Premio Racconti nella Rete 2020 “Street food sociale” di Diego Inghilleri
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2020Mentre sono in coda alle casse, alzo gli occhi sullo schermo di un televisore in esposizione che trasmette l’immagine di un lungo serpente variopinto che si snoda attraverso una città in guerra: l’immagine è quasi ipnotica e mi cattura.
L’esclusione dell’audio mi impedisce di sentire da dove giunga la trasmissione, e non sono riuscito a leggere gli annunci sotto l’immagine del cronista prima che venisse sostituito dalla ripresa aerea di quest’evento di cui – per quanto irrazionalmente – sono certo sia responsabile mio figlio. Non è rilevante che tutto ciò stia accadendo quasi certamente in una cittadina del Medioriente attraversata da un confine misconosciuto e nel bel mezzo di un territorio multietnico, mentre mio figlio in questo preciso momento sta rientrando da scuola con un treno della metropolitana milanese. E’ come se fosse lì, come se avesse contribuito lui stesso con le proprie mani alla realizzazione di quel rettile improbabile, dalle spire contorte e affascinanti. Mi domando se stia guardando anche lui che cosa ha smosso; se si rende conto della responsabilità di cui inconsapevolmente si è caricato dal momento in cui centinaia di persone hanno sistemato scampoli di stoffa, tovaglie, tappeti logori, addirittura capi d’abbigliamento disponendoli uno accanto all’altro in una striscia che si dipana da una periferia all’altra tagliando in due la città.
Le persone sciamano intorno al nastro colorato sempre più numerose, accomodandosi ai margini e depositando cibo su quel desco improvvisato incuranti del pericolo, dei cecchini, delle artiglierie che si fronteggiano a pochi chilometri, dei droni, degli elicotteri, delle mine antiuomo.
Alcuni clienti si fermano accanto a me e commentano le immagini con meraviglia. Due mentecatti alle mie spalle considerano che per apprezzare appieno le caratteristiche dei televisori di ultima generazione non dovrebbero essere trasmesse riprese a definizione così bassa. Mi rendo conto che sto riversando su di loro la tensione che mi cresce dentro nel timore di vedere all’improvviso frammenti di selciato levarsi in fontane di schegge, figure insanguinate accasciarsi su quel convivio raffazzonato e commovente o detriti piovere all’improvviso da una costruzione sbriciolata da una cannonata nel mezzo del fuggifuggi generale. L’apprensione è accresciuta dal numero di bambini, uomini e donne che si scambiano pani e condividono piatti di verdure, che versano bevande calde da samovar che sanno di Mille e una notte.
Durante la manciata di secondi del collegamento, però, non accade nulla. Il telegiornale passa rapidamente a un’altra notizia e io mi affretto a lasciare il centro commerciale e a rientrare a casa provando a farmi una ragione di quello che accade. Delle implicazioni, ma anche del significato.
Mi è inevitabile ricordare come è iniziato tutto questo.
Torno a due anni fa. Mancano pochi giorni a Natale. Come ogni anno da che è morta mia madre va in scena un nuovo episodio della diaspora familiare che riduce sempre più il numero dei convitati.
Mi mancano i pranzi di Natale di un tempo. In effetti mi manca molto altro, ma quella dei pranzi natalizi è una mancanza simbolica e più dolorosa. Racconto a mio figlio per l’ennesima volta di come, fin dalle prime ore del mattino del 25 dicembre, i vetri delle finestre della cucina si appannassero ai vapori delle casseruole con cui armeggiava mia madre, sua nonna; di come si venisse svegliati dal profumo delle pietanze in cottura che si spandeva per il ballatoio mescolandosi ai profumi che venivano dagli altri appartamenti, vera colonna sonora – anzi, olfattiva – della giornata di festa.
“Siamo sempre meno. Quest’anno se ne va anche quel cazzone di tuo zio”.
“Trova un modo per farlo stare,” semplifica mio figlio.
“E come competiamo con i Caraibi? Con i cannelloni al verde e i cappelletti in brodo?”
Mi guarda di sfuggita, digitando sul telefono. “Non mi raccontavi che già la Vigilia eravate tutti insieme al lavoro? Tagliavate la verdura tutta uguale per l’insalata russa, arrotolavate gli involtini, sistemavate il vitello tonnato sui vassoi, davate forma ai cappelletti. Scherzavate. Vi facevate dispetti. Vi divertivate. Cenavate insieme mettendovi sul tappeto in soggiorno perché i nonni avevano già preparato la tavola per il giorno dopo. Allo zio non devi proporre il pranzo. Invitalo ai preparativi, che erano il momento più bello”.
Smette di digitare. Mi guarda. “Se vuoi lo chiamo io.”
“Lo faresti?”
“Sono un adolescente. Ho spesso a che fare con i cazzoni”.
E mio fratello accetta e rinuncia ai Caraibi, e la sera della Vigilia, tutti seduti sul vecchio tappeto dopo una sfacchinata a base di risate, spilucchiamo quello che non ha trovato posto nei bei vassoi e divoriamo i bucatini conditi con il fondo dell’arrosto. Il giorno dopo non abbiamo abbastanza sedie e ricorriamo a vecchi sgabelli che stavano in cantina da tempo.
