Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2020 “Il giro dei tavoli” di Alessandro Beltrame

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2020

“Davvero sono separati?” chiese di nuovo il mister. Alcuni fiocchi di neve si tuffavano sul suo cappotto ingrigito dalle ultime sconfitte.

Erano rimasti fuori soltanto in due, a osservare la caduta sempre più pressante dei coriandoli bianchi, in terra. Solo intervenendo sul ruvido asfalto essi mostravano la vera natura acquosa. L’illuminazione serale dei lampioni perdeva metri di potenza nel superare l’ordine di quel bianco avversario così lento e regolare, come se seguisse un copione consolidato da tempo. L’insegna lampeggiante del distributore automatico, ai lati della tabaccheria sul versante opposto della strada, era l’unica a mantenere inalterata una luce esplosiva. Paolo sollevò leggermente le spalle come per far precipitare a terra una colpa non sua, in attesa di fornire una risposta. Così, in piedi, non soffriva della contrattura, gentile omaggio del terzultimo incontro. 

 “Credo di sì, ma non preoccuparti. Non credo però che li abbiano spostati in parti diverse del locale.”

Sapeva che se avesse negato, la delusione ricevuta dalla successiva scoperta sarebbe stata peggio di una sconfitta all’ultimo minuto. La finta di affaccendarsi con la mano in tasca per puntare il pacchetto di sigarette non lo aveva aiutato nella scoperta di una risposta fantasiosa. Ormai la verità era avanzata dalle retrovie in modo fluido, con un messaggio filtrato sulla chat di gruppo del primo arrivato al ristorante, Jumbo.

“Claudia, invece?”, chiese sempre Paolo.

“I fatti vostri mai voi eh? Ma se proprio ti… v’interessa, le ho scritto diverse volte dopo che mi aveva dato il numero, ma non ha mai risposto.”

“Mister… mister… Eppure hai superato da poco i trenta come noi, certe cose dovresti saperle da un po’… Capisco che adori l’astronomia, ma con le donne non vale sempre la legge di gravitazione universale. Se la vicinanza diminuisce subito all’inizio sotto un certo limite, buonanotte.”

“Dopo invece… Quindi, sentiamo. Cosa dovrei fare?”

“Un po’ andare… un po’ venire…”

“Va beh… La sigaretta la stai costruendo nelle tue mutande?” Ormai il movimento della mano destra dentro i pantaloni era difficilmente distinguibile da un mero grattare le parti intime. Paolo aveva toccato il pacchetto da dietro, era troppo leggero. Entrandovi con la mano, sentì soltanto una sigaretta. Più della delusione per l’assenza della coppia di tabacco, si incupì constatando di aver sbagliato i conti del suo bonus giornaliero di fumo, prima di uscire di casa. Forse che quella mattina si era già giocato la sua dose quotidiana? Ma quando? Era stato chiuso nel suo ufficio quasi tutto il tempo, in attesa dell’incontro con il proprio responsabile, per altro annullato. Sperava di poter avanzare una minima richiesta di aumento. Meglio non pensarci. Eppure doveva aver già fumato quel giorno, considerava il fumo un rilassamento. Sostituì la delusione con l’affetto che provava verso il mister, mettendo in campo quell’unica sigaretta.

“Finalmente… ma tu? Non fumi?”

“No, preferisco fumare dopo.”

“Il bonus quotidiano?”

“Eh già… Non ti sfugge nulla.”

“Beh mi aveva fatto ridere abbastanza quella volta che te lo eri giocato prima della partita. Poi la tua prestazione…”

“Avevo retto bene dietro, dai. Certo se Jumbo avesse sfruttato almeno una delle tre occasioni là davanti…”

“Sempre colpa degli altri. Non siamo uniti, non c’è coesione tra i vari reparti, mi sembra che alcuni gruppi si stiano allontanando ogni partita di più.”

“Per questo hai organizzato questa sera?”

“Mi hai anticipato come riuscivi a fare una volta.”

“Una volta spingevo sulla fascia, infatti mi chiamavate Express, non giocavo difensore centrale se ben ricordi.” 

Paolo si girò verso l’ingresso del locale, mani in tasca e sguardo rivolto a quelle tante ombre che si spostavano dietro la tenda. Poteva scorgere un paio di bambini, uno era senza dubbio il figlio di Tino, sempre presente alle loro rimpatriate. Correvano, poi si fermavano per avvicinarsi, e poi riprendevano a scattare. Gli unici scatti che pensava di poter sostenere erano quelli di anzianità, in fondo era contento di non aver dovuto affrontare il proprio responsabile. Magari nei minuti di recupero un aumento sarebbe comunque giunto dal fondo.

“Ricordo, eri anche un bravo chitarrista.” Il mister sorrise pressando la tenue nuvola di fumo sull’astante.

“Hai chiamato la sala prove?” Paolo si era voltato di colpo come se avesse sentito l’attacco di una canzone famosa. Iniziò a muovere ritmicamente la mano destra chiusa a pugno colpendo sparuti brandelli di neve, senza perturbare l’atmosfera.

“Non ancora, tu sei dentro allora? Marta che dice?” Con il capo cercò un cenno di intesa.

“Non ne abbiamo ancora parlato. Una sera a settimana credo si possa sostenere.”

“Tu lo credi, e lei crede con te?”

Il mister lanciò il mozzicone ormai spento su un ammasso di neve luccicante. Rimase a scrutare il lieve accenno di fumo dell’ormai consumata sigaretta, finché non si eclissò del tutto, prima di voltarsi a fissare le auto parcheggiate lì davanti, già infarinate durante quei pochi minuti del dialogo.

“Non riconosceremo più nulla quando usciremo di qui,” fu il suo ultimo commento prima di tirare verso di sé la porta di ingresso del locale.

Paolo, che per precauzione si muoveva zoppicando leggermente, scorse subito i folti capelli ricci della compagna, seduta all’estremità di uno dei due tavoli riservati alla squadra. Jumbo aveva detto la verità: al posto di un’unica tavolata comparivano due tavoli distinti, distanziati poco più di due metri l’uno dall’altro, relativamente vicini. 

Durante l’avvicinamento, Express e il mister sostarono dinanzi al buffet dei primi, regno di nobili odori e vapori. Due camerieri si ergevano nella parte dietro il banco, silenziosi e candidi come l’innocenza della neve là fuori, già disposti a tutto pur di assecondare ogni tipo di richiesta. Nella bacheca dei dolci, là in fondo all’angolo, una Sachertorte ancora intera ergeva tronfia la copertura al cioccolato, ricamata con la scrittura del proprio titolo nobiliare sul bordo superiore, come se la corazza di cacao fuso fosse insufficiente a identificarne la vera natura. Per Paolo era il dolce perfetto. Avrebbe potuto ingerirne più porzioni consecutive, lo difendeva spesso con rabbia dalle offensive di Marta, la quale, pur cibandosene spesso, l’accusava di essere solo un piccolo alveare di zuccheri, antenati di carie dentarie. Aveva deciso. Avrebbe riservato un piccolo antro nel suo stomaco per lei. Erano trascorsi mesi da quando ne aveva assaggiato l’ultimo esemplare. 

Un quadro a mezza altezza dell’antistante parete blu lo impressionò, tanto da arrestarne l’avanzata. Su una spiaggia, deserta, era sopravvissuto solo un ombrellone chiuso su se stesso, in pendenza, causa il vento che spirava da destra a sinistra. Tentò di scorgere qualche altro elemento per poter interpretare il dipinto con maggior precisione. Ma non trovava nulla, a parte l’azione lenta e continua di quelle raffiche.

