Premio Racconti nella Rete 2020 “Io, io il maschio di casa” di Genny De Pas e Donatella Di Martino
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2020Oggi ho 29 anni e il mio passato è sempre qui come un macigno. Vivo da solo, non ho legami sentimentali. Per lungo tempo non ho più avuto un passato: la mia infanzia, i miei primi anni di scuola quasi cancellati, solo ricordi nebulosi ma appena riaffiorano vengo sopraffatto dall’angoscia. Sono momenti di intenso dolore che io non voglio provare e che supero da solo e in silenzio. Ho 29 anni e il mio passato è sempre qui come un macigno perché i lividi dell’anima sono i più difficili da guarire. Sento ancora il rumore delle chiavi nella porta: mio padre. Tutti noi ci bloccavamo. Era sempre tutto perfetto: la cena pronta, la tavola apparecchiata. Io e Sara, mia sorella, seduti buoni e tranquilli, ma c’era sempre un “ma” che avrebbe scatenato in mio padre la sua cieca brutalità. Un tovagliolo fuori posto, la minestra troppo salata, un cucchiaio che cadeva in terra. E il mondo si capovolgeva. Il suo rientro mi terrorizzava, il suo sguardo mi annientava. Era un’agonia, il cuore mi esplodeva in petto, ma non un urlo, non un pianto: il terrore era il mio unico compagno. Sempre. Quando mio padre c’era e quando era assente. Il tempo era scandito dalla paura. Ne avvertivo la puzza. La paura era una ragnatela che ci imprigionava e che lasciava un’impronta in tutta la stanza e su di noi. Per mio padre era un’ospite gradita: era l’unica per cui valeva la pena di tornare a casa. La violenza abitava in casa mia. Io, io il maschio di casa, non venivo toccato e restavo lì, terrorizzato e immobile. Ho imparato presto a osservare, a tacere, ad aspettare che qualcuno mi aiutasse. È stata un’attesa vana. Quel qualcuno non c’è mai stato. Costringendomi a guardare lui mi voleva insegnare come si trattano le donne. Mi usava, mi schiacciava con la sua violenza, ogni volta una lotta impari e nemmeno i miei sguardi imploranti riuscivano a fermarlo. Ero un burattino nelle sue mani e lui tirava i fili quando e come voleva.
Sento ancora il rumore delle chiavi nella porta: mio padre. Se facevo in tempo, mi nascondevo in camera mia sotto il letto. Mi tappavo le orecchie per non sentire e chiudevo gli occhi. Ero convinto, come nei giochi dei bambini, che mio padre non mi avrebbe visto se io non lo vedevo. Ma mi trovava sempre e mi strappava dal mio rifugio, dovevo assistere al suo show: le botte date senza pietà alla mamma e alla mia sorellina. I pianti di Sara, nessun nascondiglio a darle protezione. Restare indifesi e soli dinanzi ad un odio oscuro. Vivevamo in un recinto costruito da un adulto violento. All’esterno indifferenza e incomprensione. Noi costretti a vivere in una casa-prigione fatta di una quotidianità devastante, senza via d’uscita. Vedevo picchiare mia sorella, sentivo i suoi lamenti. Mio padre infieriva su di lei come su una bambola senza vita, senza importanza: io testimone di tanta violenza, non reagivo, io vittima di tanta violenza, vivevo in una costante paura. Ero risparmiato ma la mia anima era a brandelli e mi sentivo perduto. Nessuno mi consolava, mi abbracciava. In casa mi sentivo sempre minacciato. Non posso perdonare mia madre che aveva accettato tutto questo, e vorrei tanto cancellare mio padre dalla mia vita: una vita spezzata. Così fin da piccolo ho indossato una maschera e tutti hanno pensato che fossimo una famiglia felice. Forse i vicini sentivano e sapevano ma non sono mai intervenuti, indifferenti a ciò che avevano intuito. Mia sorella con il suo sguardo innocente, assente, con il suo fisico minuto, con le sue urla tormentate, con i suoi pianti che dirompevano nella tranquillità della sera, non ha mai colpito la sensibilità di nessuno. E poi sono questioni private di cui non ci si immischia. D’altronde non c’erano tumefazioni sul suo volto, mio padre sapeva dove e come picchiare. Mi sarebbe piaciuto scomparire o fuggire via ma per un bambino è impossibile. Quasi ogni mattina, a digiuno, vomitavo e nessuno se ne accorgeva. Ora so che vomitavo quelle serate fatte di paura che vivevo ormai ogni giorno. Cercavo la “normalità” a tutti i costi: mi sedevo a far colazione come se nulla fosse e poi andavo a scuola. Anche lì mi attendevano freddezza, disinteresse e superficialità. Pur essendo aggressivo soprattutto con i miei compagni maschi, le maestre non si sono mai poste tante domande e si limitavano a rimproverarmi. Così il mio unico modo di ribellarmi a quanto vivevo in casa era rispettare le ragazze e punire preventivamente i futuri padri. Ero aggressivo perché non volevo apparire fragile. Ero un bambino invisibile, non avevo la forza di confessare a nessuno perché le mie emozioni e i miei sentimenti fossero paralizzati. Non mi confidavo con quei pochi amici che avevo perché mi vergognavo a raccontare quelle serate fatte di terrore cui non riuscivo ad oppormi. Allora mi giudicavo colpevole di non riuscire a salvare la mia sorellina. Ero vittima ma mi sentivo carnefice.
