Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2020 “La solitudine del leone bianco” di Francesca Serantoni (sezione racconti per bambini)

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2020

Aprii gli occhi di scatto. Il mio corpo pesante, improvvisamente, riprese il controllo dei sensi e la mia mente cominciò gradualmente a schiarirsi.
Non ricordavo di essermi addormentato, anzi non ricordavo nulla, nemmeno chi o cosa fossi.
Quando cercai di muovermi dalla posizione fetale in cui mi trovavo mi resi conto di avere quattro grosse zampe artigliate dal pelo di un bianco argenteo ed una coda fluente dello stesso colore.
Tutto mi pareva così estraneo, che i miei primi movimenti, assomigliarono a quelli di un cucciolo appena uscito dalla pancia della madre.
Sostanzialmente la differenza era che io ero grosso e ingombrante. Ma soprattutto solo.
Non c’era nessuno a rassicurarmi, nessuno che potesse spiegarmi il perché mi trovassi lì.
Mi guardai attorno. Ero circondato da petrose mura umide sulle quali erano incisi degli strani simboli color rosso sangue.
Ero separato da un corridoio buio da spesse sbarre che iniziai a colpire senza però ottenere i risultati sperati.
Non avevo una chiara idea di che cosa io volessi in quel momento, ma una cosa era certa: dovevo assolutamente fuggire da quella squallida stanzetta gelida e maleodorante.
Il rumore delle sbarre, colpite dalla mia zampa, aveva graffiato prepotentemente le mie orecchie.
Non ricordavo altri suoni, se non quello udito poco prima: il fruscio che avevo provocato nel tentativo di alzarmi.
Le mie orecchie sembravano non aver mai sentito nient’altro.
Mi rassegnai all’idea di rimanere chiuso in quel luogo, almeno per il momento, quando uno scricchiolio mi fece sobbalzare.
-Finalmente ti sei svegliato. Eccoti qui! – esclamò una vocetta roca mantenendo lungo il suono sulla “u”.
Capivo ciò che mi diceva, quindi, anche io sapevo parlare. Oppure no?
Com’era la mia voce? Non ricordavo nemmeno quella, se mai c’era stata.
Gracchiai qualcosa nel tentativo di farla uscire. Mi concentrai però troppo su come farlo anziché su cosa dire, quindi alla fine, ne uscì solo un mormorio confuso.
Ci riprovai.
-Io… non ricordo… – riuscii a dire.
Finalmente avevo sentito la mia voce che, nonostante il tremolio, suonava calda. Quasi ardeva.
Rivolsi lo sguardo alla creatura appena emersa dall’oscurità e capii che aveva ben compreso in che stato mi trovassi.
Gli enormi occhi dorati, nei quali era sprofondato il mio sguardo, appartenevano ad un grosso gufo dalle piume bianche e candide come la neve appena caduta. La punta delle sue penne sembrava essere stata inzuppata in un calamaio.
Le sue grandi ali si distesero e con uno strano movimento rotatorio sembrarono frantumare l’aria.
Un gran frastuono, provocato dalle pietre che cadevano, riecheggiò in tutto quel luogo ed all’improvviso la luce sostituì l’oscurità. Quel chiarore era così intenso da non riuscire a tenere gli occhi aperti.
Non potevo vedere niente ma sentivo l’aria fresca che muoveva il mio pelo facendomi il solletico. Aveva aperto un varco nel muro alle mie spalle, che capii dare sull’esterno.
Non avevo la più pallida idea di come avesse fatto!
-Veloce! Veloce! – sentii gridare il gufo da sopra di me.
Quando tentai di iniziare a correre, improvvisamente, qualcosa sembrò tirarmi giù.

Una forza devastante mi aveva appena trascinato in un abisso di oscurità.
Dal vuoto più totale, nero come la pece, emerse una scintilla rossa che mi colpì trascinandosi su tutto il mio corpo. Scottava terribilmente e mentre si muoveva sotto al mio pelo mi incideva dei simboli dello stesso colore della scintilla.
Tante voci si sovrapposero, invadendo la mia mente, finché la luce non tornò ai miei occhi sbarrati dal terrore.

Avevo avuto una visione.
Solo dopo di essa mi accorsi che il mio pelo non era del tutto bianco. Delle voluminose linee rosse si arricciolavano dalla punta della coda fin sotto all’occhio sinistro.
Non potevo certo vedermi il muso ma lo sapevo benissimo. Bruciavano ancora sulla mia pelle.
I miei occhi nel frattempo si erano abituati alla luce del sole e finalmente potevo vedere ciò mi circondava.
Davanti a me si srotolava, fino ad una foresta di conifere, un viale petroso contornato dall’erba.
Non feci però in tempo ad abituarmi alla scena, poiché uno scalpiccio di zoccoli minaccioso iniziò a farsi sempre più forte.
Localizzata la posizione del gufo, iniziai a corrergli dietro fino a che non raggiungemmo una grossa pietra coperta dal muschio.
-Nascondiamoci qui dietro, presto! – sussurrò tutto agitato.
Le sue penne si erano drizzate dalla tensione in modo inguardabile.
Ci accovacciammo in fretta dietro al masso appena in tempo per non essere scoperti.
Quando la mia coda sfiorò il muschio, un brivido mi percorse la schiena e, in quel momento, un’altra visione si manifestò alla mia mente.