“Grande Manz!” Albertino lo aveva riconosciuto, suo pari grado come ruolo, appollaiato dietro l’ultimo muretto del loro percorso, coinvolto in qualche caccia al ladro dal figlio, tenuto a guinzaglio  dalla madre nel mezzo della sala principale. 

“Oh Tino, ti nascondi come sui calci d’angolo, dietro gli avversari?” 

Paolo sorrise vedendo come risposta dell’amico difensore il pollice destro sollevato, il resto delle dita invece stretto, come quando impugnava il gagliardetto della squadra prima di consegnarlo al capitano avversario a pochi istanti dal calcio di inizio.

Non amava troppo quel soprannome, ma il tempo ne aveva smussato l’iniziale antipatia. Manz. Era una tassa non scritta in cui si era imbattuto ogni membro della squadra, storico e non. Sempre presente fin dalla prima stagione, sfocata ormai, data la lontananza di nove anni, aveva resistito fino alla prima partita ufficiale di campionato, quando il suo secondo nome Amanzio era emerso in tutta rudezza sulla bianca superficie liscia della distinta da gara. Spinetti Paolo Amanzio. Gentile omaggio del nonno paterno, scomparso poche settimane prima della sua convocazione in questo mondo, l’accorciatura da Amanzio a Manz era stata siglata da Tino stesso, dopo la prima storica gara di esordio, dove si era distinto per tempismo e decisione negli interventi. Un’assonanza con un famoso giocatore dei campionati professionistici aveva finalizzato il troncamento del nome. In seguito anche Express si era infilato nel bagaglio dei soprannomi.

Manz notò degli spazi vuoti in entrambe le tavolate. Il numero elevato di convocati per la cena a buffet aveva costretto l’organizzazione del locale a dividere l’originale unico tavolo in due, mancando altro spazio intorno. La suddivisione dei giocatori era stata disposta a prima vista dal caso. In realtà, mentre appoggiava il cappotto blu sulla sedia accanto a quella di Marta, a Manz parve di essere entrato nel loro abituale spogliatoio, dove ognuno si era ritagliato il proprio angolo. I vicini di tavola erano infatti Tino, il cui giubbotto infiammato di rosso e sporco di vernice sulla manica sinistra era inconfondibile, e altri due nuovi difensori appena ingaggiati dal mister, vista la penuria di convocabili a ogni incontro. 

Verso il fondo del primo tavolo un paio di centrocampisti, ognuno insieme alla propria compagna di reparto, avevano alzato la mano non per chiamare il fuorigioco, ma soltanto per salutare il neoarrivato, il quale in risposta aveva strizzato l’occhio sinistro. La tovaglia era verde acqua, ogni commensale era dotato di doppio bicchiere acqua e vino, oltre che di un piatto privo di decorazione su cui una cameriera adagiava pizzette, tartine e alcuni vol-au-vent bruciacchiati, riempiti di besciamella e funghi, come scritto in gesso sulla lavagna nera alle spalle del tavolo del buffet. Diverse candele rosse occupavano posti casuali lungo la tovaglia. Una di queste era proprio in mezzo ai piatti di Marta e Paolo, che estrasse l’accendino e l’accese.

“Che carina lo nostra candela,” A Marta la frase era uscita spontanea.

Una coppia di camerieri orchestrava in aria ciascuno un vassoio argentato, sul cui campo flute colmi di spumante erano disposti senza alcuna apparente tattica. Ogni spettatore riceveva il proprio aperitivo, un paio di giocatori avvicinarono subito il calice alle labbra senza attendere gli orfani di vino, secondo un tacito buonsenso.  Sedendosi, incrociò lo sguardo del mister che aveva appena occupato l’unica sedia rimasta libera sul lato destro.

“Sono finito nel tavolo della difesa,” sospirò il coach con un mezzo sorriso. “Cerchiamo almeno di non prendere gol anche stasera ragazzi.” Il tono era scherzoso, anche se forse prima di scontrarsi contro i due tavoli si era augurato il solito scherzo di Jumbo e degli altri componenti storici del gruppo.

“Dai mister non siamo poi così staccati dagli altri.” Tino contrastava sempre con il suo entusiasmo qualunque eccesso di pessimismo.

Dirimpetto da Manz, oltre l’estremo baluardo della tavolata difensiva, si ergevano le voci piene e aspre degli attaccanti, padroni della seconda tavolata, già cosparsa di briciole di pane nonostante non fosse stato ancora decretato l’inizio della cena. Manz invidiava lo spirito ilare in cui erano immersi i loro discorsi negli spogliatoi, avrebbe gradito che anche i suoi compagni di reparto fossero più distesi, invece di preoccuparsi sempre di lavoro, di chi avrebbe dovuto stendere i panni il giorno successivo, pulire la cucina, giocare con i figli, inventarsi qualche regalo per la compagna, come se la vita da un momento all’altro potesse sorprenderli sbilanciati.. Solo il mister, unico single tra quelli accomodatisi al suo stesso tavolo, era in grado di sdrammatizzare le preoccupanti tensioni giornaliere già prima del fischio di inizio. Più che motivatore, moderatore. Risultati e prestazioni degli ultimi incontri erano stati pessimi. La squadra si era lentamente sciolta, gocciolava simile alla cera delle candele, modellandosi sull’avversario di turno senza imporre la propria identità, smarrita dietro malumori, risultati mancati, antipatie e nevrosi collettive. 

Scrutando l’intero gruppo dal fondo del tavolo, mentre Marta accarezzava la sua mano muovendo gli occhi in perlustrazione delle pareti del locale, Manz si domandò come fossero riusciti a resistere quasi dieci anni, uno accanto all’altro, delusioni dopo vittorie, bevute dopo inaspettate quanto cocenti sconfitte, litigate furiose appena concluse le partite.

Assicuratosi che fosse stato distribuito un calice a ogni invitato, il mister si alzò in piedi e, con un repentino movimento della mano, invitò tutti a seguirne l’esempio. Sollevava il calice con la mano destra, oscillava con ansia il volto da una parte all’altra dei due tavoli all’inseguimento di un invisibile batti e ribatti. Quindi, fissando un immaginario punto poco più alto e a sinistra del suo orizzonte, ribadì il concetto: “Anche se pure oggi non siamo uniti… a noi e a quelli che non sono riusciti a venire. La prossima la voglio vincere.”

“Grande mister!” La voce era di Jumbo, collocato esattamente dalla parte opposta rispetto a Manz, che si stupì di non aver notato subito la sua stazza, in continua espansione negli ultimi anni. Questo perenne aumento di circonferenza disegnava un muro invalicabile contro cui quel soprannome si era già scontrato da mesi. Dotato un tempo di un’elevazione impareggiabile, Giovanni Bigone, avviato verso i 38 anni, si era avvicinato al gruppo pochi mesi dopo la nascita della squadra. Prima, era stato compagno di squadra del mister per quasi due campionati. Stacco, fiuto e senso della posizione erano stati gli alleati principali nella scalata solitaria verso la testa della classifica cannonieri di sempre della squadra. Nessuno avrebbe potuto a breve giungere a insidiarne la leadership, soprattutto vista la media complessiva della squadra di due tiri a partita verso lo specchio della porta avversaria. Giuàn, come una volta lo aveva etichettato il mister negli spogliatoi, dopo pochi passi si era già trasformato in Jumbo, un potente e minaccioso condor degli spazi aerei nell’area nemica, capace di calamitare lanci di ogni natura, ora invece pasticcini e golosità assortite nei ristoranti più disparati. Nascondeva il gonfiore in espansione sotto la camicia durante le ore lavorative in banca, dove aveva fatto centro grazie al buon nome del padre, storico responsabile della medesima agenzia. 

