Premio racconti nella Rete 2020 “Il respiro” di Paolo Raugei
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2020Non avevo ancora 13 anni che ho percepito il respiro.
Come un torrente turbolento l’ho sentito scorrere dentro di me.
Non era il mio respiro, era quello di mio padre a cui avevano asportato le corde vocali, deviando il respiro dalla bocca al collo e togliendogli la parola: la tracheostomia.
Quella parola, in me adolescente, ha avuto per sempre il significato di una rottura, di una deviazione dalla mia strada. Rappresentava il segno che quel fiume turbolento aveva deviato dentro di me definitivamente il suo corso.
Tornammo dall’ospedale con mia madre, era agosto, lui provato da tre settimane di ricovero. L’ascensore del nostro palazzo si bloccò.
Per ore rimanemmo chiusi dentro, perché mio padre non voleva aiuti. Si vergognava di quella grave menomazione. Mia madre singhiozzava. Il caldo asfissiante toglieva il respiro. La tosse era lacerante: sembrava che il suo respiro si scontrasse con il nuovo foro nel collo.
Mi faceva provare talmente disagio quando partecipava in qualche modo alle nostre trame di ragazzi, che cercai di frequentare amici con genitori ancora più invalidi. Il suo respiro gorgogliante, affannoso, mi pesava come una presenza inattesa.
Il respiro è anche inalare e soffiare. Quando a scuola mi parlarono di cosa voleva dire essere tossicodipendenti, ne afferrai immediatamente il concetto di dipendenza e di grave disagio familiare collegato. Mio padre era dipendente in maniera assoluta dal fumo di sigaretta responsabile del suo tumore delle corde vocali a 50 anni. Dopo l’intervento non poteva più aspirare il fumo normalmente dalla bocca. Chiese allora a me di accendere una sigaretta e fumarla soffiandola verso il collo, verso la sua tracheostomia. Soffiare e inalare. Inalare e soffiare. Questi ricordi in quella stanza a sedere uno di fronte all’altro, dopo più di 40 anni, sono ancora vivi dentro di me: la faccia di mio padre appagata, trasformata, il saporaccio nella mia bocca delle Super senza filtro con quei frammenti di tabacco sulla lingua, l’arrivo di mia madre, inatteso come la nota sbagliata di un accordo. Il sopruso di mio padre fu ritenuto molto più importante del desiderio di farlo felice e il soffio di fumo del mio “ti voglio bene” si perse in un litigio furioso tra loro due.
L’anno successivo, al mare, in Francia. Un calabrone ebbe la malaugurata idea di pungere mio padre proprio in corrispondenza della stomia. Ebbi l’immediata consapevolezza della negazione del respiro. Mi è rimasto dentro il colorito rosso di quegli occhi atterriti, vibranti in quella faccia nera. Sembrava anche a me di esplodere in quegli attimi. Sì, soffocare anch’io ed esplodere, questo è il mio ricordo che ha cancellato tutto il resto per molti minuti durante e dopo.
Mia madre non sapeva guidare. Io sì, mi aveva insegnato mio padre su strade deserte per confermare a se stesso e al suo orgoglio di avere un figlio capace e precoce.
Ora era cianotico, come uno schiaffo comprendevo all’improvviso cosa voleva dire il non respiro.
Dovevo guidare l’auto, un’Alfa Romeo di grossa cilindrata, per condurlo più rapidamente possibile in ospedale. Era lontano da quella spiaggia l’ospedale di Nizza, era difficile guidare velocemente nel traffico, con mia madre che urlava e brandiva fuori dal finestrino il suo foulard vagamente bianco. L’urlo del clacson si confondeva con i rantoli di mio padre. Il foulard bianco le sfuggì poi di mano e restò soltanto il colorito terreo di lui che non respirava più. Anch’io non respiravo. Cercavo di custodire questo bene prezioso non per lui, in nessun modo avrei potuto cederglielo, ma per me. Avevo la disperata speranza che il mio respiro trattenuto potesse sospendere quel passaggio breve tra la vita e la morte. La salvezza di tutta la famiglia doveva essere il mio respiro trattenuto. Ho ora la sensazione che stessi guidando come in un videogioco, allargandomi oltre la striscia continua quando c’era fila o salendo sul marciapiede, sì, con quella stessa leggera frenesia, direi ora, del gesto in sé di vincere qualcosa a un videogioco. La mia vittoria sarebbe stata l’arrivo in ospedale.