Degli uomini incappucciati, avvolti in lunghe tonache bianche, mi stavano trascinando per la criniera. Sentivo alcuni ciuffi strapparsi ed i miei occhi riempirsi di lacrime di dolore quando accadeva.
Ogni ciocca che finiva sull’erba era come un pezzo di me che mi abbandonava.
Vidi una scena sfocata svanire.

Tornai alla realtà, dietro la roccia fra i cespugli, insieme a quel buffo gufo dalle penne tutte arruffate dalla paura.
In silenzio osservai la strada.
Due cavalli, di un nero lucidissimo, galoppavano a gran velocità mostrando la tonaca muscolatura e le gambe lunghe e slanciate.
Erano cavalcati dagli stessi uomini incappucciati di bianco che avevo visto poco prima.
-Sono stati loro! Loro mi hanno fatto…- mi affrettai a dire appena furono lontani da noi.
-Dimenticare. Dimenticare tutto! – esclamò il gufo interrompendomi.
-Perché? – chiesi con un filo di voce.
-Perché le leggi sono assurde, dettate da loro! – ribatté energico lui.
-Ma cosa avrei fatto di così sbagliato per loro? –
-Hai amato un animale diverso dalla tua specie. – disse con tono triste e sentenzioso.
Mi sentivo davvero tanto confuso.
-Mi ha mandato tuo fratello, devo portarti da lui e da chi ami. –
Quando sentii la parola fratello ebbi un brivido che mi portò alla mente l’immagine di due leoncini, uno bianco e uno dorato che giocavano insieme.
-Non devi stare con lui! Non vedi che è diverso da tutti? Attaccheranno anche te altrimenti! – mentre la voce si dissolveva il cucciolo dorato spariva all’orizzonte portato via da una leonessa.
-Attraversata la foresta, ritroverai Rackal che ti ricorderà cosa è successo. – mi rassicurò dopo aver visto il mio sguardo perso.
Lanciai un’ultima occhiata nella direzione del luogo in cui ero stato prigioniero.
Un castello di pietra si ergeva con i suoi merletti nel verde scuro degli abeti. Sulle torri erano issati degli stendardi bianchi.
-Oh! giusto, tu non ricordi il mio nome. Sono Bodach Oidche. –
-Piacere, io … – farfugliai qualcosa rendendomi conto che il mio nome non lo ricordavo.
Si alzò in volo bubolando.
-Tu ti chiami AstraLlew che significa leone astrale! –
Chinai la testa da un lato.
-Ma… –
Non riuscii a chiedere nient’altro. Mi aveva interrotto volandomi pericolosamente sopra la testa solleticandomi il naso con le penne della coda.
-Adesso andiamo, su! – esclamò vivace prolungando il suono sulla “u” più del solito.
Ci tuffammo così tra le conifere e, zigzagando fra gli alberi, camminammo per molte ore.
Gli aghi secchi sul terreno si spezzavano sotto le mie zampe scricchiolando piacevolmente.
La nostra marcia procedette silenziosa fino a che il cielo non si fece di un rosso acceso.
-Non era azzurro poco fa? – chiesi frastornato.
-Quello che vedi non rimane sempre uguale, cambia di continuo. Questo si chiama tramonto ed è il momento di passaggio fra la notte e il giorno, tra poco lo vedrai cambiare ancora –
-Quindi è un momento di passaggio come noi che stiamo camminando? – chiesi affascinato.
-Sì, in un certo senso – rispose lui mentre planava a terra – adesso ti faccio vedere, fermiamoci qui per passare la notte. –
Impaziente, mi sdraiai con la pancia e il muso rivolti all’insù, aspettando quel momento a cui si riferiva Bodach.
Il cielo lentamente virò al viola, poi dall’indaco al blu scuro.
Era punteggiato dalle stelle e illuminato dal solo bagliore della luna pallida e tonda che primeggiava sulle cime appuntite.
Nel frattempo, gli animali non erano più gli stessi. Il canto degli uccelli aveva lasciato il posto a quello dei grilli e dei rapaci notturni come Bodach.
-Tu sì che sei fortunato! Puoi arrivarci lassù, vero? – chiesi sognante al gufo mentre immaginavo di raggiungere quella pallina luminosa.
-Non proprio. Tutto cambia e non è come sembra, AstraLlew, tienilo bene a mente…–
Mi addormentai cullato dal bubolare di Bodach che vegliava su di me con occhi gialli e brillanti come tizzoni ardenti nella notte.
Quando mi svegliai il cielo era di nuovo cambiato.
A differenza del giorno prima il sole era pallido, velato da sottili nuvole grigie, che parevano gonfiarsi di più ad ogni sguardo.
Ripensai a ciò che era avvenuto il giorno prima e, una volta ricordato il varco aperto da Bodach che tanto mi aveva sorpreso, esordii con una domanda rivolta al mio nuovo amico piumato.
-Continuo a non capire come tu ieri abbia potuto aprire quello squarcio nel muro… sei così piccolo! È una di quelle cose che sono diverse da come sembrano? –
-È una lunga storia. – disse Bodach rabbuiandosi.
Ricominciammo a camminare fra gli abeti quando un forte vento iniziò a fischiare fra i rami e a piegare quei fusti sottili che scricchiolavano.
Nel frattempo, Bodach iniziò a raccontarmi che un giorno lontano anche lui era stato catturato dagli incappucciati.
Da loro, dopo averli osservati a lungo, aveva imparato alcuni trucchetti magici; in seguito era riuscito a fuggire con lo stesso incantesimo che gli avevo visto usare il giorno prima.
Non molto tempo dopo sentii una grossa goccia d’acqua fredda cadermi sul naso.