Ultimamente si allenava poco, anzi forse per nulla, marcava sempre visita durante il ritrovo al sabato per la corsa al parco, una decina di chilometri, distanza minima per sconfiggere stress lavorativi settimanali e annientare l’incipiente crescita del basso ventre. Adorava anche cucinare i dolci, prima di introdurli dentro di sé. Spesso alle partite veniva accompagnato dal nipote, quasi adolescente, che sedeva in panchina pur essendo privo del valido tesseramento. Da lì il piccolo seguiva lo zio chiedendosi come quell’immobile pachiderma avesse potuto, anche solo tre anni prima, alzare quell’intera impalcatura gelatinosa di più di cinque centimetri da terra senza aiuti esterni. 

Nel momento in cui le prime esasperate bollicine ghiacciate giunsero a contatto con il tepore della bocca, un brivido istantaneo scostò gli occhi di Manz su Farfy, fino ad allora rimasta in penombra accanto allo storico bomber, suo compagno da quattro anni. Non credeva di ritrovarsela lì davanti. Durante l’ultimo ritrovo prenatalizio era rimasta allettata, come riferito da Jumbo, per colpa di una forte tosse. Erano trascorsi circa quattro mesi dal loro ultimo incontro, marcato in qualche cena di gruppo. Ora ne osservava il deciso rossetto sentendosi le labbra frizzare sotto la spinta di quel primo sorso. Un anno prima nello spogliatoio erano circolate voci di una visita dal chirurgo estetico per gonfiare la sua immagine di ragazza perfetta. Ora lo spazio davanti a sé non gli consentiva di stabilire la fondatezza della remota accusa. Non lo ricordava piccolo, il seno di Francesca, ai tempi del liceo, quasi quindici anni prima. Convivevano nella stessa aula già da tre anni, ognuno leader del proprio gruppetto di seguaci. Essendo i due rappresentanti di classe, avevano trascorso molti intervalli fianco a fianco, avvicinandosi sempre più. All’inizio erano le interrogazioni a sorpresa della professoressa di latino ad aver la meglio sulle rispettive passioni, poi nella ripresa entravano in campo la musica, comune interesse, e il livello di tasso alcolico da sfiorare il successivo sabato sera. Non era mai successo niente, soltanto miseri incroci di sguardi alla giusta distanza, prima della visita a Brera in cui Paolo, da dietro, le aveva sfiorato con paura e dolcezza la mano, quasi solleticandone la reazione, mentre la guida descriveva inutili alleanze italo francesi come sfondo storico del Bacio di Hayez. La mano di Francesca si era chiusa stringendosi per tutta la durata della visita,  terminata in ultima posizione. 

Ora la mano di Paolo, risedutosi, era ancora sotto le cure di qualcuno, di Marta. Avvicinando alla bocca, con quella libera, il soffice e cremoso vol-au-vent, preavviso di una lauta cena di piacere, una serie di immagini si schierò nel suo campo immaginario: lui e Francesca a far l’amore nell’allora inaccessibile terreno nemico, il lettone dei genitori della ragazza. Loro due insieme al mare schivando la lezione quotidiana con qualche astuzia. Il primo reciproco e inaspettato “ti amo” in una serata primaverile, che a Paolo aveva tagliato in due l’anima, fino ad allora perfettamente intatta. Più gustava l’antipasto, sorseggiava dal calice e continuava a fissarla, più i colori di quei fotogrammi recuperavano intensità e armonia, i suoni attutiti dagli anni riacquistavano la loro voce, e il cuore accelerava il ritmo. Sapeva di dover allontanare lo sguardo da quel rossetto e dai neri capelli lisci tagliati corti da poco tempo, tirato com’era dalle continue carezze di Marta. Ma era come se avesse annusato nell’aria dopo tempo un profumo rimasto sepolto anni, di cui non aveva perso ricordo, e che avrebbe sempre considerato in cima alla lista delle sue preferenze. Solo la prima volta che si erano rivisti dopo così tanti anni aveva provato una sensazione simile, più per l’inaspettata sorpresa che per il reale rimpianto. 

Era diventata “la Farfy”, da “Farfalla”, la compagna di Jumbo nei suoi voli aerei, a detta di Mele, anche per la sua passione per il volo. E si era scelta un compagno di otto anni più stagionato, conosciuto grazie alla sorella maggiore, che una volta l’aveva invitata a rilassarsi al mare qualche giorno insieme alla propria compagnia. Jumbo godeva già di discreta fama nel gruppo, era da anni impiegato in banca, viveva da solo, e soprattutto faceva ancora gol. L’interesse di Francesca verso ragazzi più maturi era una vocazione già in nuce sui banchi di scuola. Paolo aveva nascosto la delusa aspettativa nella loro storia in sei corde di chitarra, di fronte al suo sostituto, universitario con macchina sportiva sempre in dotazione. Aveva impilato con zelo, una a una, ore di studio di ritmiche e assoli, spinto dalla fiamma di dolore che riscaldava le sue giornate: aveva schierato il gruppo insieme al futuro mister, era a poco a poco guarito dall’infortunio, in relativo breve tempo. Gli amici di un tempo, Tino e il mister, erano ancora lì, a quel tavolo. La rabbia aveva lasciato avanzare il solo ricordo, restando immobile nelle retrovie.

“Tutto bene la gamba amore? Ci alziamo a scegliere i primi? Mi devi raccontare come è andata al lavoro, in auto eri pensieroso.” 

Marta lo aveva riportato nel presente, davanti al flute e al piatto dell’antipasto ormai volatilizzato senza che Manz ne avesse più ricordo. Farfy era volata via, anche se in realtà non era mai atterrata nel paesaggio del loro rapporto. Aveva annusato infatti il persistente e nauseante profumo della gelosia fin dalle prime uscite di sei anni prima con Marta. Il suo passato doveva rimanere per lei un riassunto privo delle parti più interessanti, solo un lieve accenno a innocenti incontri platonici con ragazze inferiori a lei, in tutto. Non potendo rischiare di farsi trovare scoperto durante un inaspettato ribaltamento di gioco, quando si era reso conto che la storia tra Jumbo e Francesca gettava serie basi per una futura convivenza, Manz aveva disegnato a Marta i contorni del cuore che lo aveva legato alla compagna liceale, evitando accuratamente di colorarlo di rosso fuoco e di renderlo pulsante, alla frequenza di una prima e seria passione amorosa. Una parentesi di poco conto, chiusa in quella versione del racconto da lui stesso per un motivo che cambiava a ogni narrazione privata, senza che la compagna se ne accorgesse.

