Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2020 “L’odore della vendetta” di Luigi Giuliano D’Iddio

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2020

Tanti, ma tanti anni fa conobbi una circense. Si faceva chiamare Manola. Aveva i capelli corvini e due smeraldi al centro degli occhi che luccicavano quando, invasa di felicità, si lasciava guidare sul dorso dei cavalli girando in tondo in tondo in tondo.

Tanti, ma tanti anni fa conobbi una circense. Si faceva chiamare Manola. Era bionda, con una treccia che le cadeva lungo la schiena muscolosa. Si lasciava tirare i coltelli dalle lunghe lame addosso senza mai un minimo graffio a scalfire la splendida pelle dorata.

Manola aveva uno sguardo che inceneriva chi osava mancarle di rispetto ma che scioglieva in un mare di dolcezza chi le dedicava poesie ricche di baci.

Un giorno venne in città un ricco uomo di affari. Disse di voler coprire d’oro la città e la sua gente che era davvero semplice, cresciuta nell’umiltà della terra. La nostra era una terra avara che voleva essere coccolata per donare il nettare da portare su tutte le tavole. I filari si perdevano a vista d’occhio nelle campagne della nostra città. Che poi non era una città, ma un lembo di terra schiacciato tra due grandi strade che partivano dall’antica capitale e scendevano verso sud, verso terre ancora più difficili della nostra.

Ricordo i conati che salivano dalle mie budella durante il periodo della vinaccia. Per andare a scuola dovevo passare davanti la cantina sociale e quell’odore forte, acre prendeva possesso delle mie narici fermando il mio passo. I miei sospettarono che la ragione del mio rifiuto di andare a scuola fosse l’incontro con qualche losco figuro durante il tragitto. Per qualche mattina mi fecero seguire di soppiatto da un cugino molto più grande di me e così si convinsero che il losco figuro non esisteva ma che le mie pene erano davvero frutto del fetore degli acini fermentati.

Il pomeriggio di tutti i giorni, terminati i compiti, con gli amici del quartiere andavamo sullo spicchio di terra affianco i filari delle vigne. Su quel fazzoletto di terra trascorrevano i mesi della scuola nei loro carrozzoni le famiglie gitane. Manola era una di loro. Non era una circense, era una giostraia e i cavalli su cui poggiava lo splendido fondoschiena erano quelli della giostrina che i suoi parenti collocavano affianco al calcinculo, quella giostra che ruotava vorticosamente facendo alzare i seggiolini ancorati al fusto centrale. Mia mamma era leggerissima da ragazza e i suoi amici la lanciavano spingendola con le gambe verso il fazzoletto fissato molto in alto. Quanti ne aveva strappati vincendo giri gratis al calcinculo. Manola, e forse non si chiamava neanche Manola ma a me piace ricordarla così, si divertiva ad indossare la parrucca con la treccia bionda tutte le volte che il padre le diceva di aprire il carrozzone del tiro al bersaglio. Tirava su la saracinesca mostrando la sua schiena tonica, perfetta, poi disponeva i barattoli uno sull’altro in modo così leggero che sembrava potessero cadere con un soffio. Quindi adagiava i fucili e i cesti con i pallini sul bancone. Sorridendo con la bocca, ma non con gli occhi, urlava “5 tiri 100 lire” tenendo in una mano un fucile che neanche Calamity Jane.

Quel grido era musica per i cecchini del quartiere che con passo lento ma sicuro lasciavano la carrozza dei pesciolini o la pista delle macchine da scontro per avvicinarsi al regno di Manola la pistolera, come la chiamava Rinaldo, il ragazzino della nostra comitiva che per ben due volte aveva vinto il peluche gigante. La prima volta, tra le grida di festeggiamento di noi tutti, si era voltato e aveva annunciato, ancora con il fucile tra le mani, che avrebbe donato il grosso orsacchiotto a Checca, la sorella di Massimo, l’unica femmina che ogni tanto si univa a noi. La seconda volta, però, aveva smorzato le mie urla di giubilo quando, posando sul bancone il fucile della vittoria, non si era voltato ma lanciando un bacio schioccante in direzione di Manola aveva esclamato “Questa volta per te, principessa!” chiedendole di tenere con sè il peluche e portarlo nella sua carrozza per stringerlo tra le braccia tutte le notti.

Fu per me la scoperta della gelosia, di quel sentimento che pervade il petto stringendo il cuore nella morsa e facendolo sanguinare. Avrei desiderato possedere il dono della mira perfetta per impallinare quei barattoli facendoli rotolare giù dalle assi di metallo su cui erano poggiati. Sognavo di vincere un peluche con le mie sembianze e sentir uscire dalle labbra di Manola “Posso tenerlo con me e abbracciarlo tutte le volte che vorrò?” e, senza dire nulla, con un semplice sorriso, acconsentire alla sua richiesta per poi incrociare lo sguardo ferito, sconfitto di Rinaldo e godere della mia vendetta.

Non sono vendicativo o, per lo meno, non credevo di esserlo.

Come dicevo, i gitani  dalle nostre parti si fermavano solo per il periodo della scuola, poi smontavano tutto e l’estate si spostavano verso il mare, ma non seppi mai dove.