Poi, una sulla coda, sulla schiena, sull’orecchio, sulla criniera, sul muso vicino all’occhio. Stavano precipitando dappertutto.
La terra si inumidì liberando un forte profumo che aggrediva le narici ma allo stesso tempo le coccolava. Ero infreddolito ma eccitato da quell’atmosfera.
-Che cos’è quest’odore, Bodach? – chiesi euforico balzando da un albero all’altro.
-Questo è l’odore della pioggia sulla terra asciutta. Ha un nome particolare che non tutti conoscono– disse lui con tono saccente e una punta di misteriosità.
-E quale, Bodach? –
Stavo morendo letteralmente dalla curiosità e lui se ne era accorto, esitò dunque un po’ prima di rivelarmi quella strana parola.
Poi ad un tratto annunciò, scandendo bene le lettere, “Petricore”.
-Significa pietra e linfa degli dèi. – aggiunse con le piume gonfie per la soddisfazione.
Mi feci sfuggire un “ooh” di meraviglia e un grosso sorrisone.
Continuammo la nostra marcia per così tanto tempo che, sia quegli alberi magri e appuntiti che la pioggia, ci abbandonarono lasciando posto ad un altro tipo di vegetazione.
C’erano prevalentemente cespugli con piccoli frutticini tondi viola e rossi, mentre, gli alberi erano più bassi e con la chioma tondeggiante.
Dunque, capii che durante la giornata la luce nel cielo cambiava spesso e che poteva esserci la pioggia, il freddo e il vento oppure il sole con il suo tepore.
Come se non bastasse anche camminando tutto ciò che ci circonda si trasforma assumendo tutt’altro aspetto.
Ero immerso in queste riflessioni quando io e Bodach ci imbattemmo in una radura.
Una distesa erbosa che ospitava una grossa macchia azzurra in cui si specchiava il cielo e dove vi si abbeverava un maestoso cervo.
Bodach scese a terra mentre lui alzava il capo dall’acqua del laghetto.
-Siamo dei viaggiatori e vogliamo solo abbeverarci. Lui è grosso ma non è pericoloso. – disse il gufo indicandomi con l’ala.
Io nel frattempo osservavo affascinato quelle corna arricciolate che parevano i rami di un nodoso albero.
-Siete i benvenuti – disse con voce profonda e concisa.
Ci avvicinammo per bere quell’acqua fresca per poi riprendere la nostra marcia.
Quando fummo abbastanza lontani Bodach mi disse che lui era il re di quella foresta e che era uno dei pochi animali che lottava contro gli uomini incappucciati di bianco.
Il cammino proseguì a lungo e di nuovo lo scenario intorno a noi stava cambiando.
L’erba si faceva più alta, pungente e di un colore giallo paglierino mentre gli alberi diminuivano di numero considerevolmente.
Ad un certo punto, ci trovammo davanti ad un’alta roccia appuntita che celava in sé, alla sua base, una cavità buia.
Seguii Bodach all’interno, dove il caldo si faceva sentire meno, fino a che non vidi nella penombra le acque scure di un laghetto sotterraneo.
Mi sembrarono invitanti come antilopi o gazzelle… e solo dopo mi resi conto che iniziavo ad essere davvero affamato e le similitudini che la mia mente trovava erano sempre meno poetiche.
Avevo scoperto di cosa io mi nutrissi, poco prima, grazie a Bodach.
In realtà ero rimasto abbastanza perplesso nel sapere che mangiavo altri animali ma mi venne rivelato che non ero un gran cacciatore e la carne di cui mi nutrivo era per lo più di carogne.
Potevo quindi pensare battute del genere senza sentirmi in colpa dato che ciò che mangiavo era già morto!
Quando ci avvicinammo alle acque del lago da una delle tante gallerie, all’improvviso, vedemmo spuntare qualcosa.
Non ebbi il tempo di guardare meglio perché con un balzo la misteriosa figura mi piombò addosso facendomi cadere rovinosamente sotto al suo peso.
Il mio cuore nel frattempo aveva iniziato a battere all’impazzata, il mio corpo si era irrigidito e aveva assunto istintivamente una posizione di difesa, gli occhi si erano chiusi.
Sentivo il suo respiro caldo sul muso e le sue zampe sul petto che mi bloccavano, poi, mi sentii leccare sul naso e sulle orecchie.
Aprii gli occhi cautamente e mi trovai riflesso in quelli di un grosso leone dorato che mi guardava affettuosamente.
Era Rackal, mio fratello!
Nonostante non potessi ricordare, era come se l’ultima brace di un grande fuoco fosse ancora accesa ma sepolta nella cenere.
Dopo aver strusciato il suo muso contro il mio, si ricompose nella sua maestosità, lasciando così che anche io mi rialzassi.
-So che non ti ricordi Llew – disse con un velo di tristezza nel tono, poi, aggiunse solennemente -Io sono tuo fratello. –
-Noi siamo la tua famiglia! Io, Rackal e Altea. – gracchiò frettolosamente Bodach intromettendosi.
Il maestoso leone dorato gli tirò un’occhiata severa.
-Piano Bodach. È già abbastanza confuso, adesso lasciami parlare. – lo ammonì mentre si sedeva sulle pietre.
-Nostra madre ci impedì di stare insieme a causa del tuo pelo.
Come hai potuto vedere qui la natura ha il mio stesso colore, come della maggior parte dei leoni.
Ciò è fondamentale per cacciare e non essere visti.
Un leone bianco incontra varie difficoltà perché non può mimetizzarsi e quindi predatori e prede lo individuano subito.