“Sì, tutto sotto controllo, stai serena. Mi alzo.” Spinse indietro con le gambe la propria sedia, frastornato dalla rotonda morbidezza delle ultime bollicine di spumante in discesa verso i più ignorati anfratti dello stomaco. La coppia si avviò su quel cammino di pochi passi in direzione del rifornimento. Aveva preso l’abitudine di imitare la lunghezza e frequenza dei passi della compagna, quando camminavano uno accanto all’altro. Era un’eredità d’infanzia, di quando era accompagnato all’asilo dal nonno. Non voleva mai andarci, si sentiva abbandonato in mezzo a estranei, e ogni mattina si impegnava a imitare i passi dell’anziano per smuoverne la già evidente benevolenza. A Marta questo sembrava non dispiacere, anzi. Come un accordo siglato di nascosto, evidenziava la presenza di un invisibile specchio tra loro due. Vedere i piedi di lui colpire il pavimento, ritmicamente insieme ai suoi, rappresentava un sollievo, una costante e rassicurante presenza. Anche se avesse chiuso gli occhi, avrebbe continuato a sentire un unico incedere verso una meta comune, distante in quel caso un passaggio di pochi metri.

Si era diffuso in sala il tepore dei primi, disposti in tre distinti contenitori. Ai due lati alcune riposanti trofie al pesto bilanciavano con la placida tinta verdeggiante il beige di cremose tagliatelle ai funghi porcini, dove piccoli ma non insignificanti accenni di verde erano concentrati in minuscoli accenni di prezzemolo tritato. Al centro troneggiavano spugnose lasagne dall’aspetto ormai essiccato.

“Vorrei tornare a suonare la chitarra, stiamo allestendo un gruppo.” Avrebbe potuto esordire così. Ma poi lei si sarebbe voltata, cambiando lo sguardo. Come se non capisse da quale parte del corpo di Paolo provenisse quel desiderio. Erano tanti anni che non suonava con gli altri. Perché riprendere ora? Quali vantaggi avrebbe portato, alla loro relazione? Avrebbero potuto iscriversi a qualche corso serale, insieme. Perché allontanarsi?

“Per me trofie.” Marta aveva scelto subito. La porzione consegnatale era degna dell’ultimo Jumbo.

Manz oscillò tra il conformismo nei confronti della compagna, e il mai sopito ricordo dei funghi raccolti sempre dal nonno nelle settimane estive trascorse insieme in campagna. Una sfida impari fin dal principio, essendogli ritornate in brevi istanti le immagini di loro due insieme nel bosco, mano nella mano con un misero cestino date le leggi dell’epoca sulla raccolta. Un cameriere, diverso dall’addetto alle trofie, riempì con generosa abbondanza il piatto tiepido, attorcigliando le ultime tagliatelle ancora gocciolanti di cremosa salsa a forma di semicono. 

Mentre riprendeva possesso della sedia, Manz vide Tino scrutare il piatto. 

“Ma tu non dovevi andare a donare il sangue questa settimana?”

“Sì, perché?”

“Tra doppio bicchiere di spumante e quintale di tagliatelle, non so che sangue potresti donare.”

“Guarda che non c’entra nulla. E comunque la donazione non è domani Tino, stai tranquillo.”

“Ma soprattutto, la vuoi smettere di andare a rimorchiare ragazze con questa scusa?” Tino rise guardando Marta.

“In effetti dovresti smetterla, non ti è già andata bene sei anni fa?” Marta aveva sfruttato l’assist dell’amico per realizzare un sorriso sui volti seduti a quel tavolo.

“Di lusso, proprio,” la risposta in anticipo sulla prima forchettata di tagliatelle.

Sei anni. La squadra era al terzo campionato, in zone alte della classifica. Manz era ancora Express, un pendolino sempre in orario sulla fascia destra, pronto a inondare l’area avversaria di palloni carichi di effetto per Jumbo, snello e ancora dotato del fiuto del bomber di razza. Quella sera avevano provato fino a notte tarda, lui e gli altri del gruppo. Suonavano un paio di volte al mese in alcuni locali della periferia, soprattutto cover, alcune rivisitate dalla lente di ingrandimento del mister, fidato amante e conoscitore di gruppi hard rock. Si era svegliato disteso nel letto mal rifatto da giorni in quel monolocale, dove si era trasferito da circa tre mesi. Frequentava all’epoca un’amica di un suo compagno di università. Non era una relazione stabile, anzi. “Ci si vede ogni tanto,” ripeteva al mister durante le serate trascorse in coppia davanti a due birre ghiacciate, un modo per evitare qualsiasi tipo di impegno. Doveva alzarsi presto, per donare il sangue, un’attività presa in prestito da alcuni volontari del servizio di assistenza dove prestava volontariato un paio di volte al mese. 

Trascorsa indenne la doccia gelata, si era presentato puntuale, seduto nel corridoio bianco asettico, l’odore di disinfettante in ascesa alle narici. Era l’unico seduto da quel lato, una lunga serie di sedili rossi lo affiancava da entrambi i lati. Si sporse in avanti piegando la schiena, per tentare di uscire dalle poche ore di sonno. Le braccia trovavano anch’esse riposo sui quadricipiti ben allenati. Osservava il pavimento illuminato da una fastidiosa luce artificiale giallo tenue quando vide entrare nel suo campo visivo due scarpe da ginnastica, nuove o indossate al massimo non più di tre quattro volte, allacciate con estrema precisione. Esse ruotarono direzione puntandolo, poi retrocedettero frontalmente. Quella di destra si staccò dal suolo, senza che le stringhe subissero il minimo turbamento durante l’evoluzione aerea, trascinata dalla gamba in cerca di una comoda posizione. Ritornato alla posizione eretta, notò il volto della magra ragazza che aveva scelto il sedile più vicino al suo, tra quelli schierati sulla parete opposta. In mezzo, il pavimento. Nonostante non fossero attaccati, riusciva a intuire le poche lentiggini cosparse sul volto di lei, i fini orecchini luccicanti incastonati nelle orecchie, e la collana a cuori di pasta turchese che le abbracciava il liscio collo. La chioma rossiccia ondulata, il lieve fondotinta rubato a qualche valigetta di trucco e il verde acqua con cui erano riempiti i suoi occhi diedero ben altro significato a quella mal sopportata sveglia mattutina. La collana si stendeva su una semplice maglietta nera, adornata da una frase virgolettata, che Paolo non poteva evitare di leggere: 

“Voi siete nati insieme e insieme sarete per sempre.”

Non sapeva cosa significasse, sogghignò dentro di sé pensando a una battuta per rompere il ghiaccio. L’inizio di quella gioia interiore aveva accompagnato il pensiero dalla mente fino alle labbra, da dove uscì a braccetto con un’indispensabile borsetta di sfacciataggine.

“E’ riferita a me e a te?” aveva chiesto indicando la maglietta.

La giovane non aveva intuito subito a cosa si stesse riferendo quel magrettino spettinato, come l’avrebbe chiamato nelle future versioni di quel loro primo incontro, per poi invece accettare le diffuse leggi della seduzione.

“Dici? E cosa te lo fa pensare?”

Da lì era iniziato tutto. La simpatia di Paolo aveva fatto presa sulla dolcezza di Marta, sempre giocosa e pronta allo scherzo. Il primo appuntamento, concluso su una panchina a divorare un panino a testa dopo uno spettacolo teatrale. La prima vacanza, sole, spiaggia, amore, insieme, amore. Le partite vissute dalla tribuna, anche nei mesi più rigidi, riparata da coperture di scarsa qualità. Il primo concerto a cui Marta aveva assistito, lì, in prima fila.

