Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2020 “Miscela d’autore” di Franco Revello

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2020

L’alba era un’alba normale, fotocopia di tante albe estive, con l’arancio intenso e breve che iniziava ad affacciarsi all’orizzonte.  Il cielo azzurro e completamente orfano di qualsiasi accenno di nubi, incasellava il giorno prossimo a venire tra gli standard di luglio. Lampioni sparsi riflettevano nei loro vetrini la prima luce proveniente da est.

Nessun accenno a possibili cambiamenti di scena si prefigurava nel contesto giornaliero. Eppure, nell’afoso piattume di un mattino cittadino, tra i clangori della meccanica raccolta rifiuti e cinguettii intermittenti di usuali affittuari di alberi, mi sono ritrovato nudo e disteso su un lettino d’acciaio in una camera del prestigioso e caritatevole ospedale zonale.

Deduco dalla sbirciata di sfuggita data alla targhetta della stanza, di aver avuto qualche problema di non poco conto, poiché mi trovo inaspettatamente e diciamo pure controvoglia, nella saletta dell’obitorio.

Come sia potuto accadere, resta per me un mistero, ma di tempo ne avrò  – immagino – per riflettere sulle cause e sulle eventuali colpe mie, o di altri, che hanno contribuito a creare questa strana sequenza di fatti. Ora si tratta di scegliere rapidamente se mantenere la posizione adottata o cambiare strategia poiché – nonostante la calura – la cella frigo non è luogo consono alle mie attitudini di attore e per l’inevitabile  successivo bisturi nutro sinceramente una certa avversione.

Complice un magico effluvio di arabica proveniente dall’esterno, realizzo che questa è la classica ora del mio caffè mattutino, e ciò mi crea un notevole sentimento di nostalgia per le cose lasciate:     un malessere che s’insinua tra i caratteri degli innumerevoli personaggi che in vita ho interpretato. 

Ora, se questo fosse un film del genere fantastico/strappalacrime, gli spettatori annoiati avrebbero iniziato a rumoreggiare ed io mi sarei alzato, abbandonando quest’asettico giaciglio per bussare timidamente alla porta della stanza accanto, dove “riposa” la mia vicina di sventure.

Lei, fintamente stupita dalla mia presa di posizione, avrebbe esitato il tempo necessario prima di aprire ed essere poi travolta da una serie di baci appassionati.

Diversa invece la realtà, io conosco queste situazioni che si vengono a creare, io sono un attendista, uno che non vuole rovinare tutto, uno che non precorre i tempi. In fondo un romantico, uno all’antica, ma sono quasi le otto e i crampi della solitudine iniziano a farsi sentire, accompagnati da una brezza leggera proveniente dal ventilatore che agita la tenda e il mio cuore, e poi… gli umori del pubblico vanno assecondati.

La decisione è presa: mi alzo ed esco silenziosamente calcando la moquette del corridoio malamente sovrapposta a un parquet giallobruno d’iroko, mi soffermo dinanzi la porta di Sofia, sfioro la maniglia dorata quasi accarezzandola, ma proseguo oltre.

Salgo le scale, recupero un camice abbandonato, un paio di scarpe della mia misura e mi dirigo verso la cucina, respirando a pieni polmoni la mia dose quotidiana di caffeina.

Ora, se fosse un film, si sarebbe trasformato in un giallo nel preciso momento in cui io, non visto, mi impadronisco di un coltello, ma come ho già detto, sono in fase romantica, saluto il portiere ed esco in strada. Vago senza meta, anzi con un’idea ben precisa nella mente che si concretizza dopo qualche isolato: mi guardo intorno, estraggo la lama e con un fendente preciso recido in un solo colpo il tenero gambo di tre rose indifese che da un giardinetto si affacciano sulla pubblica via.

Ricalco i miei passi ritornando in quella fattispecie di albergo e ripongo i fiori sul tavolo che avrebbe ospitato tra non molto una fotografia decente di Sofia.

Il ritorno in camera è silenzioso, sfiorato leggermente dal dorato sogno della stanza accanto, seguito a malincuore dallo sdraiarsi a faccia all’insù con le mani giunte, in posizione orizzontale, fredda e neutra.

La mia fortuna, dicevano, era quella di possedere un cuore forte. Una litania ripetuta ossessivamente ora da chiunque si trovi nei pressi del mio capezzale: dottori, infermieri, degenti, curiosi; ad ogni visita la solita solfa, mentre il tempo trascorre lentissimo e tutti si interrogano sul perché io indossi un camice.

“Era un attore e qualcuno ha voluto rendergli omaggio con un travestimento nell’ultima sua performance”, azzarda qualcuno.

A me pare una giustificazione logica.

Nelle narici però si insinua nuovamente l’effluvio magico, questa volta credo di bourbon brasiliano, risale le vie respiratorie e raggiunge direttamente il cervello o forse, allo stato attuale delle cose, l’anima.

In tale condizione di grazia, entro in sintonia con i pensieri di Sofia che “riposa” nella stanza accanto, posso sentirli, ne comprendo chiaramente il primo: si tratta di un inequivocabile commosso ringraziamento per le rose.

Riepilogando: siamo morti entrambi sorseggiando una tazzina di caffè, e questo comune particolare ci consente di dialogare, mentre non possiamo interagire con gli altri “colleghi” che condividono con noi il piacere di occupare questi gelidi appartamenti. Probabilmente siamo destinati a collaborare affinché la verità affiori, sempre che ce ne sia una. Tu cantavi, io recitavo: un filo sottile legato alle arti ci univa, o più precisamente ci unisce ancora; concentriamoci sui particolari e arriveremo alla soluzione.