Il nostro branco già in origine era poco numeroso e quindi in difficoltà, poi, in seguito ad una lotta nostro padre perse la vita con altre due leonesse.
Così eravamo rimasti solo in cinque compresa nostra madre e noi due, piccoli cuccioli, ancora incapaci di cacciare.
Dopo giorni di accese discussioni la decisione venne presa e tu venisti lasciato qui, in questa grotta. –
Rimasi in silenzio, con quel piccolo pezzo del mio passato che pareva ferirmi più di tutti gli altri che finora avevo raccolto.
-Ma io, come puoi ben vedere, non ti ho mai abbandonato. – continuò lui – Ogni giorno di nascosto venivo da te per controllare che tu stessi bene.
Avendo il pelo bianco eri già svantaggiato in partenza, in più non ti era stato insegnato come cacciare, cosa alquanto crudele nei tuoi confronti. Così sul tragitto, catturavo piccole prede vive, e simulavo una piccola battuta di caccia, nella grotta, in modo da renderti più autonomo. Fortunatamente imparasti appena in tempo, prima che, mi scoprissero e trascinassero via da te. –
La luce che entrava dall’apertura della tana ebbe come un sussulto, e illuminò una figura che prima non avevo notato, proiettando sul muro l’ombra di una snella creatura dalla coda arricciolata e sottile.
Questo mutamento di luminosità, unito ad un fruscio, attirò la mia attenzione e portò il mio sguardo in quella direzione.
Una tigre dalla coda arancione, arricciolata e avviluppata da strisce nere, si stava avvicinando verso di noi. I suoi occhi, uno marrone e l’altro verde, mi lanciarono un’occhiata particolarmente furbetta mentre mi passava vicino per sedersi accanto a me. Per un attimo il respiro mi si sospese quando mi sfiorò.
-E adesso entro in scena io! – disse con voce suadente la nuova arrivata.
-Quando tuo fratello non poté più vederti, iniziasti ad uscire dalla tana con l’intento di trovarlo e procurarti da mangiare. Il branco però si era spostato lontano e, alla fine, decidesti di dirigerti da tutt’altra parte. Raggiungesti, dopo un lungo cammino, una foresta nella quale ti perdesti. Lì ti trovai io. –
Per un attimo il mio cuore si fermò. L’ultimo tizzone accesso sembrò divampare tutto d’un tratto.
Nonostante io non potessi ricordare niente di ciò che mi veniva raccontato, sentivo alcune sensazioni riaffiorare.
Sembra proprio che ciò che siamo sia determinato da coloro che ci amano e che amiamo, senza di loro, io, non avrei mai potuto ritrovare il mio passato.
E senza il mio passato chi sarei stato? Le esperienze ci plasmano, le persone che conosciamo ci cambiano proprio come muta tutto ciò che abbiamo intorno con il passare del tempo e con lo spostamento nello spazio.
Passammo la nottata insieme in quella grotta dove mi furono raccontate diverse vicende che tentavo di ricondurre a me stesso.
Una di queste, oltre a descrivermi il luogo in cui vivevo, raccontava anche il mio primo incontro con Bodach.
Dopo che Altea mi trovò mi fermai con lei nella giungla, un luogo dove i colori sono già di per sé sgargianti e quindi dove il mio pelo non aveva più importanza. Anzi, lì c’erano degli uccelli dalle piume così sgargianti da destare meraviglia immensa.
Un giorno io e Altea decidemmo di fare una lunga passeggiata gareggiando a chi avrebbe avvistato più pappagalli.
Iniziammo così il nostro lungo percorso quando per un attimo ci perdemmo di vista l’un l’altra.
Io mi ero distratto per guardare nella direzione di un fruscio che avevo sentito, quando, Altea era rimasta indietro per tentare di afferrare con i denti un piccolo frutto colorato da mostrarmi.
Avevamo preso direzioni opposte convinti di un reciproco scherzetto.
Quando capimmo di esserci persi erano ormai passate due ore e le nostre strade erano lontane.
Iniziammo a cercarci a vicenda tentando, con scarso successo, di tornare indietro al punto di partenza. Non ci riuscì nessuno dei due.
Fortunatamente però, un incontro, ci risparmiò tante ore di fatica arricchendoci anche di un nuovo amico.
Altea si era imbattuta in un buffo gufo che, proprio in quel momento, stava balzando frenetico da un ramo all’altro tutto innervosito perché gli era appena cascata dagli artigli una piccola preda.
-Sto diventando vecchio per queste cose! – continuava a ripetere con le piume alzate.
La tigre decise, con il tentativo di divertirlo, di raccontargli la buffa e fastidiosa situazione in cui si era trovata.
Il gufo scoppiò in una fragorosa risata, sorpreso di quanto quei due fossero fra le nuvole più di lui che poteva volare.
Alla fine, decise di aiutarli cercando di individuare il leone e raccomandandosi alla tigre di rimanere ferma esattamente nel punto in cui l’aveva lasciata.
Trovato l’unico leone bianco della giungla, il gufo, soddisfatto della sua impresa mi comunicò di seguirlo fino alla mia compagna a strisce.
Questo fu solo uno dei tanti racconti che quella notte io udii prima di addormentarmi profondamente e che mi fecero avere l’impressione di “essere tornato”.

