Premio Racconti nella Rete 2020″Tempus fugit” di Riccardo Staroccia
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2020Entrò in ufficio il ragazzo nuovo per il suo primo giorno di lavoro, e timbrò il cartellino.
Timbrò il cartellino il secondo giorno. Gli assegnarono una scrivania e un portapenne vuoto.
Timbrò il cartellino, dopo sei giorni, e conobbe i colleghi, in pausa caffè. Gente simpatica e meno simpatica, più o meno come fuori. Il caffè lo faceva Luciana, mettendo una moka enorme su un fornelletto da campeggio. Lo accendeva coi fiammiferi che nascondeva in una tasca del grembiule a fiori.
Timbrò il cartellino con il vestito buono e la camicia che gli aveva stirato la madre.
Timbrò il cartellino, e si mise al lavoro. Cominciava a prendere ritmo nel lavorare le pratiche. Placido Proietti, il suo collega di stanza, risaputo comunista inviso ai padroni, gli diceva di non andare troppo di corsa.
Timbrò il cartellino. “Che vuoi far vedere, che sei bravo?”, lo rimproverava Placido. “Tempo sprecato”, sentenziava sbuffando.
Timbrò il cartellino. Il caffè di Luciana non era il massimo, ma Luciana era una rassicurante presenza materna dentro quei corridoi sterili. I colleghi più anziani affondavano spudoratamente gli occhi nelle sue scollature.
Timbrò il cartellino. Un umorismo grossolano circolava nelle stanze dell’ufficio. Battute banali, sconce, che tuttavia, incredibilmente per lui, risultavano molto divertenti in primis proprio alle signore.
Non timbrò il cartellino: dopo un anno, fu costretto a prendere il suo primo giorno di malattia. Una banale influenza che lo costrinse a letto per quattro giorni. Quando tornò a lavoro, timbrò il cartellino, e Placido Proietti gli fece l’occhiolino, come se avesse finalmente capito come buggerare i padroni.
Timbrò il cartellino, e allestì un piccolo rinfresco nella sala riunioni. Festeggiava i suoi 25 anni. Scartò tre vassoi di paste. Cornetti, ciambelle e – dulcis in fundo – bombe fritte con la crema. Qualcuno ne prese solo metà, per non esagerare. Scese anche il direttore, che gli fece gli auguri con un cenno del capo, senza stringergli la mano. Quando tutti andarono via aiutò Luciana a risistemare tutto, e poi tornò alle sue pratiche. Una radiolina accesa in un angolo trasmetteva Love Will Tear Us Apart dei Joy Division.
Timbrò il cartellino, e prese posto alla scrivania di Placido Proietti, che era stato “promosso” all’ufficio permessi. Promoveatur ut amoveatur, come i cardinali scomodi in Vaticano. Per un bel po’ la sua scrivania rimase vuota e il telefono continuava a squillare.
Timbrò il cartellino. Quel giorno il direttore entrò nella sua stanza senza bussare, poi gli presentò Federica, la sua nuova collega. “Fate i bravi”, disse. “Non fatemi pentire di avervi messo nella stessa stanza”, disse, osservando qualcosa fuori dalla finestra.
Ubi maior minor cessat, pensò lui. Federica arrossì e il direttore andò via.
Timbrò il cartellino. Aveva addosso un profumo nuovo, e la camicia pulita. Era impegnativo avere una bella ragazza a fianco per otto ore al giorno, ma almeno non badava più alle pareti beige.
Timbrò il cartellino. “Da quanto tempo lavori qui?” chiese Federica. “Cinque anni”, rispose lui”. E poi aggiunse, chissà perché: “Ma ho fatto il Liceo Classico”.
Timbrò il cartellino. Luciana andò in pensione. Ci fu una grande festa, con i palloncini e tutto. Il ragazzo si commosse al pensiero del tempo che passa. Panta rei, pensò. Abbracciò Luciana con gli occhi lucidi. “E adesso chi ce lo fa il caffè?”, le chiese.
Timbrò il cartellino. Installarono un distributore automatico di bevande calde nel punto esatto in cui prima stava il fornelletto da campeggio di Luciana. Quando il caffè era pronto emetteva un sinistro bip.
Timbrò il cartellino. In mancanza di mogli e figli, appiccicò la foto di Totò Schillaci alla parete dietro la sua poltrona. Ogni mattina lo pregava di dargli la forza di farsi avanti con Federica, ma l’azzurro si limitava a spalancare gli occhi in un’espressione basita che lo confondeva ulteriormente.
Timbrò il cartellino, dopo due giorni di assenza. Staccò la foto ingiallita di Totò Schillaci e mise una piccola fotografia di sua madre, che lo vegliava con il suo solito sguardo confortante. Era una foto di gruppo, ma quelli delle onoranze funebri l’avevano trasformata in un santino perfetto da distribuire il giorno del funerale. Qualche collega imbarazzato gli fece le condoglianze. Federica lo abbracciò e gli diede un bacio sulla guancia. Lui le annusò i capelli.
Timbrò il cartellino, ma nella notte qualcuno si era introdotto negli uffici, rubando alcuni computer e devastando i locali. Potevano tornarsene a casa, per quel giorno.
Lui fece il giro lungo, a piedi, comprò il giornale e se lo gustò con calma sulla panchina di un parco. Quante vite in giro, mentre lui era chiuso in quella gabbia così beige, pensò. Si guardò da fuori, e si vide invecchiato. Un uomo prossimo ai quaranta che leggeva il giornale su una panchina alle nove di mattina. Gli mancava solo il pane raffermo da dare ai piccioni.