“Sai, mi torna alla mente una frase pronunciata da mia moglie la mattina di domenica scorsa, che poi era lo stesso giorno della nostra recita: mi disse che si sarebbe recata a visitare una mostra di quadri alla Galleria d’Arte Moderna, una visita guidata.

“ Sofia, tuo…marito….per caso…..era lì?”

“Siiii, ma questo non vuol dire che si conoscessero, o almeno credo”.

Un inserviente aprì la porta cigolante dello stanzone e fece segno ai visitatori di entrare.

“Ecco signora, qui c’è suo marito Andrea, mentre il signore potrà vedere sua moglie Sofia nella celletta di destra”.

I due deceduti si guardarono mentalmente; i due vivi non si guardarono subito: avevano finte lacrime da asciugare e non appena le ebbero terminate richiamarono l’addetto per rimettere a dimora i corpi dei rispettivi consorti, farfugliando solite frasi di circostanza.

Un profondo sospiro liberatorio li accomunò verso l’uscita, dove i loro occhi s’incontrarono, finalmente liberi da ogni impedimento.

Ora, se questa fosse una sceneggiata napoletana, due fedigrafi, come da copione, avrebbero perlomeno dovuto strapparsi qualche capello, urlare a perdifiato contro il destino avverso, contorcersi per il dolore viscerale e invece nulla di tutto ciò, zero, pare una commedia scandinava.

Dalle loro labbra esce solo un “andiamo anche noi a prenderci un caffè?”.

Ma questa non–reazione, abbinata a quella frase, suscita un processo mentale nella ormai degenerata scatola cranica della mia pallida e inerte compagna d’albergo che in un lampo scioglie l’enigma, inviandomi la soluzione direttamente nella casella dell’unico mio neurone ancora funzionante.

“Sono stati loro! Ci hanno avvelenato sul palco. Nel caffè c’era una sostanza tossica non rintracciabile. Ecco come siamo deceduti, altro che infarto improvviso per entrambi, altro che morte in scena!”.

Tutto chiaro, e di una semplicità elementare.

A questo punto, se fosse una piece teatrale, l’attore principale, che sarei poi io, avrebbe seguito scrupolosamente il copione nelle sue battute finali e la (scarna) trama, ottenuto sì e no due o tre applausi, ma gli attori, si sa, hanno il dovere, e l’obbligo, anche di improvvisare.

Seguo l’istinto e gli odori di “coffea liberica” della Costa d’Avorio e del Madagascar, misti a quelli della “coffea robusta” Guineana (che ha un contenuto di caffeina tre volte superiore al normale), e forte di questa “carica”, improvviso.

Cosa non farebbe un attore per garantirsi anche solo un applauso in più!

Senza essere visto mi alzo, esco, mi riprendo le rose insieme ad una sostanza proibita nell’armadietto dei medicinali, ripercorro le scale passando per una scorciatoia che porta alla fonte degli effluvi e precedo la coppia di amanti avvelenatori diretta al baruccio interno.

“Ho assolutamente bisogno di un favore”, dico rivolgendomi all’inserviente dello spaccio che riconosce in me un dottore, (Ah! che attore sono!) “tra poco giungerà qui una coppia che, per uno strano scherzo del destino, si è trovata nella spiacevole situazione del dover riconoscere il proprio coniuge deceduto. Sono entrambi molto provati e non hanno accettato che gli prescrivessi un calmante tradizionale per la notte. Dopo che avranno sorseggiato il caffè, sarebbe così gentile da omaggiare le due persone con questi splendidi fiori e raccomandarsi che li odorino apprezzandone il delicato profumo prima di coricarsi? Sa, io sono un naturopata e credo nelle qualità rilassanti possedute dal petalo di rosa, ma spesso non vengo ascoltato e poi… devo scappare.. scappare in… pronto soccorso”.

“Certo Dottore, sarà un piacere. Anche io nel mio paese, in Congo, mi rilassavo camminando per ore tra le piantagioni di caffè”.

E’ tempo che ritorni alla mia dimora, le mie facoltà mentali si stanno affievolendo, sopravvivo solo grazie all’aleggiare di un residuo aroma caffeinico nell’aria.

Se gli attori seguiranno fedelmente la loro parte, tra qualche ora avremo altri due ospiti che occuperanno le cellette dell’albergo sottostante, grazie ai petali di rosa cosparsi da una sostanza invisibile, velenosissima se inalata.

Se tutta questa gran miscellanea di eventi fosse un musical, la colonna sonora adatta per l’epilogo, sarebbe stata un quarantacinque giri del 1969 di Riccardo Del Turco dall’emblematico titolo:

“Ma cosa hai messo nel caffè?” ( ..se c’è un veleno morirò / ma sarà dolce accanto a te / perché l’amore che non c’era / adesso c’è …), ma l’insieme ha ormai assunto l’aspetto di commediola e a me vengono in mente unicamente alcuni versi che declamo uscendo dalle quinte per il bis.

Dal Bacco in Toscana, 1685, di Francesco Redi:

“Beverei prima il veleno

che il bicchier, che fosse pieno

dell’amaro e reo caffè”.

Altri applausi.

Giù il sipario e ovviamente nessuna replica in programma qui.

Da domani si cambierà teatro, per sempre.

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3 commenti »

  1. Fantastico! Letto d’un fiato senza immaginarne il finale. Complimenti per lo stile, la fantasia, il pathos che crea parola per parola. Bravissimo

  2. Ritmo incalzante, riflessioni spassose accompagnate dal quell’aroma caffeinico nell’aria che ho adorato.
    Complimenti, minuti di lettura assolutamente godibilissimi.

  3. Ciao, l’incipit c’è, l’idea pure. Un buon ritmo nella scrittura, divertenti le pause digressive sul come potrebbe essere “se”.

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