Il mattino seguente a mente lucida decidemmo cosa dovesse essere fatto da quel momento in poi.
Dovevamo convincere gli animali che il colore del pelo non deve essere occasione di discriminazione ma che, anzi se esso porta svantaggi, chi è a rischio va difeso a spada tratta.
Dovevamo poi, combattere per l’amore perché esso è giusto sempre.
Gli incappucciati di bianco mantenevano il loro potere grazie al terrore che incutevano su tutti gli animali, facendo in modo da incoraggiare certi tipi di discriminazioni che li facevano avere paura l’uno dell’altro.
Si dividevano in squadroni ed andavano a chiedere di svelare loro sospettate coppie fra animali di specie diversa.
Perché? Perché ciò avrebbe portato al soccombere del loro potere che trovava le basi nell’attribuzione di caratteristiche negative ad ogni specie e sul tentare di fermare ogni tipo di amore che testimoniasse la caduta di tali falsi stereotipi.
Dovevamo dunque, per combattere questa battaglia, fare in modo che chiunque fosse in grado di amare si unisse a noi.
Partimmo con l’idea di far riflettere quello che era stato il mio branco e poi tutte le altre creature.

Decidemmo di dirigerci guidati da Rackal alla rupe dove la mia famiglia risiedeva.
-Il maleficio doveva far sì che il vostro amore perisse, guarda come ha funzionato! – esclamò con chiara ironia Bodach indicando me e Altea che ci guardavamo teneramente.
-L’amore è una forza incontrastabile che niente e nessuno, nemmeno la magia può cambiare. – aggiunse solenne mentre il cammino proseguiva.
Superammo lunghi tratti di pungente e alta erba gialla, mentre Bodach in certi momenti ci faceva ridere fino al mal di pancia dato che non riusciva, nel più delle volte, a tenere il becco chiuso.
La silenziosa Altea, invece, quando parlava utilizzava sempre parole acute e pungenti e le sue risposte erano sempre pronte.
Il più serio era mio fratello che non aveva bisogno nemmeno di quelle poche parole, lui con uno sguardo poteva dire tutto ciò che gli passava per la mente.
Il mio umore fu tranquillo fino a che non giunsi dinanzi a quella grossa roccia sulla quale, una volta salito, avrei conosciuto mia madre.
Iniziai a provare la stessa sensazione di quando avevo creduto di essere sotto attacco nella grotta. Sentivo il corpo rigido e il respiro che si faceva sempre più affannato.
Il leone dorato si avvicinò a me e strusciò la testa contro la mia spalla sussurrandomi “coraggio, sono qui con te”.
Salimmo tutti e quattro su quella roccia svegliando i leoni che vi riposavano.
Alcuni quando ci videro mostrarono i denti, mentre due di loro si avvicinarono a Rackal.
Erano due leonesse: una la nostra madre naturale, l’altra invece, aveva cresciuto Rackal con lei.
A prima vista strofinarono entrambe il loro muso con quello di mio fratello senza accorgersi della mia presenza né tantomeno di quella di Altea e Bodach.
Quando finalmente si resero conto che il piccolo leoncino bianco che avevano abbandonato ero io, sobbalzarono, per poi indietreggiare.
-Siamo qui perché dobbiamo porre fine a queste ingiustizie. Lui ha sofferto abbastanza. Ormai ciò che importa è quello che accadrà da qui in seguito. –
-Esatto, non possiamo permettere che succeda più a nessuno. – aggiunse Altea.
Dopo aver visto in mia madre uno sguardo mortificato e pieno di dolore, mi sentii di parlarle.
-Non porto rancore, so che questa fu una decisione difficile. Questo non significa che dimenticheremo quello che è successo, ma servirà perché non si ripeta niente di simile. Ora dobbiamo prendere parte ad una battaglia più grande. –
Mia mamma comunque non riusciva a guardarmi negli occhi, i suoi si erano gonfiati di lacrime mentre io sentivo una sensazione paralizzante che non mi permetteva di avvicinarmi.
-Siamo dei vostri – disse a nome di tutti l’altra leonessa, dando voce a nostra madre che non riusciva a tirar fuori una parola.
Alla fine, ebbi il coraggio di toccarle la zampa con la mia. Lei scoppiò a piangere.
Intanto l’altra leonessa andò a parlare ai componenti del branco che si erano aggiunti oltre ai nostri due fratelli.
-Fra due giorni troviamoci davanti al vecchio castello nella foresta di conifere! – esordimmo in coro tutti e quattro in conclusione.
Adesso dovevamo fare in fretta ed andare a parlare con ogni animale che incontravamo sperando che ognuno di essi facesse altrettanto.
Il primo sul nostro cammino fu un uccellino dal piumaggio del petto color rosso-arancione e quello del capo e del dorso azzurro.
Era nascosto fra le foglie di un cespuglio, appollaiato su un rametto, in prossimità di un lago quando lo raggiungemmo.
Gli spiegammo tutto per filo e per segno e lui ascoltò con attenzione prima di esordire con:
-Avete la mia disponibilità! Parlerò a tutti gli uccelli e li avrete dalla vostra parte, parola di Martin! –