Per tutto il tempo in cui ripulì il piatto dall’ultimo sugo rimasto inerte lì a guardarlo, Manz vide il volto di Marta riflesso nel calice riempito di vino rosso. Ritrovava il viso magro e le dolci lentiggini di un tempo, la maglietta aveva lasciato posto a un maglioncino più maturo ed elegante, le mani allora spoglie di ornamenti sfoggiavano un anello, regalo del suo ultimo compleanno. Il sorriso malizioso di quel corridoio era ancora lì, a fissare le trofie. Scrutandola senza l’ausilio del freddo bicchiere, guardò le guance divenute paffute, la pelle un po’ più stiracchiata, le dita un po’ rovinate dall’impiego quotidiano del gesso alla lavagna. Forse il soprannome che le era stato conferito da un paio di anni, Manza, aveva un secondo significato, oltre a quello di versione femminile di Manz. Si era ingrossata, nulla di così evidente da meritare commenti sarcastici, ma la maglietta mai più rivista indossata quella mattina di sei anni prima, dispersa ormai in chissà quale dei dieci cassetti che aveva a disposizione nella casa dove convivevano, difficilmente avrebbe potuto ancora coprire con la stessa grazia il suo busto. Forse si sarebbe letta soltanto la prima parte della frase, senza l’epilogo. Manteneva inalterato lo sguardo angelico che lo aveva trafitto in quella sala di attesa.

“Papà, voglio venire a vedere la partita settimana prossima.” A parlare era stato il figlio di Tino seduto in braccio alla madre, in mano due robot impegnati in uno scontro titanico alle estremità opposte del piatto svuotato di ogni contenuto. Era ancora biondino nonostante entrambe i genitori fossero mori, aspetto che aveva suggerito qualche perfida battuta negli spogliatoi.

“Com’è carino vostro figlio.” La Manza lo guardava come in estasi. Adorava i bambini. Manz si era domandato spesso come potesse resistere tutto il giorno a scuola importunata almeno quattro ore insegnando matematica alle elementari, e poi promuovere commenti del genere. In un paio di circostanze avevano discusso dell’eventualità di diventare genitori, ma aveva bloccato ogni attacco arroccandosi dietro l’instabilità delle loro rispettive posizioni lavorative. Spinta invece dall’ennesimo giro panoramico delle lancette sul suo orologio biologico, la Manza riteneva di essere pronta, anzi. La tinta ai capelli di cui aveva iniziato a rifornirsi al supermercato per combattere l’incipiente ribellione bianca della chioma, nonostante l’ancor giovane età, la ammoniva ogni volta che superava l’ingresso del bagno. La infastidiva che il compagno non dovesse ricorrere a simili espedienti per continuare a sembrare giovane, nonostante un’esistenza ben più emozionante della propria, trascorsa fino ad allora controllando con cura ogni filo e burattino legato alle sue mani, in un delicato equilibrio di monotonia e certezze.

“Tesoro, il papà ti ha già detto che è troppo freddo adesso, abbi pazienza qualche mese.” Tino cercava con lo sguardo testimoni in grado di dargli man forte.

“Ok, ma mi prometti che vincerete la prossima?”

“Certo amore, ce la metteremo tutta”

“Di sicuro se giochiamo come nell’ultima gara… buonanotte.” Il mister non aveva resistito, gettando la frase direttamente in faccia al bicchiere di vino svuotato già due volte.

“Abbiamo fatto così schifo?” Manz l’aveva vista dalla panchina con lui, era ancora convalescente dopo l’ultima contrattura.

“Tu eri lì accanto a me, non te ne sei accorto? Palla a loro o palla a noi. Mancavano spazi. Tutti attaccati. Tutti i reparti. Non guardavamo dove fossero i nostri compagni.”

“Dovresti riproporre l’esercizio dell’elastico, ti ricordi quello che facevamo da giovani?” Manz lo ricordava con affetto. Era durante i primi anni di liceo, non era molto che si conoscevano. Durante il primo allenamento settimanale del martedì, il coach della loro squadra giovanile aveva legato i quattro centrocampisti tra loro con una strana fascia elastica. Lo stesso trattamento era stato riservato ai difensori. Express si era trovato invischiato insieme a Tino, già allora attento stopper. Ricordava la strana sensazione durante i vari movimenti, in base a dove si trovasse la sfera in campo. Quando era vicino al compagno, la tensione del tessuto era inesistente, avrebbe potuto anche dimenticarsi di essere legato a qualcuno. Ma una volta che il compagno o lui si muoveva in direzione della palla, sentiva a un ben determinato istante una forza attrattive capace di avvisarlo sul prossimo movimento da fare. Una specie di forza magnetica capace di farlo traslare correttamente sul terreno di gioco. Lo notava anche nei movimenti dei quattro centrocampisti davanti a lui. Si era creata un’armonia che avrebbero dovuto mantenere nei momenti bui di ogni incontro, quando l’avversario avrebbe attaccato cambiando continuamente fronte nel tentativo di trovare il giusto pertugio, la piccola crepa nell’intero movimento difensivo, il piccolo errore di posizionamento: troppo vicini, avrebbero lasciato spazio per altro, troppo lontani pure. Dovevano cercare in continuazione il corretto intervallo spaziale, l’equilibrio complessivo.

“Per legare Jumbo ora quanti metri di tessuto ci servirebbero?” Aveva pronunciato queste parole innalzando il tono della voce, apposta per farsi sentire dall’altro tavolo, dove un folto vociare aveva preso ormai piede. Sentendosi chiamato in causa, Jumbo ribatté con un sorriso e un: “Mister non facciamo scherzi eh? Già qui si fatica a trovare la porta, se manca poi la fiducia nei miei mezzi non riesco nemmeno più a entrare in area,” per poi chiudere nel mezzo delle sue fauci il pezzo di pane che aveva in mano, inzuppato nel piatto ripulito da ogni traccia di sugo rimasto.

“Eh, ma il bomber è troppo a dieta!” Altro commento dal tavolo accanto. Scoppio generale di risa.

“Poi ti insegno a lanciare.” Jumbo aveva iniziato a riproporre il solito discorso. La colpa della sua sterilità sotto porta era dovuta ai lanci imprecisi dalle retrovie. Manz sorrideva, i suoi lanci o cross, una volta apprezzati dal bomber stesso, erano divenuti improvvisamente i peggiori e più scarsi mai visti, non appena Farfy aveva raccontato la loro storia al convivente.

Manz aveva ancora fame, alcuni si era già alzati per servirsi al banco dei secondi. Un intenso odore di griglia si era diffuso nella stanza, carne e pesce erano a disposizione.

“Vado in perlustrazione dei secondi, vieni?” 

Manz si era alzato in contemporanea con il mister.

“No amore, le trofie mi hanno riempito, mangerò soltanto un frutto più tardi.”

“Ti faccio portare dell’altro vino?”

“No, davvero, mi basta l’acqua.”

Mentre si avvicinava all’angolo dei secondi, ascoltando un assolo di chitarra proveniente dalle casse sollevate ai quattro angoli del locale, ripensò all’opportunità di suonare dal vivo davanti a un gruppo di persone. Ricordava l’adrenalina e la paura prima di ogni concerto, gli sguardi di intesa con il mister e gli altri componenti, il coraggio liquido scolato con avidità dalle bottiglie di birra fino a poche battute dall’inizio. 

“Questo lo sapevi fare.” Il mister gli era accanto nella difficile scelta tra carne o pesce, entrambi alla griglia.

“Era difficile, non credo di riuscire a ripeterlo improvvisando, dovrei provarlo prima.”

“Ma allora sei dentro o no? Guarda che noi ci andiamo, in sala prove. Giusto il tempo di trovarne una comoda per tutti.”

