Premio Racconti nella Rete 2020 “Un viaggio nel viaggio” di Eugenio Novara
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2020Ce l’avevo fatta. Nonostante il caotico traffico di Napoli, ero sul treno, il Frecciarossa per Milano delle 16.10. Erano le 16.05. Per un pelo! Il treno era al completo, ma il posto accanto al mio restava vuoto. Pensavo, con quella punta di veniale egoismo che mi segue durante i viaggi in treno o in aereo, che forse il traffico aveva fermato proprio il passeggero destinato a quel posto e ciò mi permetteva di viaggiare più comodo. Perché diventiamo così facilmente orsi o ricci?
«Oh, mi scusi!» Disse la giovane donna che sedeva davanti a me e, accavallando le gambe, aveva involontariamente urtato il mio piede. Apprezzai le scuse. Oggi molti giovani non sanno più scusarsi.
«Di nulla» risposi accennando un sorriso di maniera, senza avvertire il bisogno di approfittare di quel pretesto per avviare una più ampia conversazione. Mi sembrava prematuro rompere il ghiaccio, con più di quattro ore di viaggio davanti, prima di aver tracciato un minimo identikit della giovane passeggera lanciando mezze occhiate furtive da sopra il libro che nel frattempo avevo aperto.
Accanto a lei, dalla parte del finestrino, sedeva una signora molto anziana, minuta, avvolta in un sopra-bito grigio e con un foulard rosa che le incorniciava il viso olivastro, segnato da molte profonde rughe.
Quando ero arrivato, trafelato, al mio posto accompagnato dalla hostess, avevo per un attimo pensato che le due donne, già sedute, potessero essere in qualche modo imparentate o legate, ma nessuna delle due si era poi rivolta all’altra, facendomi così rinunciare a quell’idea.
La donna anziana non portava occhiali e con due fessure di occhi guardava fuori dal finestrino di traverso, senza sollevarsi dallo schienale, come se stesse in realtà seguendo, ad occhi aperti, un itinerario del tutto diverso, un altro viaggio su un percorso privato e personale.
«Prego, signori» alzai lo sguardo dal libro. La hostess ci offriva caramelle. Ringraziai e rifiutai. Le due donne invece le accettarono, ma subito vidi l’anziana, con un gesto semplice e però imprevedibile, porgere la caramella alla giovane accanto, senza dire nulla, evidentemente fidando nell’eloquenza del gesto. Muovendo il capo dall’alto in basso in senso di invito ad accettare l’offerta, alla fine disse, con voce roca ma ferma e con bell’accento napoletano: «L’agg pigliata pe cortesia, ma nun ‘a puozz mangià»
La ragazza, mora e decisamente paffutella ma non grassa, sul momento sorpresa seppure non infastidita dalla garbata offerta, la prese, quasi avvertisse che un rifiuto sarebbe stato un’imperdonabile scortesia. Paffutella uguale adorabile golosa? pensai guardandola maliziosamente da sopra il mio libro.
Il banale gesto aveva fatto scattare tra loro la molla della complicità delle origini: «Grazie signò, troppo gentile» fu la risposta della giovane, anch’essa pronunciata con una fresca parlata partenopea.
Continuavo a leggere il mio libro, ma in realtà mi accorgevo di scorrere le parole senza coglierne il senso, perché era iniziata in me la fase dell’identikit.
Dunque, le due donne non si conoscevano ed erano tutte e due napoletane o di quelle parti.
L’anziana aggiunse subito dopo: «Quando ero giovane comm a vuie, nun ‘e putiv accattà, pecché nu teniv rinar, avevo le tasche vuote. Ora che potrei, nunn ‘e puozz mangià cchiù»
«Mi spiace, è per …» la giovane non ebbe il tempo di finire la domanda che l’anziana continuò, con l’atteggiamento confidenziale e per nulla formale che assumono quelle persone che, per età e per esperienze vissute, avvertono il diritto, e forse anche il dovere, di parlare, di raccontare, di trasmettere, senza bisogno di chiederne il permesso: «Se alla vostra età aviss manciat ‘e ccaramell, anziché quelle schifezze che ci davano, oggi non avrei lo stomaco accartocciato, cara signorina».
La giovane aveva dovuto sollevarsi un po’ dallo schienale e torcere il busto verso destra per parlare vis a vis con l’anziana che rimaneva rincantucciata nel suo avvolgente ed esagerato sedile.
Mi aveva colpito la pronuncia della parola schifezze, detta alla napoletana, con il sonoro “sc” iniziale al posto della semplice “s”: le sc-chifezze mangiate in gioventù dall’anziana donna avevano davvero lasciato il segno sia fisico che morale, che sciabordava tutto in quello “sc” pieno di postumo ribrezzo.
La giovane provò a riportare la conversazione su un piano non troppo coinvolgente: «Ma come, nella nostra bella Napoli, dove è tutto buono»
«Magari fuss stata a Napule, cara signorina, io stavo in Provenza alla vostra bella età. Quant’ann tenite?» Di nuovo una domanda imprevedibile, schietta e, forse, impertinente, data la mia presenza.
«…ventidue…vintiruie» precisò la giovane come se ritenesse doveroso restituire attraverso il dialetto a quella donna, che intuiva essere stata strappata da Napoli in giovane età, il conforto della conterraneità.
Capivo che la conversazione non sarebbe finita lì. L’anziana smetteva di parlare per qualche minuto, chiudeva gli occhi non per stanchezza ma per cercare meglio nell’armadio dei ricordi. Infatti, come se avesse lasciato il discorso in sospeso, riprese a parlare con tono familiare:
«Picceré, io ne tengo quattro volte tanti e a venti anni, quann agg saputo che patete non tornava più a
casa dalla guerra, cu quatt criatur, quattro fratellini da sfamare e mammeta muorta, agg fatt e valigge e ho dovuto accettare la proposta di andare a faticà in Francia, dove già ci stava mia cugina»
«Oh, mi dispiace…» rispose banalmente la giovane senza mostrare gran voglia di interromperla.