Ci sentimmo rassicurati dalle sue parole e, data la facilità con cui avevamo ottenuto ciò che volevamo, ci illudemmo che anche gli altri animali si sarebbero comportati come lui.
Tuttavia, ci sbagliavamo di grosso.
Poco più tardi, infatti, incontrammo un grosso rinoceronte che quando ci vide ci ignorò completamente.
Quando tentammo di avvicinarci a lui venimmo allontanati con violenza.
-Non voglio guai. Via! – grugnì contro di noi in modo così minaccioso che il terreno sembrò tremare.
Pensammo che, da un momento all’altro, ci avrebbe assaliti sopraffacendoci.
-Ci mancava un leone bianco piantagrane a rovinarmi la giornata! – aggiunse con rabbia prima di voltarsi e tornare al suo spuntino, tuttavia mostrando un grande fastidio.
-Ma io … non ho mai fatto del male a nessuno! – cercai di dire.
-Piantagrane e anche bugiardo –
Mio fratello a questa frase, detta con disprezzo dal rinoceronte, ruggì spaventosamente e subito dopo accecato dalla rabbia, tentò di gettarsi contro di lui.
Prontamente mi frapposi fra i due per fermarli appena in tempo.
-Fratello no! Non è con la violenza o la rabbia che otterremo ciò che vogliamo. Lasciamo che rifletta –
Mio fratello era un tipo calmo e pacato ma quando si trattava di me diventava spaventosamente impulsivo e iracondo. Mi aveva già perso una volta per colpa di chi aveva intorno. Si era promesso che non avrebbe mai più tollerato che accadesse di nuovo.
Il rinoceronte si era spaventato, ma allo stesso tempo era rimasto sorpreso dalle mie parole.
Tentò di guardarmi meglio strizzando gli occhi, poi, con finto disinteresse mi chiese – e cos’è che vorreste? –
-Non vogliamo che il colore del pelo sia fonte di discriminazioni, e vogliamo che ognuno possa essere libero di amare chi vuole – risposi pacato.
-Intendi amare qualcuno di specie diversa? – chiese con tono inorridito mostrando però, adesso, tutto l’interesse che prima aveva tentato di dissimulare.
-Perché quel tono? Cosa ci trovi di sbagliato? – aggiunse pungente come al solito Altea.
-È contro natura! – gridò lui.
-L’amore è la natura stessa, la natura non si pone alcun problema. Sono gli incappucciati che stanno spargendo questo tipo di convinzioni fra di noi, e sai perché lo fanno? –
-Perché? –
-Perché vogliono dividerci. Gli incappucciati sanno bene che insieme siamo più forti di loro. Se invece abbiamo paura o ci disprezziamo l’uno l’altro, allora è più semplice tenerci in pugno. –
Il mondo del rinoceronte era stato appena ampliato oltre il suo corno e, probabilmente, la cosa lo sconvolse tanto da farlo chiudere in sé stesso.
In preda ad un attacco d’ira ci fece fuggire facendoci rassegnare all’idea di non averlo dalla nostra parte.
Anche qui, ci sbagliavamo, aveva solo bisogno di tempo per riflettere.
La nostra marcia proseguì ancora, anche se, con un po’ di sconsolatezza che iniziava a serpeggiare fra di noi.
Ci stavamo avvicinando alla famigerata foresta di conifere. Adesso potevamo vederla da lontano coperta da un grosso fungo grigio. Un nuvolone gonfio di pioggia stava per abbattersi sulle cime appuntite e sottili degli abeti.
L’aria in quel momento era davvero gelida.
Ad un certo punto un lieve rumore catturò la nostra attenzione portandoci tutti a guardare verso un cespuglio.
Un coniglietto stava alzato con le zampette anteriori tirate in su, il nasino rosa tremante traluceva umido rilasciando un sottile vapore quasi impercettibile.
Era rimasto paralizzato dalla paura nel vedere due grossi predatori come noi ed un rapace che ci volava sopra la testa.
Doveva essere un terribile incubo per lui!
Mi preoccupai subito di non muovere un muscolo e di rimanere il più immobile possibile.
Con cautela dissi:
-Piccolo non hai niente da temere, non vogliamo farti del male né a te né a chiunque altro. –
Il coniglio rimase in silenzio con le pupille dilatate dalla paura ancora rivolte verso di noi.
-Ci allontaniamo, tranquillo, vogliamo solo che gli animali possano agire uniti non più sopraffatti dalla paura – disse mio fratello indietreggiando.
Io aggiunsi – domani, saremo al castello di pietra tutti insieme e faremo vedere agli incappucciati che il loro potere non avrà più effetto da ora in poi –
Il coniglio annuì iniziando a tremare in modo meno visibile.
-Non tenderete un agguato a noi più piccoli, vero? – chiese titubante.
-Certo che no! – disse Rackal.
Poi ridendo aggiunse – questo leone bianco qui – mi indicò con la zampa – vedi quanto è magro? –
-Oh sì, lo vedo signore – rispose.
-Lui non caccia, dunque non mangia! –
Il coniglio abbozzò un sorrisetto, poi gli occhi gli brillarono.
-Va bene, va bene saremo tutti lì, con gli scoiattoli, i ghiri, i ricci! Ci saremo tutti contro quei prepotenti! – esclamò prima di correre via.