Non riesco ancora a spiegarmi perché in casa mia si fosse creata quella situazione. La miseria e l’ignoranza non sempre sono il presupposto per cui le violenze si verificano. I miei genitori erano istruiti e non avevano difficoltà economiche: babbo insegnante e mamma commercialista. Non c’erano tensioni e frustrazioni lavorative da riversare in famiglia. E allora perché? Qual era il motivo che scatenava la furia di mio padre? E perché mia madre non reagiva? Forse sopportava quella vita disumana poiché era totalmente subordinata a suo marito: all’inizio era davvero innamorata e con il tempo era diventata succube di una relazione malata. Posso solo immaginare quali dovessero essere i suoi pensieri e le sue angosce nei giorni e nelle notti in balìa di mio padre, quale tragica sofferenza la facesse sopravvivere fisicamente e come si sentisse una nullità e una vittima sacrificale senza un domani, con due figli che condividevano la stessa sorte. Ma era così davvero? Oppure, e credo che questa sia la realtà, accettava quella situazione perché le piaceva assistere alle violenze del suo uomo su di noi bambini? Un maschio e una femmina: io, impotente e risparmiato dalle botte ma costretto a vedere. Mia sorella Sara, vittima della virilità distorta di mio padre. Mi sentivo debole, infelice, a volte anche complice di quell’individuo che dominava le nostre vite. Lui mi voleva trasmettere un modello di rapporto degradato e degradante, di sopraffazione verso la donna con licenza di maltrattamenti. In realtà, allora, la mia reazione fu proprio opposta: sfogavo la mia rabbia sui maschi e cercavo di intervenire in favore delle bambine in difficoltà ma loro rifiutavano il mio aiuto. Sapevano cavarsela da sole. Erano forti abbastanza. E Sara perché non era forte? Perché non si difendeva? Ma come avrebbe potuto farlo. Subiva continuamente brutalità su di sé e assisteva alla resistenza passiva di mamma che non protestava, accettando tutto in silenzio. Il messaggio era questo: alle donne non resta che sottomettersi. Nessuna ribellione era prevista.
I miei genitori vivono ancora insieme. Ma per me sono morti. Appena ho potuto sono scappato da casa, dalla mia famiglia. Famiglia? Da quell’inferno. Ho abbandonato mia sorella ed ho scelto di studiare lontano da tutti loro. Non so come ho fatto ma sono fuggito. Non tornavo mai a casa nemmeno per le vacanze natalizie o estive. Venivano loro a trovarmi e risvegliavano in me momenti terribili che mi rendevano muto e incapace di comportarmi da figlio. Perché figlio non ero mai stato. Il mio solo desiderio era che se ne andassero alla svelta. Quando li vedevo andar via ricominciavo a vivere. Compativo mia sorella rimasta loro prigioniera, ma non ho mai mosso un dito per allontanarla da quei due. Dovevo pensare alla mia salvezza. Ho respirato la violenza che si è fatta padrona della mia vita e ho odiato i miei genitori. Non so cos’è l’amore. Non ho mai amato né un uomo, né una donna. Allontanarmi da tutti non mi ha liberato dal peso della mia infanzia: nessuna salvezza per me. Non ho voluto amici, non ho voluto aiuti. Ero sicuro di uscirne con le mie sole forze. Ho sempre pensato che chiedere aiuto fosse un segno di debolezza e arrangiarmi da solo è stato un punto d’onore. Mi sono costruito una corazza che mi aiuta a non morire.
Ancora oggi odio mia madre per il suo atteggiamento così remissivo da non aver mai cercato una via d’uscita. Sara era una bambina, solo una bambina disperata e folle per le botte e la paura. Ma mia madre? Una puttana ecco cos’era, una puttana. Ed oggi lavoro con loro con le puttane: sono il loro padrone, sono il loro protettore. A me la famiglia ha rovinato la vita ma ora mi sto vendicando. E la vendetta allevia il mio dolore. Le mie donne conoscono i miei metodi: nessuna ribellione, nessuna disubbidienza. Mi piace sentire la loro paura. La paura è una puzza che conosco bene ma ora sono io a gestirla. Niente mi trattiene. Non conosco la compassione e non ho pietà anche se rivedo nei loro occhi quel terrore di me bambino: in pochi istanti rabbia, paura, disgusto. In quegli occhi ritrovo la stupida e vergognosa rassegnazione di mia madre alle violenze del suo uomo e colpendo e picchiando le mie donne infierisco su di lei. E loro non si ribellano a me come lei non si è mai ribellata a mio padre.
Ero solo un bambino fragile che non ha conosciuto l’infanzia, che non ha conosciuto l’amore. Mio padre ha svolto bene il suo compito educativo: la sua violenza è diventata parte di me, è la mia vita.