Trascorsero così gli anni finchè giunse un Natale con i suoi profumi, le sue luci e il parco delle giostre diffondeva dai suoi altoparlanti la musica delle feste. Non era particolarmente freddo ma Manola soffriva all’aria aperta tutto il giorno coprendo le sue splendide gambe con calze velate e soprattutto con scaldamuscoli di lana rosa che la rendevano irresistibile. Eravamo entrati in confidenza, mai eccessiva e la mia proverbiale timidezza , nascondendole i sentimenti che provavo, mi rendeva inoffensivo ai suoi occhi e si divertiva così a chiacchierare con me più che con gli altri ragazzi che la corteggiavano con fastidiosa insistenza.

Un pomeriggio, verso il tardi, mi accorsi che aveva gli occhi lucidi. Un lieve sbaffo di rimmel mi rivelò che non poteva essere il freddo. Con molta calma le chiesi cosa succedeva. Mi regalò un sorriso senza proferire nulla. Qualche giorno dopo Massimo, che era figlio di un consigliere comunale di opposizione, ci rivelò un terribile segreto. Il Sindaco, che altri non era che il ricco uomo di affari giunto in città qualche anno prima con la volontà di renderci tutti più ricchi, aveva ottenuto il voto di maggioranza per terminare l’urbanizzazione della città. Il piano prevedeva un insediamento proprio nello spazio concesso durante la scuola ai gitani per le loro giostre. Girava voce che l’orco, come chiamavamo con disprezzo il Sindaco, avesse fatto pressione sul papà di Manola per avere la mano della ragazza in cambio dello stralcio di quell’area dal nuovo piano urbanistico. 

La ragazza era cresciuta, più che maggiorenne, ma lo scarto di età tra i due era ancora tanto. Argomentai così il mio sdegno con gli amici appena venuto a conoscenza dell’indiscrezione. Mi convinsi che le lacrime che avevano rigato il volto di Manola fossero così conseguenza dell’orribile ricatto. Il mio cuore impazziva messo al bivio di una folle doppia opzione: non rivedere mai più Manola ma tante palazzine al posto delle giostre oppure tornare a vedere tutti gli anni i cavalli girare in tondo in tondo in tondo ma anche Manola tra le grinfie dell’orco. 

Non credevo che lo spirito della vendetta fosse così forte, così violento da prenderti l’anima e la mente.

Finirono i festeggiamenti del Natale, andò via l’anno vecchio e ne iniziò uno bisesto con tutte le follie che si dice gli appartengano. Avevo iniziato a lavorare, manco a farlo apposta ad onta della mia pessima mira, presso la bottega d’armi del signor Alfredo. Ogni tanto vendevamo qualche doppietta ai cacciatori ma per lo più cartucce e l’apice degli affari si registrava a ridosso del Capodanno con le lanciarazzo e i botti.

Era la sera del 12 Gennaio e il signor Alfredo mi aveva chiesto la cortesia di riportare il fucile appena riparato al Sindaco che lui, colpito da un fortissimo raffreddore, desiderava andare al caldo a casa appena chiusa la bottega. “Ti prego, domattina all’alba deve andare a caccia, portaglielo a casa tu figliolo” quasi mi implorava sapendo quanto mi costasse quel favore avendo ascoltato le mie continue lamentele sulla guida cittadina.

Snocciolai i pochi chilometri che mi dividevano dalla villa del Sindaco insieme alle parolacce indirizzate al signor Alfredo e allo stesso primo cittadino. Giunto nei pressi della villa vidi le luci accese e il cancello aperto. Scesi dalla macchina impugnando il fucile che Alfredo non aveva riposto nel fodero non so per quale motivo e, preso dalle lamentele per il favore che mi aveva chiesto, avevo dimenticato di chiedergli.

Mi intrufolai nel sentierino oltre il cancello e non sentii nulla. Un silenzio tombale che mai espressione avrebbe potuto essere più azzeccata. Mi chiesi improvvisamente se il Sindaco avesse dei cani nel giardino e ricordai che aveva un cagnone ringhioso e bavoso ma era morto da pochissimi giorni e stava aspettando gliene portassero un altro dall’allevamento del paese vicino. Il ricordo mi rassicurò perchè non volevo utilizzare il fucile del Sindaco per difendere la mia incolumità dai morsi della bestia. 

Arrivato di fronte alla massiccia porta di ingresso alla villa mi appoggiai delicatamente. La porta si spostò lasciando filtrare la luce proveniente, probabilmente, dal salone di ingresso. Ancora silenzio, nessun profumo, solo quella luce. Incerto su cosa fare, provai a chiamare “Sindaco, signor Sindaco, c’è nessuno?” mi venne spontaneo imbracciare il fucile come il sergente dei Marines protagonista dei film di guerra, grande passione di mio padre. Percepii nel naso, allora, un profumo familiare, verso cui provai un certo fastidio. No, non era quello della vinaccia che mi faceva vomitare, ma era quello che il mio naso aveva sentito quando nel sogno avevo vinto il grosso peluche con le mie sembianze e ne avevo fatto dono a Manola dalla lunga treccia bionda. 

Feci qualche passo in avanti, prima lentamente poi, invaso da uno strano coraggio, più deciso. 

Giaceva a terra, supino, schiacciato tra il divano e un piccolo tavolino di vetro. Aveva la gamba destra ripiegata come per dare un colpo di tacco ad un pallone. Aveva un orribile ghigno misto a sorpresa che usciva dai suoi occhi. No, non credo neanche di averlo guardato in faccia perchè venni rapito dal lungo coltello che qualcuno aveva spinto di forza nel cuore dell’orco togliendogli gli ultimi respiri per poi lasciarlo a galleggiare nel suo sangue.

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