Perché non fu difficile convincere quel coniglietto? Perché gli incappucciati di bianco, non avendo paura di animali di così ridotta taglia, si mostravano per quello che erano. Crudeli e violenti.
Gli animali più grandi si facevano la guerra fra di loro, il potere degli incappucciati, stava nel semplice spargere parole maligne.
Con i più piccoli invece usavano direttamente la loro cattiveria, li uccidevano e ferivano, esclusivamente per sentirsi forti.
Dunque, non era difficile capire quanto il desiderio di giustizia aleggiasse fra di loro.

Camminammo fino a sera fino ad addentrarci nella foresta.
Raggiungemmo quella stessa radura in cui, io e Bodach, avevamo dormito insieme per la prima volta e ci fermammo lì di nuovo per la notte.
Quante cose erano cambiate nel giro di così poco tempo, pensavo mentre guardavo quello stesso cielo che, anche in questo caso, non era più lo stesso. Adesso lo stavo osservando con occhi completamente diversi, anche io ero cambiato.
Avevo visto così tanti luoghi, incontrato tanti personaggi e provato sensazioni diverse che continuavano a farsi sentire dentro di me.
-Tutto si trasforma, sempre. – sussurrai a Bodach accanto a me.
In quel momento mi sembrò di poter respirare la terra, l’erba, gli insetti, gli alberi, l’acqua, le stelle, e il cielo.
Intorno a me i grilli mi facevano pensare a quanto tutto quello che mi circondasse fosse essenzialmente vita. Una vita liquida come l’acqua.

Il giorno seguente, mentre ci dirigevamo verso il castello, ci trovammo a camminare insieme ai piccoli animali che si erano uniti a noi grazie al passa-parola avviato dal coniglio.
Il castello apparve in alto. Mancava poco a raggiungerlo.
Gli abeti continuavano a circondarci con il loro odore intenso che ci dava forza, andavamo sempre più veloci così come sempre più numerosi diventavamo.
Come un’onda che piccola all’orizzonte si fa sempre più grande ci stavamo riversando contro la riva; le mura del castello.
Intanto era arrivato il mio branco accompagnato da tantissimi altri animali: zebre, leopardi, ippopotami, elefanti, gazzelle, iene, facoceri e bufali. La terra tremava.
Anche il rinoceronte che ci aveva fatto fuggire era lì con i suoi piccoli.
Quando giungemmo alle porte del maniero il cielo si oscurò spaventosamente all’improvviso.
Le nuvole grigie erano completamente coperte da una quantità impressionante di volatili.
Il maestoso cervo che avevamo visto io e Bodach era spuntato dalla foresta e si stava dirigendo nella nostra direzione. Con lui c’erano orsi, linci, volpi, lupi, e tantissimi altri animali.
Una volta circondato e assediato il castello, anche dall’alto, iniziammo tutti insieme a gridare e a battere le zampe rumorosamente sul terreno, a ritmo.

