erano circa le cinque del pomeriggio, stavo preparando il mio tè verde, quello dei cinesi, che bevo perché dicono allunghi la vita. Stavo sistemando il colino sulla tazza quando qualcuno ha suonato alla porta. Era un bel giovanotto, con le spalle larghe e il sorriso luminoso, in divisa da carabiniere. Mi chiese di Mariuccia Marchesi. “Sono io giovanotto” gli risposi. Mi diede la sensazione di non crederci. Prese tempo e si diresse verso la macchina di ordinanza, per consultarsi con il suo collega. Poco dopo si riavvicinò e mi chiese se ero in casa da sola, se c’era mio figlio, una badante, insomma qualcuno. “Ma giovanotto, perché mai dovrei prendermi degli estranei in casa” gli dissi. “E per quanto riguarda i miei figli, sono grandi abbastanza da badare a loro stessi”. Allora lui abbassò lo sguardo, mi salutò e se ne andò via. Dopo meno di un’ora, mentre ero ai fornelli a tostare lo zucchero per le mie caramelle, arrivò Giovanni, mio figlio avvocato, accompagnato da Emilio, il medico, e dal giovanotto in divisa di prima. Avevano lo sguardo esterrefatto e un colore così cadaverico che sembrava avessero visto un morto risorto. “Sto bene ragazzi, cosa fate tutti qua, in pompa magna” chiesi. Allora mi spiegarono della denuncia di Giacomino. Mi convinsero a chiedere l’infermità mentale e a farmi ricoverare in questo posto, Villa Serena.
In fondo sono da capire anche loro, poveri diavoli. Cosa potevano fare altrimenti con la loro mamma. Lucia, la piccola, la mia terza figlia, è la più contenta di tutti. Si diverte a venire a trovarmi in mezzo a tanti rimbambiti. Dice che in fondo potrei anche cedere alle avances di Osvaldo, bacetto in più bacetto in meno, nella vita cosa vuoi che conti. Anche se, forse, la prima volta che me l’ha consigliato non stava propriamente pensando alle effusioni amorose. Infatti, poi, è venuta a trovarmi con una bella scorta delle mie caramelle speciali. Credo abbia trovato nel mio comò la ricetta per farle. Lei sa che a me servono per spennare qualche vecchietto a bridge. A lei non so cosa servano. Ma non me lo chiedo. A una certa età è meglio che le cose scivolino via. 

 

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5 commenti »

  1. L’idea della “nonnina truffaldina” mi è piaciuta molto, mi sono divertita,
    grazie,

    paola

  2. Molto grazioso, mi è davvero piaciuto. Mariuccia è proprio un bel personaggio

  3. Un piccolo incanto. Hai una narrazione molto gradevole, ironica e un po’ poetica, sopesa e senza vincoli, come spero sia la mia vita da vecchio.

  4. scrittura lieve, ironica, simpatica la nonna protagonista. La sfida alla trasgressione per sentirsi più vivi quando dalla vita non ci si aspetta più nulla.
    Grazie
    Carmina Trillino

  5. Veramente spassoso…l’ho letto anzi bevuto con piacere in questo pomeriggio afoso di Roma… come una bevanda fresca all’amarena! Grazie!

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