Ho conservato per anni quell’articolo in prima pagina del Nice-Matin che mi additava come piccolo/grande eroe salvifico, l’ho conservato tutto scolorito fino a quando non ho più potuto sopportare le mie reliquie.
Il respiro e quelle lacrime di commozione, mie e sue, di Mariella Devia, soprano nella Lucia di Lammermoor, io medico del teatro, in prima fila, a due passi da lei sul palco. Il respiro come canto soave nella famosa scena della pazzia. Pazzia e innamoramento. Aria e suono. Respiro e canto. Lei alla fine accasciata sulla scena con le lacrime agli occhi, il pubblico in piedi, il respiro come grida di acclamazione.
Un’imprecazione torba e pesante come una pozzanghera sporca, sì, anche un’imprecazione è prodotta dal respiro. Accadde quando mi resi conto alcuni giorni dopo di non avere avvertito della morte di mio padre il suo migliore amico fin dall’infanzia. Odiavo visceralmente ogni pensiero che mi potesse distogliere da quel rapporto tagliente che è il dolore di me stesso. Il dolore non fisico, ma altrettanto forte, dell’amputazione di una parte dell’anima. Ma quell’odio era diventato dimenticanza così grave, mortale più della stessa morte.
Ancora il respiro, anni dopo. Luca, con una malattia neurologica degenerativa all’ultimo stadio. Stava per accadere il suo andare via, improprio come “un grido di farfalla”, lui che aveva già superato il limite della vita. Ogni giorno, in quella meravigliosa mezz’ora di auto che dedico a me stesso, vado in trance, inspiro ed espiro profondamente e lentamente fino ad andare altrove “per provare a rivivere certi momenti della mia vita più consapevole con la guida del respiro e farlo diventare un soffio”. Buon viaggio, Luca, grazie di avere insegnato anche a me a viaggiare. I suoi scritti in “Ormai è come un fiume”, saranno per sempre il tesoro per la cura della mia intimità e del mio respiro.
L’assenza del respiro, la sua cancellazione, continuare ad esserci, ma non riuscire a respirare più, secondi senza tempo, spazio che si distacca, si capovolge, vola via come Cosimo, mio figlio, investito da un’auto davanti ai miei occhi. Il suo respiro semplicemente normale, il suo sguardo spaventato, ma lucido. Un miracolo, il mio respiro ora lungo, infinito come un treno di ricordi scappati via. Ora di nuovo uniti l’uno all’altro dal respiro.
Anni dopo, il primo paziente che mi trovo a visitare affetto dal “virus pestifero” dei giorni nostri, il Covid19. E’ un giovane di 39 anni, è stato trasferito oggi dal reparto di Rianimazione, quindi sta guarendo. Mi preoccupo di avere e indossare correttamente tutte le protezioni ed entro nella stanza con l’ecografo. Il paziente ha anche lui l’orifizio artificiale nel collo per aiutare la respirazione, vorrebbe parlare, chiedere, da giorni non può avere contatti con nessuno, forse non sa nemmeno cosa gli sia successo. Tossisce, cerca di parlare e tossisce. Ho paura, ho paura del mio respiro, vorrei trattenerlo per minuti, ho paura che la sua aria entri nella mia, ho le protezioni, ma è difficile proteggersi da questa tosse stizzosa. Ho paura di avvicinarmi mentre accendo lo strumento, ma va fatto. Il mio esame è importante per la vita del paziente. La sua non voce è come quella di mio padre che è lì in quel letto e mi guarda, vuole anche stavolta partecipare alla mia vita. Ho solo 15 minuti per fare tutto, dopo, il rischio di contagio aumenta drammaticamente.