E’ solo l’inizio.
Il febbraio seguente, accade che il Preside del Liceo che frequenta mio figlio neghi la concessione dell’aula magna che è stata richiesta dagli studenti per tenere un’assemblea dopo l’orario dei corsi.
Mio figlio – al quale non avrei mai pensato potesse importare di un’assemblea su temi sociali – pensa bene di sedere sul marciapiede al termine delle lezioni, davanti alla scuola, sistemando il giaccone per terra e posandoci sopra il panino che non ha mangiato all’intervallo perché era a discutere con il Preside insieme a una nutrita delegazione. Mezz’ora dopo, trecentocinquanta ragazzi occupano il marciapiede lungo un variopinto serpentone, si confrontano, discutono, consumano un pasto più o meno frugale, imparano a riconoscere l’altro. Vengono poi sgombrati dai Vigili Urbani chiamati dal Preside che incautamente con il suo intervento apre loro le porte di testate giornalistiche e social. E’ lì che mio figlio viene citato per la prima volta come promotore geniale. Riceve perfino un messaggio da mio fratello che gli scrive “Ben fatto. Lo zio cazzone”, che mi rivela di contatti gioviali e senza censure di cui non supponevo l’esistenza.
Iniziative analoghe si moltiplicano rapidamente al di fuori della nostra città, in diversi contesti.
“Avranno tutti avuto una nonna”, commenta mio figlio quando i rappresentati di una lista civica d’opposizione, politici e cittadini di diversa estrazione e corrente politica la cui protesta non riesce a raggiungere la sala consiliare del loro Comune, si aggregano intorno a una tavola fatta di sciarpe, tovaglie e coperte, a crescita scoordinata e inarrestabile, nella piazza grande, dove cittadini portano cibo come in un giorno di festa, quasi offerta a chi li sta rappresentando e salvaguardando.
Scopro nei giorni seguenti che dopo ogni evento simile, mio figlio viene contattato e risponde in maniera pronta e misurata. La foto del profilo lo ritrae seduto su di una panchina con gli amici mentre taglia la torta di compleanno. Sta rimodellando il concetto di flashmob strappandolo all’area danzante e dandogli dignità sociale.
E’ accaduto in uno dei più grandi centri di accoglienza del Sud. Si è ripetuto in una cittadina della Baviera in seguito a incidenti di matrice raziale. A Parigi in un sabato di tregua piena di significato che ha accomunato cittadini e forze dell’ordine. A Londra, in un momento di aggregazione spontanea per ricordare che ci sono modi diversi di lasciare l’Europa, magari senza scavare solchi. E lungo i misconosciuti confini tra Catalogna e resto della Spagna per dire che a tavola c’è posto per tutti; al mondo c’è posto per tutti.
Arrivo a casa trafelato. Mio figlio sta già pranzando. Non accade quasi mai che ci si incontri durante il giorno, ma oggi è un sabato insolito.
Influenzato, è davanti a un piatto di riso in bianco e osserva dallo schermo del computer le stesse immagini che mi hanno causato tanta apprensione. Alza gli occhi verso di me per un attimo e mi sorride.
Mi siedo davanti a lui.
“Mangiamo con loro?” mi chiede spostando verso di me il piatto. Mia moglie si siede con noi.
“Non ti preoccupi?” Non riesco a non chiederglielo.
Sposta verso di me il cellulare sul quale si aprono contatti come fiori che sbocciano in un filmato avanti-veloce. Ne mostra alcuni facendo scorrere la schermata con un dito. Foto di profili: militari dalle divise diverse, dai diversi colori della pelle, dalle diverse lingue stampate sugli indumenti che indossano. Il messaggio è unico, in un inglese più o meno corretto, in arabo tradotto dal programma stesso.
Li terremo al sicuro.
“Non c’è pericolo. Vedi?” mi tranquillizza, più con la sua serenità che con il messaggio stesso pieno di implicazioni. “Mangiamo?” dice infilando le dita nel riso bianco.
“Riso?” chiedo perplesso.
“Ma vi importava davvero di quello che mangiavate o bevevate quando eravate tutti insieme?” mi chiede allora il giovane uomo che ho di fronte.
No, non ci importava.
“E riso sia!” mormoro. Tutti e tre ci portiamo il boccone alle labbra e ci uniamo ai commensali che riempiono lo schermo. Ci sentiamo tra amici.
Una storia ben costruita, originale e positiva, con un messaggio di ottimismo e speranza nel domani. Il futuro del mondo è nelle mani dei nostri ragazzi, che ci aiutano a guardare più in là del nostro egoismo e dei nostri individualismi.
Ciao Diego. I ragazzi ci sorprendono in modo positivo e sono una boccata d’aria fresca. Purtroppo non tutti sono così geniali… affinché lo diventino molto dipende anche da noi adulti.
Bel racconto pieno di sana energia.
Grazie Nilla e grazie Alessandra. Desideravo proprio essere positivo, una volta, nel mezzo di tante e tali difficoltà