Pensò a Federica: avrebbe potuto approfittare del fuori programma per invitarla a prendere un caffè vero, uno di quelli senza il bip alla fine. Ma ormai erano dieci anni che condividevano l’ufficio beige, e il carpe diem non era mai stato il suo punto di forza.
Timbrò il cartellino. Maggio. Federica aveva un vestitino che lasciava scoperte le gambe fin sopra il ginocchio, e lui non riuscì a lavorare nemmeno una pratica, per quel giorno. Non erano più due ragazzini, ma sentiva solo un profumo di ginestra che gli comprimeva le tempie.
Timbrò il cartellino. Regalarono a tutti i dipendenti una piccola calcolatrice azzurra, con la bandiera italiana e la bandiera europea. Serviva a calcolare il cambio lira/euro. Qualcuno, di nascosto, ne prese più di una.
Timbrò il cartellino. Federica era incinta. No, non di lui. Come al solito aveva accontentato il direttore, ma non il suo istinto. Si tuffò nelle pratiche, per non pensarci. Qualsiasi bisogno avesse Federica, comunque, lui la aiutava, che non si pensasse che sarebbe diventato una canaglia solo perché il seme di quella nuova vita non era il suo.
Timbrò il cartellino. Con una circolare all’attenzione di tutti i dipendenti si comunicava che a decorrere dalla data odierna il cartellino sarebbe diventato “badge”, in ottemperanza alle esigenze di ammodernamento e di adeguamento agli standard europei, scaturite da apposite analisi di mercato effettuate dall’ufficio marketing. Ipse dixit.
Timbrò il badge. Al nono mese di gravidanza, salutò Federica. Non la rivide mai più, dopo il parto. La bambina stava bene.
Timbrò il badge. Il telefono sulla scrivania di Federica continuava a squillare invano.
Timbrò il badge. Fu promosso Supervisore Capo dal nuovo direttore, il quale scontentò molti di coloro che avevano dedicato una vita intera ad adulare il vecchio. Mors tua vita mea. Aveva finalmente un bagno tutto per lui, dove fare le sue cose in santa pace, la mattina, con il giornale poggiato sulle cosce nude.
Timbrò il badge, ma quel giorno nessuno lavorò granché, ché l’Italia aveva vinto i mondiali di calcio in Germania, e c’era da festeggiare.
Timbrò il badge, ma anche quel giorno nessuno lavorò granché: l’Italia era fuori dai mondiali di calcio in Sudafrica, eliminata al primo turno contro la Slovacchia, e c’era da commentare quella ignobile disfatta.
Timbrò il badge. Venne a sapere che Federica aveva due figli adesso. L’aveva incontrata un collega, per caso, al centro commerciale. Non gli mandava nessun saluto personale, solo un generico abbraccio a tutti i colleghi.
Timbrò il badge, e Placido Proietti in mattinata lo chiamò per comunicargli con tono grave che la “compagna” Luciana era deceduta. Andò al funerale, ma era uno dei pochi dell’ufficio. La maggior parte dei colleghi di adesso non avevano conosciuto Luciana. Per loro il caffè era soltanto quello del distributore automatico. In chiesa c’erano per lo più parenti che lui non conosceva.
Timbrò il badge. Si accorse che spesso si ritrovava a raccontare vecchie storie del passato ai colleghi più giovani, con parole che trasportavano un carico di malinconia sproporzionato.
Timbrò il badge. Parcheggiò il suo nuovo fuoristrada nello spazio a lui riservato, il numero 13. Non ebbe la fitta di piacere che immaginava quando da giovane fantasticava sul fatto che avrebbe avuto un posto personale per il suo nuovo fuoristrada.
Timbrò il badge. Mentre saliva in ascensore si rese conto di essere diventato esattamente come i suoi superiori di quando lui era un novellino. Ne aveva assorbito anche i tic: anche lui, ad esempio, aveva il vizio di guardare fuori dalla finestra mentre parlava con qualcuno. Non era codardia, ma un’arrogante dimostrazione di potere.
Timbrò il badge, per l’ultima volta. Fecero un bel rinfresco, ma ne aveva visti troppi per non sapere che l’unica cosa a cui pensavano i presenti era di tornare alle proprie stanze e meglio ancora, dopo qualche ora, alle proprie case. Con un bel discorso ringraziò tutti e fece gli auguri all’azienda.
Alea iacta est, disse, provocando un mormorio di risolini compiaciuti tra i colleghi, che ormai ben conoscevano la sua passione per le citazioni latine.
C’era bisogno di giovani, disse, per affrontare le sfide del futuro.
Poi entrò in ufficio il ragazzo nuovo per il suo primo giorno di lavoro, e timbrò il badge.
La ripetitività del gesto di timbrare il cartellino da parte dell’impiegato modello, il protagonista, rende il racconto piuttosto pesante, ma è in questa pesantezza la sua originalità. In quel rito quotidiano si consuma la vita del protagonista e dei colleghi d’ufficio. Alla fine non rimane niente, la vita è passata e il protagonista si fa da parte per lasciare spazio ai giovani. Bello
E’ la vita!!! Un avvicendarsi, una ruota continua che gira. Bisogna accettare con pazienza. Non è semplice!!!
Rosanna
E’ bello, la vita scorre piano ma con passi veloci che dicono tutto di ciò che accade. Mi ricorda un racconto di uno scrittore famoso, mi ricordo il racconto ma non l’autore. Comunque si legge bene.
Intanto che a elviraspuntarelli le torna in mente l’autore famoso, mi chiedevo:
Ma dovre andrà a finire poi tutto il tempo che passa? Inghiottito per sempre da un badge?
Si ride un po’ amaro.
Forse, a tornare indietro, quella Federica là che faceva scordare le pareti beje…