“Vediamo. Per me filetto, al sangue, con contorno di patate arrosto.” Manz si era girato verso il cameriere. Costui sollevò con l’aiuto di un forchettone metallico un discreto ammasso di carne inerme dalla griglia rovente, posizionandolo al centro di un piatto rotondo, incoronato da un’aureola di patate.

Evitando ulteriori domande con una finta preparata all’ultimo, era già in procinto di rientrare al tavolo, quando si accorse di diverse idee da esporre al mister riguardo alla nuova formazione musicale, dal nome della band all’abbigliamento da indossare durante le esibizioni. Avrebbe potuto sedersi accanto al mister, se non avesse incrociato i due occhi di Marta che lo calamitarono in automatico alla sedia di partenza.

Attese gli altri compagni al tavolo prima di sfoltire il piatto. Il filetto pareva succoso, a lui piaceva al sangue, morbido e intenso insieme.

“Certo che è difficile starsene qui a pochi centimetri senza aver voglia di rubartene un po’.” La Manza non smetteva di fissare il piatto. Finché non prese la forchetta ancora sporca di verde insieme al coltello affilato di voluttà e tagliò un lembo di carne, alterandone per sempre la forma cilindrica pressoché perfetta. Chiuse gli occhi mentre assaporava la fibra di quel pezzo, succhiandone il liquido come se dovesse nutrirsene per sopravvivere. Manz era rimasto con le mani sotto il tavolo, inebetito nel fissare la sua bocca muoversi con furore mentre stritolava quel pezzo di carne.

“Sai che come gusto mi ricorda molto quella che abbiamo mangiato a casa nostra l’ultima volta con le mie colleghe?” Il momento di estasi aveva già avuto il proprio culmine.

“Questo è migliore, senza dubbio.”

In quel momento, annegato nel mezzo del ricordo, quel “nostra” lo aveva infastidito. Ricordava con precisione la cena, organizzata dalla Manza per parlare di lavoro con le colleghe e i rispettivi mariti, essendo tutte sposate. Erano in numero pari anche quella sera, difficile per lei invitare qualche amica single o per lui introdurre in casa “loro” uno scapolo, anche se da anni in rapporti amichevoli con l’effettivo padrone di casa. Gli dispiaceva, anche il mister era invitato solo in particolarissime occasioni. Non riusciva a inquadrare il momento esatto della decisione comune di andare a convivere in quella casa due anni prima, eredità di suo nonno. Forse c’era stata una proposta da parte sua? Avevano discusso o litigato? Era stata una decisione almeno vagliata? O non l’aveva nemmeno invitata? Le prime volte che lei si era fermata a dormire le vedeva lì, davanti a sé. Lei entrava munita della borsa per il weekend che appoggiava sul parquet appena laminato della camera matrimoniale. La borsa dopo qualche tempo si era spostata. Da sola? Non la vedeva più sul pavimento. E non solo nel weekend. La scopriva in vari angoli dell’appartamento, anche durante la settimana, quando lei non dormiva lì. Finché un giorno si accorse di uno strano e inanimato accoppiamento della borsa stessa, con successiva riproduzione. Ne scovò una simile in un altro angolo di una camera diversa. Il parto era stato plurigemellare. La moltiplicazione delle borse camminava a braccetto con l’aumento di disordine generale sopra ogni mobile della casa, un progressivo accumulo di maglioni sparsi, orecchini infilati ovunque, e lo schieramento finale di una formazione completa di scarpe, ovviamente non da calcio.

Masticava anch’egli il rimanente tessuto fibroso avanzato sul piatto dopo la scorribanda della Manza, quando questa, con un movimento maldestro, lo urtò proprio nel punto dove la contrattura doleva. Ebbe come un sussulto di coscienza, una stilettata che dalla superficie esterna della propria intelaiatura di carne si diffuse su larga scala verso ogni estremità del suo corpo, dita dei piedi ed estremità dei capelli incluse. Si ricordò della propria condizione, di non poter disputare il prossimo incontro a meno di non imbottirsi di antidolorifici. Avrebbe comunque potuto recarsi in sala prove, lì poteva rimanere seduto con la propria sei corde adagiata sopra la gamba sana. Prosciugato anche nelle fauci da riflessioni tanto impegnative, distolse la propria attenzione dal futuro immediato, catapultandosi alla ricerca del bicchiere. Non lo trovava più. Eppure l’aveva lasciato davanti a sé prima di alzarsi per il secondo. Si voltò di qualche grado verso destra, il calice del mister era ancora lì, così come quelli degli altri invitati: non erano stati i camerieri a rubarlo. Forse lo aveva riconsegnato senza nemmeno accorgersene? Il pensiero di alzarsi per richiederne uno nuovo stava già prendendo campo quando l’avambraccio destro della Manza irruppe nel suo sinistro orizzonte insieme al bicchiere sequestrato, avviluppato dalle cinque dita tutte piegate dallo sforzo. L’atterraggio sulla tovaglia avvenne con delicatezza, ma il serbatoio si era svuotato della metà del vino. Lei si preoccupò di asciugarsi con apparente candore le labbra inumidite dal nettare divino, ripiegando con geometrica e ossessiva precisione il tovagliolo sopra la gonna di lana. Manz bevve la sua parte, poca o giusta che fosse a lui non era dato saperlo, placando solo in parte il bisogno interiore di liquidi. Quanto rimaneva della carne era ottimo, così come se l’era immaginato. Vellutato, saporito e alla giusta temperatura, il filetto allontanò qualsiasi pensiero o volontà di ribellione, recuperando dal fondo del suo stomaco immagini, suoni e sensazioni di un concerto passato, e la voglia di andarsi a sedere accanto al mister per raccontargli come si immaginava il loro ritorno sulle scene.

“Mister, dite qualcosa anche voi a Giò, sennò ti avviso che non segnerà mai più.” La voce dietro le spalle del coach era di Francesca, in piedi con un cannolo di ricotta immobile sul piattino.

“Dici?” Il mister si era voltato, sorpreso dall’arrivo della ragazza dall’altro tavolo.

“Ma non lo vedi? Quanto mangia, intendo. Adesso è alle prese con la seconda fetta di torta. Altro che Jembo, Jumbo, come lo chiamate voi..” Francesca aveva allungato il braccio ed estratto l’indice per puntare il bomber di una volta, che si accorse ben presto di essere al centro dell’attenzione di quel gruppetto di difensori. Smise di masticare, di colpo. A guardarlo così, da quella distanza, sembrava stesse cercando un modo geniale per nascondere in un solo colpo non solo quello che rimaneva della crostata di mirtilli davanti a sé sul piatto, ma anche il pezzo a incastro mancante che stazionava immobile dentro le pareti della sua bocca. Gli occhi iniziarono a roteare nervosamente sulla testa, immobile, alla ricerca di spazi di manovra. Tino, Manz e tutti gli altri difensori ormai lo fissavano in atteggiamento di accusa. In effetti era l’unico a essersi già servito del dolce.

“Jumbo vedi di deglutire prima della prossima partita!” Era sempre Tino a interrompere i momenti di imbarazzo, scatenando questa volta le risate dei due interi tavoli, Jumbo incluso.

