Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2020 “Strada a ritroso” di Alessandro Carlini

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2020

I think I’m gonna die soon. Una parola mi tiene in vita, debole filo che si può recidere in un attimo. Picciolo di queste mele da sidro, dure, acerbe e appese sopra la mia testa. Un soffio di vento e vengono giù. Perchè in principio era il colpo e colui che lo sparò.

Marciavo fra gli alberi al confine del podere, a tre chilometri dalla cittadina, a troppi da casa mia, a un passo dalla fine. Il cecchino, coperto dal suo telo mimetico, respirava piano per non spostare le frasche. Ha puntato su di me. Avrà visto questi tre baffi maledetti sulla manica della giacca che ora colano sangue a profusione. Il primo colpo mi ha preso la spalla perchè all’ultimo istante mi sono spostato di scatto. Mi ero guardato indietro, per controllare i miei soldati. Avevo un presentimento. La fucilata è stata la conferma. Ha ricaricato in fretta. Mentre mi inginocchiavo per il dolore ha sparato ancora, facendo centro.

Ero andato troppo avanti, come sempre nella mia vita. Primo della colonna, attratto dal nuovo e dall’inconsueto. Gli altri lungo il sentiero di campagna, per fortuna, si sono salvati. Vorrebbero venirmi a recuperare. Non sanno che è troppo tardi. Intanto lui, il cecchino, mi tiene sotto mira e mi tiene pure in vita. Sembra non voglia concedermi il colpo di grazia e si goda, nell’attesa, la mia agonia. Mi scalda il sole di agosto, trapassa le chiome e le loro foglie, come i proiettili la mia carne.

Aspetto l’ultima schioppettata, da animale braccato nel frutteto che i francesi chiamano bocage e io dannato posto senza via d’uscita. Non ho il dono della sintesi, nemmeno in punto di morte. Non mi muovo per non far imbizzarrire il cecchino cacciatore che da cento metri mi scruta, mi giudica e mi condanna. Perchè in principio era il colpo e colui che lo sparò.

Prima di trovarmi al cospetto del dio tedesco col fucile e il mirino non era stato semplice arrivare fino qui, guadagnarmi da ragazzo la fiducia dei miei coetanei americani, prenderli a pugni quando mi chiamavano macaroni, italiano mangia-spaghetti, guinea pig, una cavia, una pantegana, buono solo, una volta diventato grande, per scavare i tunnel delle loro metropolitane.. e crescere sempre sentendomi uno straniero, un diverso, per poi guadagnare la dignità col lavoro, la famiglia, la divisa, e alla fine trovarla dopo la sequela di offese, umiliazioni e sputi. Gli vorrei urlare in faccia a questo kraut la fatica fatta per diventare il suo bersaglio in uniforme da G.I., la sua tacca da aggiungere, il suo vanto da gradasso, ostentato davanti ai boccali di birra coi suoi camerati o a una donna. Lui però non svuota bicchieri ma il mio tempo, come una clessidra vorace, e non spara. Potrebbe farlo ma il colpo non parte.

Non voglio lamentarmi anche se qualche rantolo di dolore devo per forza emetterlo. Mi copre il cinguettio degli uccelli. Spero di quelli buoni e non dei corvi neri che ho visto qualche giorno fa avventarsi su una vacca morta. Tutti però fanno il loro dovere, come del resto lo fa il cecchino.

Meglio recuperare l’immagine di casa e della famiglia. Casa l’ho dovuta cercare spostandomi per i 27 anni della mia vita. Con mamma e papà sul piroscafo quando partimmo da Genova alla volta di New York. Ma era solo l’inizio perchè eravamo diretti in California. Anche se la corsa all’oro era finita da tempo, per noi restava sempre l’eden rispetto alla miseria che pativamo sulle montagne del Veneto.

Almeno non finii a fare lo stradino. Mio padre si ritrovò bracciante pure in California e io dopo averlo fatto con lui per qualche tempo decisi che era ora di cercarmi una nuova strada. Scelsi la via dei telegrafi e dei treni. Volevo vedere dove si perdeva quel Paese nuovo e sterminato per farlo diventare il mio. Girai in lungo e in largo come operaio della Southern Pacific. Il tempo lo imbragai negli orari dei convogli merci e passeggeri, lo spazio con le tratte ferroviarie, da Los Angeles a ritroso verso l’est, fino ai porti dell’Atlantico, dove continuavano a sbarcare gli italiani. Mi sentivo in una terra di nessuno mentale, non più italiano e nemmeno già americano. Mi toccava vagare per trovarmi. Per poi ripartire verso ovest, gli snodi di Tucson, El Paso, i deserti, la piana agricola dell’Oklahoma, girando e rigirando per raggiungere una destinazione temporanea, fino alla partenza successiva.

Il mio lavoro erano martellate e rivetti lungo la linea infuocata. Tracciavo andate e ritorni. Operaio semplice, poi specializzato e infine tecnico. Una casa vera e propria ce l’avevo. A San Francisco, dietro Columbus Avenue, al 1624. Il mio appartamento, tre stanzette ammobiliate con dignità, anche se non lo vedevo quasi mai quel posto, mi dava sicurezza pensare che esistesse di legno e pietra, non solo nella mia mente.

Il tempo vola via e il cecchino è un orologio che mi ricorda i pochi secondi rimasti. Un maledetto orologio nazista che non sbaglia mai l’ora della morte. Le locomotive rosso fuoco della Southern, appena dipinte, mi passano davanti nella memoria. Non posso più salirci sopra e scappare via. L’unico treno sempre in orario è l’ultimo.