«Comm te chiamm» disse l’anziana passando amabilmente dal “voi” al “tu” per diritto d’anzianità. «Debora» «Oh, un nome moderno» «Si, ma senza l’acca finale» precisò quasi scusandosi la ventuduenne.
«Guagliò, non è questione di acca. Pure se ti chiammass Maria Immacolata Addolorata, comm me chiamm io, oggi vivere, muoversi, comunicare è tutta n’ata cosa. Quann fu che me ne jett, da Napoli a Milano, dove ci stava il Centro di emigrazione, ci ho messo, nel 1948, chiù e nu juorn. Poi un altro giorno: primm da Milano a Torino c’a ferruvia e poi fino al confine cu na corriera tutta sc-cassata».
Eccolo ancora quello “sc” carico di disprezzo, potente strumento fonetico nel doloroso eloquio dell’an-ziana per esprimere l’inesausto risentimento verso un passato non facile che, come in un puzzle, si com-poneva in quell’occasionale conversazione tra napoletane di due mondi e due epoche opposti.
Maria Immacolata, addolorata eccome!, rievocava a spizzichi, con sofferto piacere. L’avvincente racconto si stava ampliando all’esperienza di lavoro che aveva fatto in Francia fino al 1964, prima come semplice raccoglitrice di limoni, poi come ambulante ai mercati rionali, fino a quando, grazie al boom economico, i fratelli, che aveva fatto crescere con le sue rimesse, rientrati anche loro in Italia dalla Germania e dal Belgio, le avevano chiesto di tornare per aprire a Napoli una rivendita di frutta e verdura.
Mi accorsi di aver tenuto il libro in mano, con le braccia rigide, aperto sempre a pagina 45. Quel libro mi era servito come i vetri a specchio degli uffici di polizia americani che permettono di guardare senza essere visti. Avevo ascoltato, studiato le due donne per tutto il viaggio.
«E avete fatto tutto da sola?» riprese la giovane nella quale cresceva una filiale empatia
«E comm, no? Che altro potevo fare, sperai nell’onestà delle intermediarie miezze francesi e miezze napulitane che erano pure arpie, ma anche il nostro Feisbucc, o Tuitter per tenere qualche relazione con i parenti. Una sospirata lettera al mese! Tu ‘o tien ‘o ‘nnammurato? Quante lettere scrivi alla settimana?»
«Signò, quali lettere, nui tenimm Skype e Whatsapp, io non so nemmeno quanto costa l’affrancatura – si dice accussì? – di una lettera».
«Sient’me, Debora senz’acca, ti faccio ‘na confessione, sto andando a trovare mia nipote a Milano, ma quann tuorno a Napoli pur’io agg’mparat a parlà cu essa attraverso Skype».
Avevamo superato Bologna. Mi rendevo conto di avere fatto un viaggio nel viaggio. Un viaggio nel tempo, negli anni ‘50 in cui non ero ancora nato e nella Francia del dopoguerra, imparando che accoglieva gli immigrati italiani anche clandestini pur di attuare efficaci politiche demografiche.
«Biglietto, prego» la richiesta del controllore mi costrinse a chiudere il libro. Appena si fu allon-tanato, l’imprevedibile Maria Immacolata Addolorata – le identità ora mi erano familiari – mi sorprese scusandosi amabilmente proprio con me: «Vi abbiamo disturbato la lettura del libro, dite la verità?»
«Ma che dice, signora» risposi ipocritamente «ero così assorto, è un romanzo interessantissimo!»
Ho gradito e ho viaggiato anch’io con voi. Il racconto è un po’ di nicchia, ma ho apprezzato sia il buon italiano usato per descrivere il gustoso quadretto, quanto il simpatico idioma che accarezza le orecchie alle pendici del Vesuvio. Mi è piaciuto.
Simpaticissimo spaccato di viaggio si ha l’impressione di viaggiare con il protagonista. Complimenti
Molto bello, leggibile e comprensibilissimo anche per chi, come me, non conosce il dialetto partenopeo. Le espressioni dialettali sono bene inserite nei dialoghi e coloriscono il discorso senza renderlo di difficile comprensione. Con semplicità, e naturalezza mi sono trovato seduto su quel posto libero, ad ascoltare la conversazione e spiare i pensieri signore col libro. Bello
Grazie Leonardo, Alessandra e Davide per l’apprezzamento. Mi fa piacere che abbiate colto tutti e tre la chiave principale di lettura del racconto.
Due viaggi al prezzo di uno. Complimenti, per il racconto e per l’affare! Mi è piaciuta anche l’idea del romanzo-scudo. C’è solo un passaggio nei dialoghi che, da napoletana, non ho capito benissimo: quando l’anziana dice “patete” e “mammeta” sembra riferirsi ai genitori della ragazza, mentre dal senso del discorso penso che parlasse dei suoi.
Grazie, Angela, del giudizio positivo. Grazie anche dell’osservazione. E’ vero, l’anziana si riferisce a se stessa, ma non parla in forma riflessiva
Bel racconto.Bello il linguaggio..accattivante ..denso di lezione di vita.Complimenti!!
Rosanna Catalano
Un viaggio in treno come espediente per aprire un viaggio nel passato. Il viaggiare che si fa cultura più di un libro letto: bel racconto. Ho poi un debole per il dialetto napoletano, quindi.