Manz approfittò degli schiamazzi degli attaccanti per alzarsi, passare accanto al mister sussurandogli un “vedi che in fondo non siamo così divisi come pensavi, nonostante il tavolo,” sfiorare con lo sguardo Francesca, e avvicinarsi al tavolo dei dolci, dove la Sachertorte era rimasta integra, ancora non assalita da attacchi di gola. Non c’era nessuno a servirla, tagliò di sua iniziativa una fetta abbondante, fendendo lentamente la crosta di cioccolato, come se volesse prolungare il piacere dell’attesa del sapore di cacao e marmellata sulle labbra. Prima di intraprendere il cammino del ritorno, notò che Francesca era tornata a sedersi accanto a Jumbo, fendendo l’aria con gesti e mimiche poco amichevoli. La sedia accanto al mister si era invece liberata. Tino si era alzato a parlare con Mele, suo collega anche nel lavoro. Constatando che il proprio sedile era stato occupato dal figlio di Tino, e che Marta si era già immersa in qualche gioco imparato dagli alunni a scuola, si diresse deciso verso il frontman del suo gruppo.

“Quando pensi di rientrare in campo?”

“Non lo so, fa ancora male. Ma quando torno, se vuoi provarmi sulla fascia… a me farebbe piacere essere più nel vivo del gioco di attacco. Fiato ne ho ancora.”

“Quello sì, fumi poco grazie a Marta.” Il mister non aveva resistito dal punzecchiarlo.

“Dai seriamente, perché non potrei riprovare?”

“Perché forse sono sei anni, più o meno, che te ne stai lì dietro con Tino? E guarda che il gioco di attacco parte comunque da voi due, quando impostate l’azione.”

“Sì, se non perdiamo subito palla. Hai capito cosa intendo, ricordi quando arrivavo fin sul fondo?”

“Bei tempi, passati ormai.”

“Lascia perdere i sentimentalismi, intendo dire che intuivo di essere davvero vivo. Da dietro si osservano tutti gli altri che corrono e si affannano dietro all’avversario di turno, hai tempo anche di pensare a come si potrà sviluppare l’azione-”

“Questo mi sembra un buon vantaggio no?”

“Sì, ma sei troppo lontano per intervenire. Invece se quando prendi palla hai sempre l’uomo da puntare, ti imbatti a ogni istante in una nuova sfida, se portarlo sull’interno, se correre verso l’esterno…”

“Ho capito, ma il fisico reggerebbe? Voglio dire, l’ultima volta ti sei infortunato provando a giocare di anticipo, lì sulla fascia è tutto uno scattare, fermarsi, riscattare, rientrare.”

“Tornerò ad allenarmi, promesso, anche da solo.”

“Sicuro? E lei? Lasci lei a casa?” L’indice del mister puntava in direzione della ladra di filetto.

“Perché i discorsi devono sempre finire con lei? Anche prima, parlando delle prove… Sempre lei. Lei ha i suoi impegni, io i miei, non per forza bisogna sempre andare insieme. Altrimenti ti avrei già chiesto di cambiare la squadra, da calcio maschile a pallavolo mista no?”

“Secondo me potrebbe avertelo già chiesto.” Il mister rilanciò due boccate d’aria fuori dalla bocca stirando i muscoli del viso in una risata.

“Ridi, ridi. Intanto nonostante l’infortunio possiamo comunque andare a provare, rimango seduto sullo sgabello.”

“Perché, tu di questo gliene hai parlato?”

“Sì, prima, quando ci siamo alzati per i primi.”

Manz tornò a fissare la Sacher, che ricambiava il suo sguardo, impassibile, rimasta ad ascoltare il fitto batti e ribatti da una testa all’altra, appena lì sopra. Scostò leggermente il piatto, sentiva la pancia riempita dalle frasi dell’amico, indigeste. Erano scese dentro di lui, mentre ora fissava Marta intenta a giocare a cavallino con il bimbo. E’ vero, non le aveva chiesto di riprendere a suonare. Ma perché avrebbe dovuto negargli quel tipo di attività? Poteva esserci qualcosa di offensivo? Una qualche mancanza di rispetto nei suoi confronti? Eppure non era stato in grado di parlare. Vide che lei aveva osservato per qualche istante la torta rimasta lì, ma era troppo distante per arrivarci. Senza farsi notare, la riavvicinò leggermente a sé. 

Non aveva più fame. Solo liquidi: caffè e digestivo, magari consumati da solo al bancone di legno posto sul fondo della sala. Si accomiatò da quella sedia, iniziando a camminare guardando i propri piedi. Ripassò davanti al quadro, l’ombrellone ora sembrava quasi capovolto per terra, ben più inclinato di come ricordava di averlo identificato all’ingresso. Rallentò il passo, per osservare da vicino le pennellate nervose lanciate sulla tela, capaci di rendere l’idea di un vento costante, non fortissimo, ma costante, in grado di piegare ogni tipo di ostacolo, a braccetto con la pervicacia del tempo. Nessuno su quella spiaggia avrebbe potuto riequilibrarlo, mancavano esseri umani. Solo il caso, la resistenza delle fibre di tessuto e la profondità nel suolo a cui arrivava la base avrebbero potuto lasciarlo lì, senza farlo volare via. Si chiese cosa potesse desiderare quell’ombrellone. Magari volare via.

“Un espresso, grazie,” ordinò una volta conclusa la traversata della stanza.

“Fai due, scusa”

Aveva riconosciuto ancora prima di piegare il collo la voce di Francesca. Con un riflesso condizionato, si voltò immediatamente per localizzare posizione e visuale di Marta. Era ancora lì seduta a ore tre con il bambino sulle ginocchia, ancora vispo nonostante l’ora.

“Come andiamo?” Era chiaro che Francesca aveva voglia di parlare.

“Direi che tra tutti e due non siamo messi così bene.”

“Ah sì? E cosa te lo fa credere?”

“Mah, così, da lontano, mi sembrava che stessi avendo una discreta litigata con Giovanni prima.” Il caffè rovente lo aiutava a essere più spigliato del solito. In fondo lei rimaneva, ai suoi occhi, quella che lo aveva abbandonato, e un qualche mal celato senso di inferiorità stava tornando a galla lì dentro, appena sopra la bocca dello stomaco.

“Lasciamo perdere.”  Francesca si girò per guardare anche lei in direzione del compagno. Ma non lo vide. “…anzi no, sediamoci lì dove eravamo io e Giò, tanto lui è andato a telefonare fuori ai suoi, ogni volta impiega almeno venti minuti.”

“Se chiamasse Marta e uscisse anche lei, sarebbe un’ottima idea… intendo sedersi al vostro posto…”

“Beh ma lei si sta alzando col bimbo, guarda.”

Francesca aveva ragione, Marta era in piedi e dava loro le spalle, là davanti. Aveva già svoltato l’angolo quando Paolo e Francesca si accomodarono lei al proprio posto di partenza, lui a quello di Jumbo, ognuno con il bicchiere di digestivo: per lei limoncino, per Paolo un amaro alle erbe. Non c’erano più piatti, in quell’area. Solo il telefono della ragazza appoggiato lì, di schiena.

Salutò Mele, il quale offerse la mano in risposta e un “dai rientra presto Paolino, che lì dietro balliamo senza di te,” per poi orientarsi col busto verso Francesca.

“E’ da un po’ che non parliamo.” Iniziò così, cauto.

“Alla cena di Natale ero ammalata, poi sai che alle partite non vengo quasi mai. Anche perché continuate a perdere!” La battuta infastidì Paolo.

“Se tu non tieni a dieta Jumbo, nessun altro ha il gol nel dna come lui.”