Sono stati i miei anni migliori, quando sentivo le loro sbuffate di vapore e gridavo emozionato che in fondo con traversine, legno e bulloni, lo stavo tenendo insieme quel Paese, gli Stati Uniti d’America. Il grande octopus ferroviario, le stazioni dimenticate da Dio, nel Midwest, centri del niente, la mia vita beata, senza capo né coda. Quella che ora mi sta sfuggendo via. Dannazione. Rendo grazie al destino per aver vissuto in un mondo che si spostava frenetico e smanioso. Ero parte di un’umanità in viaggio per andare da qualche parte, per raggiungere l’altrove, pregando lo spirito di Ulisse. Mentre ora manco le gambe si muovono e non striscio nemmeno di un metro nel fango. Ma questo viaggio, l’ultimo, mi porta più lontano di tutti gli altri.

Quando il lavoro lo permetteva mi fermavo nella stazioncina di Lodi, non lontano da Sacramento. A mio padre Mario era piaciuto il nome italiano di quel posto ma soprattutto poter lavorare in un vigneto, quello che aveva fatto da giovane. Lodi la chiamavano an abundant paradise.

I miei genitori il loro paradiso l’avevano trovato. Avrei potuto trasferirmi lì, prendermi quanto mi spettava dalla compagnia ferroviaria e ritirarmi in campagna. Ma lo zio Franklin Roosevelt aveva altri progetti per me e tanti altri giovani: la guerra mondiale. Tutto doveva aspettare. Mamma e babbo che già avevano visto dove costruirmi la casa, e io che mi ero fidanzato con Dorothy. Faceva la segretaria nella sede della Southern a San Francisco.

La conobbi quando firmai il nuovo contratto dopo che mi avevano promosso tecnico. Uno di quei giorni in cui puoi chiedere tutto. Potresti perfino vincere alla lotteria. Dorothy, la mia lotteria, il suo nome vuol dire dono di Dio, l’ho letto da qualche parte. Non proposi di sposarla prima di partire per l’Europa. Non volevo che diventassimo sposi di guerra. Meglio lasciarla senza vincoli nel caso in cui finisse male. Il cecchino crucco ora mi darebbe ragione se potesse: «Hai fatto bene a lasciarla stare quella povera ragazza». Ma il tedesco qui davanti non parla, spara soltanto, e vuole mandarmi all’altro mondo.

C’era Dory, c’era Lodi, c’erano il padre Mario e la madre Silvana, c’era il cane Argonauta: gli avevo dato il nome del treno che correva da New Orleans a Los Angeles passando per Houston, San Antonio, El Paso, Tucson e anche Palm Springs. C’era una casetta con la vite che scendeva dal pergolato, pronta a fare ombra quando tira il vento caldo dal Messico, per ricordarti d’inverno che l’estate sarebbe prima e poi ritornata e così l’autunno con la prossima vendemmia, la festa e le tue mani tinte di mosto rosso. Fra le mie vedo sangue. Quanti doni, promessi da Dio e perduti dagli uomini, io primo fra tutti. In principio e alla fine era il colpo e il cecchino che sparò. La mia storia, la mia vita, un lungo sogno a occhi aperti terminato in un sentiero cieco.

Non lo racconta il marmo bianco di questa lapide schierata sotto un albero, magari fosse di mele proibite e mai colte, al cimitero americano di Colleville-sur-Mer, in Normandia. Dice che sono il sergente Lucio Toniutti, morto il 16 agosto 1944, e vengo dalla California. In realtà, da tanti posti diversi.

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8 commenti »

  1. Alessandro, il tuo racconto ha la capacità di emozionare il lettore. Almeno a me è successo così. A mio avviso ci sono dei passaggi che sono delle vere chicche raffinate. Forse il tuo personaggio non ha il dono della sintesi ma chi scrive certamente sì. Frasi come “L’unico treno sempre in orario è l’ultimo” o “Mi toccava vagare per trovarmi” nascondono in pochissime parole, enormi significati.
    Leggendo il tuo racconto mi è venuta in mente la canzone di Springsteen “American Land” una poesia musicata sull’America costruita con la fatica dei suoi immigrati.
    Ancora complimenti.

  2. Grazie Raffaele, veramente, hai colto l’essenza del racconto. Il “boss” è stato sicuramente una fonte di ispirazione. Insieme a ‘Telegraph Road’ dei Dire Straits. Dal punto di vista letterario ho voluto fare un omaggio ai grandi, John Steinbeck, Edgar Lee Masters e Stephen Crane, dando sfogo alla mia sensibilità e a tematiche fortemente contemporanee, come l’immigrazione. La storia poi: proprio in questi giorni, il 6 giugno, ricorre l’anniversario dello Sbarco in Normandia. La Grande Storia e quella piccola di un uomo, Lucio, i suoi sogni irrealizzati in una vita però spesa (e goduta) a guardare sempre avanti come se quel momento, l’ultimo, non dovesse mai arrivare. Grazie ancora

  3. Bella questa storia del mangia spaghetti morto per la libertà. Molto ben scritta, en plus.

  4. Thanks Luca!

  5. Storia bella e toccante, raccontata con gusto e maestria. Non sono mai abbastanza le occasioni per riflettere sul passato , bravo.

  6. Un bel racconto, Alessandro: mi è piaciuto lo stile e il modo in cui hai creato le immagini e caratterizzato il protagonista.
    Bravo!

  7. Grazie mille anche a Nilla e Liliana. Nell’elenco dei grandi a cui mi ispiro dimenticavo uno scrittore della Lost Generation considerato fra i più grandi, William March. Un maestro del racconto.

  8. Nell’ultimo attimo si ripercorre la vita e qui, con linguaggio denso e diretto immagini ricordi ed emozioni corrono veloci prima della fine. Complimenti.

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