Premio Racconti nella Rete 2020 “L’incontro” di Valentina Cirella
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2020Era seduto su quella sedia fredda e scomoda da più di due ore continuando a chiedersi cosa facesse lì ma senza trovare un valido motivo per andarsene. Tirò fuori dalla tasca della giacca l’ultima liquirizia, afferrò l’involucro di carta, lo appoggiò tra le labbra e tirò facendo uscire la caramella. Osservando la carta vuota ancora umida di saliva fra le mani si rimproverò, scuotendo la testa, per aver ceduto ancora una volta a quel rituale di scarsa igiene.
La porta d’ingresso del pronto soccorso si apriva e chiudeva di fronte a lui generando brevi folate di vento che lo colpivano al volto. Quella sensazione gli riportò alla mente la passeggiata nella notte della vigilia di Natale del 2019. Camminava senza meta nella periferia di Piacenza. L’aria fredda di dicembre gli tagliava il volto ma al tempo stesso gli regalava un senso di leggerezza che avrebbe voluto conservare anche a casa. Avevano deciso di accettare l’invito dei parenti di sua moglie sebbene tra loro le cose non andassero bene già da un pò. L’avevano fatto per Cloe, si erano detti, ma adesso gli era chiaro che lo avevano fatto per timore di dover affrontare la realtà di un matrimonio arrivato al capolinea.
Decise di alzarsi e sgranchirsi le gambe. Dirigendosi verso il bagno passò vicino all’ingresso. Per un momento ebbe la tentazione di andarsene, ma non lo fece. Si guardò allo specchio e si tirò indietro i capelli facendo emergere la voglia a forma di cuore sul polso sinistro. Arrotolò con minuziosa cura i polsini della camicia perché non si bagnassero. Con le mani umide si accarezzò il volto e tornò a sedersi e ad aspettare.
Tirò fuori il cellulare e si mise a giocare con gli effetti su una fotografia de “Le rose di Atacama”. #luissepulveda #grandiscrittori #buencamino
Nonostante non avesse capito fino in fondo il senso di quegli hashtag quando sua figlia aveva provato a spiegarglielo, gli era venuta come la mania di riempire di commenti le foto di libri che pubblicava con assiduità.
“Smith? Alberto Smith?”
Si voltò verso la voce come destato da un sogno. “Sono io,” rispose.
Una giovane donna in camice bianco si era materializzata di fronte a lui.
“Non siamo riusciti ancora a rintracciare nessun parente della signora. Può farle visita per qualche minuto.”
“Grazie.”
Grazie di cosa? Di lasciarmi entrare nella stanza di ospedale di una sconosciuta?
Aprì delicatamente la porta della camera 127. L’unica luce nella stanza era quella che entrava dalle spesse veneziane appena socchiuse. Rimase per qualche secondo vicino alla porta e poi si mosse ancora esitante lasciando la porta aperta dietro di sé e si portò al lato sinistro del letto.
La donna aveva gli occhi chiusi e respirava lentamente. La osservò a lungo e si rese conto che era la prima volta che vedeva davvero il suo viso. Doveva avere più o meno la sua età, portava i corti capelli color argento tagliati con cura, i tratti e la pelle mediterranea gli ricordarono la Sicilia. Si soffermò sulle narici che si allargavano leggermente per poi ritrarsi e si ricordò di sua moglie. Nonostante fossero passati ormai più di tre anni dall’ultima volta che avevano dormito insieme, ricordò perfettamente quel movimento e le volte in cui si era fatto cullare da quel ritmo alle prime luci dell’alba.
Fu distolto da quei ricordi dal pensiero di cosa avrebbe detto se la donna si fosse svegliata in quel momento e, per quella che volle poi ricordare come una premonizione, la donna aprì gli occhi e lo fissò.
“Sei sempre stato qui?” disse la donna. La sua voce era calda e leggermente rauca.
“Sì. Cioè… non qui. Sono stato di là.. in sala d’attesa, intendo.” Balbettava e sentì il sudore che gli bagnava le tempie nonostante nella stanza non facesse caldo.
La donna sollevò una mano e si toccò la testa fasciata.
“Ho sbattuto la testa? E’ grave?”
“Non lo so. Non ho potuto parlare con i medici. Sei caduta a terra e hai perso i sensi, ma le gambe ti hanno sorretto e attutito la caduta da quello che ricordo.”
“Non mi era mai capitato di perdere i sensi. E’ come se qualcuno avesse spento l’interruttore.” La donna lo guardò con intensità, studiandone il volto. “Non ti ho nemmeno chiesto come ti chiami.”
“Alberto. Alberto Smith”
“Piacere Alberto Smith. Io sono Stefania.” disse sforzandosi di fare un bel sorriso.
Entrò un’infermiera con il carrello del pranzo.
“Adesso dovrebbe uscire,” disse in tono direttivo.
“Vorrei che restasse. Sono sola e non verrà nessuno a breve. Lo faccia rimanere ancora un pò, per favore.”
“Può rimanere finché non torno a prendere il vassoio, non di più. Dopo passerà il medico a visitarla.” Sentenziò e uscì accompagnata dal cigolio del carrello.
“Posso invitarti a pranzo?” tornò a guardarlo e a sorridere.
“Beh, non so..”
“Sto scherzando. Non offrirei questo pranzo al mio peggior nemico.”
“Mangiare di fronte ad uno sconosciuto mi procura un forte senso di disagio.” Disse tutto d’un fiato.
Stefania lo guardò stupita.
“Non lo avevo mai detto a nessuno.”
“Non c’è niente di male, dico davvero. Mi piace pensare che ci sia sempre tempo per affrontare le proprie paure.”
“Sì, piace anche a me.”
Stefania appoggiò la forchetta sul piatto e si rivolse verso Alberto come se le fosse tornata alla mente una cosa molto importante.
“Sai se l’ospedale sta cercando di contattare i miei familiari?”
Al pensiero che Stefania avesse un marito, una famiglia e degli affetti Alberto provò un moto di gelosia. Che assurdità, la conosceva appena, non poteva essere geloso.
“Ho una figlia. Si chiama Francesca. Vive a Milano e non sarà facile rintracciarla. Inoltre non vorrei spaventarla, sto bene e poi ci sei tu qui con me.”
Alberto fece un sospiro leggero e le prese una mano fra le sue.
“Mi fai assaggiare un pò di budino?”
Bello l’incipit del racconto: i dettagli richiamano percezioni sensoriali molto precise che ci fanno “vedere” il protagonista, con le sue abitudini e le sue manie. Brava!