“Una volta magari. E’ da tempo che non lo riconosco più, almeno prima ci teneva a restare in forma. Avrà altri pensieri, come me.” Con il pollice destro si ripulì la guancia di una piccola goccia di limoncello rimasta lì, sospesa.

“Che intendi?”

“Mi hanno promossa, sai che lavoro in quella società di marketing? Adesso sono salita a capo del mio gruppo, una bella soddisfazione, ma anche molte pressioni, non solo a livello lavorativo.” Il telefono di Francesca vibrò di colpo lì sul tavolo. Lei lo prese, gelosa. Sorrise.

“Non dirmi che Giò ti ha scritto da fuori.”

“Lui? Ma va. E’ l’amministratore delegato. Quarant’anni, sposato da otto, senza figli, ogni tanto mi manda messaggi anche a sera tarda. Dice che dovremmo uscire a cena una volta. Adesso mi ha scritto che oggi ero perfetta, vestita com’ero.”

“Beh, non mi stupisco che tu abbia fatto colpo.”

“Sì, e ammetto che le attenzioni che ricevo, anche durante la giornata, non mi dispiacciono affatto. Rimanga tra me e te, eh?” A Paolo piaceva questa confidenza ritrovata, dopo diversi anni.

“E che intenzioni hai?”

“Sono confusa. Ci mancava solo la discussione con Giò prima di uscire. Si è messo in testa da circa un mese di avere un figlio. Non riesce a far gol, figurati un figlio.” L’espressione del volto virò in pochi istanti verso un’accentuata preoccupazione. “Scusa, non so nemmeno io perché ti racconto queste cose, ma ho bisogno di sfogarmi.”

“Immagino che tu preferisca assistere a tutte le nostre partite piuttosto di diventare madre, in questo momento.”

“Anche tutte quelle invernali potrei sopportare!” Era scoppiata a ridere, allungando la mano verso il braccio di Paolo, stringendolo. “Hai sempre saputo come farmi ridere, sai? Comunque al momento non stiamo prendendo precauzioni.”

“Ah, lasci tutto in mano al caso?”

“No, lascio tutto in mano a lui. E’ da due mesi che non abbiamo rapporti.” Rise prima di aggiungere: “Scusa vado un attimo in bagno…”

Francesca si alzò, lasciando il telefono lì in bella mostra. Solo Paolo avrebbe potuto leggere chiaramente l’eventuale arrivo di un nuovo messaggio. Si accorse di essere esattamente dalla parte opposta rispetto a Marta, rientrata in sala. Ma da quanto? Adesso si guardavano l’un l’altro, distanziati. La vedeva ingrossata, la Manza. Chissà se lo aveva visto parlare con Francesca. Forse dopo ci sarebbe stato da discutere. Ma non aveva fatto niente di male, no? Anche Manz avrebbe potuto domandarle dove si era recata, e con chi. Ma sapeva già la banale risposta, priva di qualsiasi tensione o sospetto. Le domande scavarono un buco nello stomaco. Accortosi della fame, e memore della Sachertorte rimasta naufraga ancora lì, accanto al mister, stirò il proprio busto insieme al collo come per fare un po’ di stretching prima di rientrare in campo, socchiudendo anche gli occhi. Fu interrotto durante l’allungamento da una nuova scossa al telefono, questa volta continua. Il telefono aveva iniziato a vibrare, forse era una chiamata per Francesca. Nessun suono, però, solo la vibrazione. Girò verso di sé il display, senza preoccuparsi di altri sguardi indiscreti, e si accorse dell’allarme preimpostato a quell’ora, le 23:00. Lesse “Pillola”. Sorrise, scuotendo la testa. Rubò la libertà di cliccare ok.

Abbandonato definitivamente il dispositivo, tornò con lo sguardo alla ricerca della torta. Non la vide. Il mister, niente davanti a sé. Tino, neppure. Dovette guardare dritto davanti a sé, oltre la candela consumata e ormai morta, per guardare in diretta, senza telecronaca, l’ultimo boccone di Sacher inghiottito dalle fauci della Manza che, appena risedutasi, sorrise a Tino accorgendosi di tutta la sfumatura di cioccolato dipanata sulle proprie labbra. Ma come aveva potuto? Era sua, quella torta! No! No! No! Non aveva nemmeno chiesto. Non pretendeva una richiesta formale, ma almeno un cenno, un gesto con quella mano grassa, un rapido movimento delle palpebre inchiattite, un accenno da quel collo ben tornito. Invece niente. No! No! No! La fame lo stava conquistando, quell’armata avanzava nelle sue ormai sterminate interiora senza incontrare alcun tipo di oppositore. Come un ospite inatteso, la scena della mattina invase i suoi pensieri: lui sul balconcino comune dell’ufficio, a fumare, nervoso. Non voleva chiedere l’aumento, non voleva ulteriori responsabilità. Quanto insisteva, lei, per quell’aumento. Diceva che era giusto, meritato, così avrebbero potuto pensare a un figlio. Ma cosa poteva saperne? Lei sapeva quanto lui amasse o odiasse quel lavoro?  Ogni giorno, per almeno otto ore erano separati. Abbassò leggermente lo sguardo, sulla tovaglia. Vide un calice ancora ben pieno di vino bianco, il piede era bagnato da goccioline condensate. Il bevante piangeva altre gocce di lacrime ai lati, fin sullo stelo. Una reazione quasi spontanea durante un rito funebre, verso qualcosa che non c’è più, di cui si può sentire la mancanza ma senza cui si può anche proseguire, sebbene di solito la consapevolezza della seconda parte giunga ben in ritardo rispetto al dolore della prima. Percepiva il rimbombo della discussione lì intorno come se provenisse da un’altra città, forse si parlava della prossima gara, di quando Jumbo sarebbe tornato al gol, di quante volte Francesca lo avesse già tradito, di quanti piatti la Manza avesse sottratto al buon Amanzio quella sera senza che lui dicesse nulla. Tutti argomenti possibili, avendo partecipato per anni alle dinamiche di uno spogliatoio. Doveva prendere aria, era stato troppo tempo lì seduto a preoccuparsi di tutto. Risollevò lo sguardo, ora Marta aveva avvicinato a sé la candela, ancora accesa, ma flebile, e giocava con tutta la cera sciolta, tentando di costruire qualcosa. Si avvicinò alla sua posizione di partenza. Mentre si rivestiva del cappotto, dietro la compagna, la squadrò con attenzione. Aveva già raccolto un buon quantitativo di cera della loro candela, ammassandolo e tentando di costruire un omino, ma il busto era sproporzionato, deforme, non era stato amalgamato bene. Le braccia troppo sottili, storte, inadatte a qualsiasi tipo di impiego. Inesistenti le gambe, aveva senza dubbio calcolato male la quantità di cera necessaria per completare l’indiscutibile opera d’arte. Quel piccolo essere inanimato non avrebbe potuto mai muoversi senza l’aiuto di qualcuno. La testa, tonda come una pallina di biliardino, gravava sull’intera accozzaglia, priva di bocca, di occhi, di espressione, di vita. 

Un mostro, insomma.

Le toccò la spalla, mimandole poi con la mano, scostando l’indice dal medio, il gesto di fumare. Come risposta ottenne una domanda: “E’ quella di oggi, giusto?”

Non rispose. Uscì senza zoppicare dopo più di due ore di cena. 

La neve aveva ricoperto tutto. 

Si chinò, ne prese un po’, per poi accartocciarla e scaraventarla lontano.

Si incamminò deciso verso il distributore automatico.

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