Premio Racconti nella Rete 2020 “Sonno” di Bianca
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2020Da tre giorni la madre di Emma era immersa in un torpore denso e da tre settimane la clinica era diventata la loro casa. Dopo sei mesi di reparto oncologico al Gemelli, era quasi come essere al Grand Hotel.
In clinica, le notti sembravano non arrivare mai e quando arrivavano erano eterne. La luce lunare del neon sulla parete del letto, il lenzuolo bianco dal quale spuntava un groviglio di drenaggi, il divano color tortora. E poi il suo respiro, quel sonno freddo. Si erano date la buonanotte per l’ultima volta quattro giorni prima ed Emma già non ricordava più la sua voce.
Ogni tanto, i passi delle infermiere in corridoio la restituivano per un attimo al mondo dei vivi. Notte dopo notte, aveva misurato ogni centimetro di quella stanza, dal celeste livido del muro al linoleum azzurro del pavimento, con sfumature più chiare e altre più scure, che davano l’impressione di camminare su un mare sintetico. Il battiscopa, il comodino bianco con la bottiglietta d’acqua minerale, una riproduzione sbiadita delle ninfee di Monet sulla parete, gli infissi d’alluminio, la poltroncina da porgere al visitatore di turno.
Il giorno prima, era venuta la zia Gianna. Non era una vera zia, era un’amica d’infanzia di sua madre e forse aveva trovato divertente che lei e Jacopo da bambini la chiamassero zia. Probabilmente non era più di quell’idea. Guardava sua madre con l’occhio liquido e l’aria di chi non vede l’ora di tornare a casa di fronte alla televisione. Quando si era alzata per andarsene, Emma l’aveva seguita fuori per fumare. La zia Gianna le aveva detto che doveva essere forte, che adesso era lei a doversi occupare di suo fratello, perché così avrebbe voluto la mamma, e che l’ultima volta che avevano parlato, lei l’aveva chiamata “la sua piccola guerriera”. Emma non le aveva creduto, sua madre non usava espressioni del genere. Al massimo, di lei avrebbe detto che era una che bene o male se la sarebbe sempre cavata.
Erano stati mesi convulsi, la diagnosi, il ricovero, l’intervento, le dimissioni, il secondo ricovero. Ma Emma l’avrebbe salvata. Contro ogni evidenza clinica che condannava senza appello sua madre, la quale, con insolita docilità, si era lasciata trascinare dal suo furioso ottimismo. Tutto per finire lì, sul divanetto color tortora di una clinica anni ’70, in un sonnolento quartiere della Roma bene.
La notte era trascorsa tranquilla. Quando entrò l’infermiera per sostituire la flebo, Emma ne approfittò per scendere al bar del pianterreno. Il barista, che ormai la conosceva, le fece l’occhiolino e le mise davanti un cappuccino con tanta schiuma e una spolverata di cacao.
“Come sta la mamma?” le chiese.
“Dorme”, rispose lei legandosi i capelli con un laccetto logoro.
“E tu hai dormito?” fece lui.
“Come un angioletto”. Quando le sue labbra si distesero in un sorriso, ricordò all’improvviso di avere una faccia.
Al suo ritorno, trovò nella stanza il medico e l’infermiera del turno di mattina. Lui le chiese il consenso ad aumentare la sedazione. Aggiunse che stava per salire il radiologo per l’ultima lastra. È la prassi per i pazienti terminali, spiegò. L’ultima lastra. Esistono tanti modi per capire che è arrivata la fine. A lei toccò quello. Acconsentì e uscì in corridoio. Dopo qualche minuto, l’infermiera la raggiunse e le disse di chiamarla, qualora avesse notato cambiamenti nel ritmo del respiro. Fece qualche telefonata e per tutto il giorno la processione di amici fu continua: abbracci, mani calde, occhi lucidi, voci velate. Ognuno di loro aveva un bellissimo ricordo legato a lei, che era ansioso di condividere.