Mi guarda mio padre da quel letto, ma non mi giudica, mi accoglie come in un abbraccio. Non sono più il suo ragazzo/eroe, grande ed esemplare come il personaggio di una favola, ma, tossendo, abbraccia un uomo autentico nella sua fragilità egoistica, vero come il respiro.
Da allora non ispiro quasi più, ma espiro a lungo, lentamente, come l’ultima nota di una sinfonia, senza più paura di me stesso.P
Questo racconto è dedicato ai medici otorinolaringoiatri dell’Ospedale di Prato che, con massimo rischio per loro, tanto hanno fatto durante l’emergenza Covid.
Per non dimenticare. Duro.
Un racconto splendido e terribile. Tocca il cuore.
Avevo già letto opere dell’autore, ancora una volta coinvolgente.
Bellissimo.
Veramente molto bello e toccante! Complimenti
Grazie Paolo per avermi fatto piangere di commozione la mattina di domenica di giugno . . . Un racconto bellissimo che ho letto tutto d’un fiato e poi mi sono accorto di essere in affanno . . .
Molto bello e molto toccante! Complimenti!
Bravo Paolo riesci a far entrare perfettamente il lettore dentro il racconto con il tuo modo di scrivere
Di una profondità eccezionale. Toccante. Talmente ben descritti determinati momenti da credere di essere lì, presenti, durante il loro svolgimento.
Caro Paolo, il respiro è ciò che ci conduce sempre alle verità, gli eventi della vita sono i ponti delle nostre verità… tu ci conduci su quell’Alfa Romeo di grande cilindrata, proprio senza saper guidare, col fiato corto, ma pronti a rischiare, per salvare un vita; grazie Paolo, ogni passaggio è un grazie a chi ha dato tanto e continuerà a dare tanto anche nel dopo Covid.
Mi sono ritrovato a leggerlo trattenendo il respiro. Coinvolgente. Molto bello.
Un racconto toccante che che fa riflettere sulla passione per la vita nel rapporto inteso come simbiosi con l’umanità e il mondo intero.
Complimenti
Commovente e profondo. Bellissimo. Grazie!
Emozionante e coinvolgente come il respiro che attraversa la vita dell’autore e riesce a farci percepire la fragilità del nostro tempo e della nostra umanità, bellissimo.
Durante la lettura di questo brano si avverte la tensione che l’autore aveva in quegli attimi.
Sembra di essere accanto a lui mentre vengono raccontate tutte le azioni, mentre viene raccontato ogni piccolo particolare che rende molto coinvolgente la narrazione.
Il respiro, il titolo, e quello che non si spezza mai durante la lettura, rimane sempre sospeso.
Bellissimo racconto, un brano che trascina, emozionante e molto crudo.
Parole forti ma dosate magistralmente per descrivere sentimenti vissuti che ti permeano nelle vene fin dai primi paragrafi. Impossibile non farsi coinvolgere da un’intensità narrativa magistrale che ti entra nel cuore per risvegliare ricordi ed emozioni soppresse.
Grazie di “cuore” per saperci commuovere e gioire nelle nostre lacrime.
Antonio
Mozzafiato. Scrittura semplice ma densa di significati. Si legge piacevolmente. Bellissimo racconto.
Complimenti vivissimi all’autore: un testo molto coinvolgente e scritto benissimo, tiene davvero con il fiato sospeso…..
Crudo, e veloce come una freccia. Molto bello
Doloroso , tenero , dolcemente lacerante…
Racconto toccante, intenso e scritto col cuore. L’autore sa scrivere molto bene: fluido sintetico ma denso di sentimento. Complimenti
Un racconto che mi ha lasciato senza respiro.
Coinvolgente, intenso, ruvido, liberatorio, commovente, che arriva al cuore.
Grazie per avermi regalato emozioni così forti… non senza lacrime.