Gli incappucciati uscirono infuriati e per tenerci lontani iniziarono a lanciare incantesimi, rapidi e fitti come frecce, dalle torri da cui erano appena spuntati.
I primi ad essere colpiti furono i volatili che iniziarono a precipitare rovinosamente a terra come una pioggia infuocata.
Nel cielo si stavano aprendo degli squarci di luce: alcuni degli uccelli che lo avevano coperto fino a poco prima, adesso, giacevano sulla terra gelida.
I rapaci, con i loro artigli però, si erano lanciati in picchiata contro gli incappucciati, gettandoli a terra e immobilizzandoli.
In questo modo permettevano, ad altri ancora, di entrare dalle aperture sulle torri dalle quali erano usciti fuori gli stregoni.
Sfrecciavano in volo, sfiorando con le piume del ventre gli scalini delle irte scale a chiocciola fino a raggiungere la base delle torri.
Il castello, enorme quanto un villaggio, aveva tante sale con incappucciati che preparavano in fretta e furia filtri da portare come munizioni a quelli che combattevano sopra. Una volta avvistato il portone delle mura, chiuso grazie ad una grossa trave di legno, fu scacco matto.
Con tutte le loro forze gli uccelli in massa spinsero via l’ostacolo che lo teneva chiuso.
Dopo un boato tremendo la porta fu spalancata. Eravamo entrati tutti.
Gruppi di animali si riunirono ognuno per tenere immobilizzato uno stregone, in modo da darci un attimo di tregua e pensare a cosa fare.
Io, Altea, Bodach e Rackal eravamo in una sala enorme circondati da moltissimi animali.
Le pareti erano completamente coperte da libri mentre, sui grossi tavoli di legno, erano poggiati tantissimi alambicchi e bizzarri strumenti.
Il rinoceronte con cui avevamo parlato noi, avanzò di qualche passo.
-Distruggiamo il loro potere! Distruggiamo tutto questo! – grugnì.
A questa proposta si accese un grande fermento, molti animali gridarono e si innalzarono su due zampe entusiasti. Stavano già per cominciare.
-No! Vi prego non fatelo! – gridai esasperato e ansimando terribilmente.
Tutti si voltarono verso di me.
-È ferito! È terribilmente ferito! – sentii gridare prima di cadere rovinosamente a terra.
Il furore di quel combattimento era stato così intenso che non mi ero accorto di avere un grosso squarcio nel petto.
Non mi resi conto del forte dolore che provavo fino a quando la vista non iniziò ad annebbiarmisi.
Questo di cui parlo ora mi fu raccontato al mio risveglio, dal momento che io avevo perso conoscenza.
Mio fratello iniziò a ruggire e a mugolare disperato, Altea continuava a guardarmi esterrefatta mentre Bodach, volava in tondo agitato sopra il mio corpo esanime.
Gli altri si stavano avvicinando preoccupati cercando una soluzione che però, tardava sempre di più ad arrivare.
Improvvisamente Altea si scosse. Le sue pupille si restrinsero all’improvviso quasi rilasciando una scintilla.
-Ha detto “non fatelo” perché forse spera che ciò che è qui non sia solo malefico– gridò lei con entusiasmo.
-Qualcosa che cura, qualcosa che cura – iniziò a bubolare Bodach quasi cantilenando. Stava cercando ora, per tutta la sala, libri che illustrassero qualcosa del genere.
Gli altri animali capirono le loro intenzioni ed iniziarono così, con cautela, a versare poche gocce di quei liquidi colorati per capire come potessero essere utilizzati.
-Questa! Questa! – si sentì gridare improvvisamente dopo momenti di incessante fermento e ricerca.
Tra i tantissimi libri ne era stato trovato uno che presentava sulla copertina una pozione dal colore blu scuro e la superfice iridescente mentre le pagine raffiguravano ferite rimarginate.
Gli animali si riversarono in tutte le sale del castello per cercarla, fino a quando, dopo un tempo che parve infinito, una scimmia annunciò finalmente di averla trovata.
-Versa questa presto! – gridò la scimmia passando la provetta ad Altea una volta giunta nella stanza dove mi trovavo.
La tigre la afferrò tra i denti e, con cautela, la versò sul mio petto.
La ferita velocemente, come se avesse preso vita, si richiuse e, poco dopo, il pelo bianco e lucente ci era già ricresciuto sopra.
Aprii di nuovo gli occhi e abbozzai un sorriso ad Altea che mi guardava con gli occhi gonfi di lacrime.
-Avete capito a cosa stessi pensando… – sussurrai ancora sdraiato a terra.
-Non tutto è come sembra, vero Bodach? – esclamai rivolto al povero gufo che, giaceva esausto, su una montagna di libri che aveva tirato giù dagli scaffali.
Nel frattempo, la scimmia si avvicinò a me con un gran sorriso.
Capii immediatamente cosa fosse successo poco prima.
-Grazie, grazie di cuore! – dissi rialzandomi da terra completamente ripreso.
Alla fine, andammo a liberare i prigionieri nelle segrete così che le coppie poterono finalmente ricongiungersi. Anche il maestoso cervo della radura si riunì con il suo amore: un grosso lupo bianco.

Nei giorni seguenti, passammo molto tempo a cercare di capire come funzionassero le pozioni e gli strumenti magici.
Quando ci imbattevamo in qualcosa di malvagio lo distruggevamo oppure, se possibile, tentavamo di usarlo in modo diverso.
La scoperta più grandiosa in assoluto, però, fu quella che fece mio fratello.
Rackal non aveva avuto molta scelta riguardo alla caccia, per la sua sopravvivenza e per la mia, aveva dovuto uccidere spesso.
Fin dal primo momento il suo scopo nella ricerca, dunque, fu quello di trovare un rimedio alla fame dei carnivori così da poter davvero, finalmente, vivere in armonia.
Riuscì davvero a creare un vero e proprio alimento magico che poteva sfamare tutti noi.
Gli stregoni ormai erano stati completamente sconfitti: il loro potere, basato sulla discriminazione, la caccia e la magia, non esisteva più.
Avrebbero vissuto come tutti noi, senza, arroccarsi in una fortezza dove detenere il potere a differenza degli altri.
In questo modo l’armonia avrebbe regnato per molti, molti anni.
Beh, fino a quando tre piccoli diavoletti tigrati non nacquero. I loro nomi erano Akira, Yaasmeen e Jazal ed erano così scatenati che quando giocavano la terra tremava.

-Papà ancora ti prego! – (Yaasmeen)
-Dai papà un’ultima, ultima volta poi dormiremo! – (Akira)
Piccoli, come promesso, adesso si dorme.
-Uffa! ma comunque la parte finale è quella più bella! – (sempre Akira)
-Ma certo che è la più bella, ci siamo noi! – (Jazal)

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