Era scesa la sera, ma il sole era ancora alto. Emma era sola. Si sedette sul bordo del letto. Era il suo turno di salutarla, di dirle che le voleva bene, di rievocare un bellissimo ricordo da conservare per sempre. Ma la voce uscì dura e affilata. “Sai cosa ricorderò io di te tra cinque, dieci, vent’anni?”, le sussurrò, vicinissima al suo orecchio. “Che quando portavo a casa un brutto voto, non mi parlavi per giorni. Che se ingrassavo di un chilo mi dicevi ‘ti stai facendo brutta, quand’eri piccola eri così carina.’ Che quando tirai uno schiaffo a Jacopo perché aveva usato la mia ricerca sull’Africa, settimane di lavoro, per fare i coriandoli, mi dicesti che non mi dovevo azzardare, perché Jacopo era malato e io ormai ero grande e dovevo capirlo. Avevo undici anni. Se piangevo, mi dicevi di smetterla, perché dovevo essere forte. Penserò a te ogni volta che fallirò, ogni volta che mi lasceranno sola e crederò di essermelo meritato. Perché io sono una che se la cava sempre, ma che non vince mai.”
Rimase per un po’ china su di lei, in silenzio, attenta a ogni minima variazione del suo respiro, come le aveva detto l’infermiera, indecisa se temere o sperare che quel rantolo cessasse. Poi si abbandonò sulla poltrona. Era tardi, ma il sole di giugno non voleva saperne di tramontare. Entrò Angela, l’infermiera più anziana, la sua preferita. Si avvicinò e diede un colpetto sul tubo della flebo.
“Guarda”, disse a un tratto, “sta lacrimando.”
Emma si alzò e si avvicinò cautamente al letto.
Angela le sorrise. “Certe volte succede,” disse. “È un riflesso.”
Prese un kleenex sul comodino e le deterse con delicatezza le ciglia. Poi si voltò e disse: “Tu non piangi mai. Sei forte. Devi aver preso da lei.” Uscendo, le sfiorò una spalla. “Chiamami, se hai bisogno.”
Emma allungò la mano e toccò quel viso umido. In vita sua l’aveva vista piangere solo una volta, vent’anni prima, quando diagnosticarono l’autismo a Jacopo. Un riflesso.
Tornò a sedere, sfinita. Si mise a fissare il linoleum, con le sue venature marine. Pensò all’ultima volta che avevano nuotato insieme, l’anno prima. Era una sera luminosa di fine luglio, sulla riva non c’era più nessuno e l’odore di salsedine si mischiava a quello di cucina del vicino ristorante. Erano felici, quasi incredule, in mezzo a tutto quel mare, solo per loro. Emma si era voltata verso di lei e sua madre le aveva sorriso. Poi aveva cominciato a nuotare verso il largo, scivolando sull’acqua come spinta da un banco invisibile di pesci velocissimi. Emma l’aveva seguita e, mentre nuotava nella sua scia, aveva pensato che sarebbe stato bello non fermarsi più.
Si affacciò alla finestra aperta. Il quartiere era silenzioso, il caldo evaporato sfumava i contorni dei palazzi. Si erano accesi i lampioni e da qualche casa vicina arrivava la sigla del telegiornale. Emma accostò la finestra e tirò la tenda. Si rannicchiò sul piccolo divano, le orecchie tese al minimo rumore, come quelle di un gatto.
Dal fondo del corridoio, si sentiva tintinnare il carrello della cena che si avvicinava lentamente. Sfilò davanti alla porta e passò oltre. Tra poco, Angela sarebbe tornata per cambiare la flebo.
Sarà che ho perso la mia mamma 4 anni fa e il suo anniversario era proprio ieri… Ma il tuo racconto mi ha fatto da davvero commuovere e ha portato a galla molti ricordi. Brava..
Grazie Gemma. Sono contenta di averti dato un’emozione.