Premio Racconti nella Rete 2020 “Un attimo” di Luigi Giuliano D’Iddio
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2020Era un 2 Gennaio di quelli che fanno ridere il cuore, di quelli che indispettiscono l’oscurità dell’inverno con una luce che colora tutto ciò che tocca.
Una piazza ravvivata al centro da qualche aiuola, un’altalena e uno scivolo e contornata da marciapiedi su cui affacciavano i portoni di eleganti palazzetti d’epoca. Su uno di questi trovavano posto anche i tavolini del Bar Plaza.
“Complimenti per l’immane sforzo usato a trovare un nome così originale a questo bar” pensava, assaporando il suo caffè con una punta di panna e di sarcasmo.
Il suo sguardo oscillava tra il lampione, con i fari a led a quell’ora assopiti, al centro della piazza e i passanti che in una girandola di stoffe, lane, sete e nylon dai toni spenti o vivaci andavano a infrangersi sulle sue pupille.
Dall’altra parte della piazza, ondeggiando su vertiginose decollete, un’affascinante dama di mezza età spingeva un passeggino ignorando le urla del bimbo strappato di forza ai giochi del piccolo parco.
Rapito dalla feticistica visione dei tacchi, si sorprese ad indugiare con la mano destra sulla lucida copertina de “Il tamburo dello sciamano” appena acquistato alla libreria dell’angolo e che fremeva di cominciare a sfogliare ma non prima di aver scattato un’istantanea da postare sul social taggandola con #visionialpotere.
Alle sue spalle una coppia abbracciata lasciava il bar chiacchierando
“Vuoi una haribo, tesoro?” le diceva lui guardandola romanticamente
“mmh… no dai che poi mi si incastra in mezzo ai denti e devo fare le fototessera. Su, montiamo in macchina e andiamo che siamo in ritardo” rispondeva lei spingendolo delicatamente in avanti.
Lo scambio tra i due lo invitò ad accarezzarsi il palato con la lingua come faceva sempre prima di infilarsi in bocca la goleador tirandola via dall’involucro con i denti. E come sempre poi se ne pentiva pensando al numero di microbi che quel gesto gli faceva inghiottire.
Finalmente calmo, il bimbo nel passeggino si avvicinava insieme alla mamma dopo aver attraversato la piazza, mentre la coppia del bar entrava nell’auto parcheggiata quasi sulle strisce e accendeva il motore.
Il cellulare, poggiato sul tavolino, cominciò a sussultare avvisandolo di una chiamata in arrivo. Afferrato un momento prima di precipitare a terra, se lo portò all’orecchio e pronunciò
“Elio, carissimo, come stai?”
Dall’altra parte la voce intensa e coinvolgente dell’amico gli domandò dove fosse e come andava.
“Stamani ho dovuto implorare i poteri del power yoga per riequilibrare la nottata agitata da una grossa incazzatura al telefono con Samy ieri sera e…”
“E dove sarebbe la novità, Pietro?” lo interruppe con una sonora risata Elio
“Lo stesso carattere e gli stessi gusti di merda della madre, accidenti, col solo fatto che da mia figlia non posso divorziare” replicò infastidito Pietro.
All’improvviso un breve ma forte stridore di gomme sull’asfalto seguito immediatamente da un urlo interruppe la loro conversazione.
“Un attimo, solo un attimo ancora e un coglione avrebbe travolto una signora col suo bimbo nel passeggino, Elio! E tutto per andare a fare delle fototessera con la sua tipa! Qui, davanti ai miei occhi” Pietro descrisse animosamente al telefono il dramma appena sfiorato.
“Beh, tutto è bene quel che finisce bene, Pietro”
“Ehy, parli come mia nonna Adele che aveva sempre un adagio per ogni evenienza”
“Eh eh… allora Pietro, ti ho chiamato per ricordarti di domani sera, ti aspetto a cena, vieni quando vuoi. E dai un bacio a Samy, sono sicuro che entro stasera vi vedrete”, proseguì Elio mentre Pietro lo immaginava sorridere ammiccante, ”questa volta l’indovino voglio farlo io”.
“Per indovinare il futuro devi saper cogliere gli attimi e non c’è futuro senza attimo”
Un microscopico silenzio seguito da una fragorosa risata di entrambi accolse l’estemporanea e strampalata massima coniata da Pietro.
Si scambiarono i saluti e Pietro riportò il cellulare sul tavolino pensando alle ultime parole dell’amico.
Per gioco più che per convinzione amava infatti fantasticare sul futuro ed era forse questa innocente divagazione a donargli l’ottimismo che aveva sempre innervosito la madre di Samy, capace di toccare il cielo solo quando infilava i piedi nelle sue tacco 12.
Il tacco 12 che gli aveva fatto perdere la testa a 25 anni come il tacco 12 che tre anni prima aveva visto toccare terra uscendo dal taxi dopo aver baciato languidamente il dottor Malpieri, il capo della madre di Samanta.
Non aveva fatto scenate, aveva spento lo stupore immaginando che il nylon che fasciava quella caviglia appartenesse ad un odiosissimo gambaletto; poi, recatosi al loro appartamento, aveva gettato poche cose in un trolley ed era andato via portandosi dietro la scatola di lettere scritte ma mai spedite da suo padre.
Strano vizio quello del padre, che Pietro aveva ben pensato di ereditare passando tante serate estive armato di rum della Martinica, del castano raffinato dei toscanelli ma soprattutto di penna e fogli da vergare per una corrispondenza abortita. In aggiunta, rispetto al padre, si faceva prendere dal fascino perverso di prendere in mano quelle lettere e rileggerle a distanza di 3 anni.
Suo padre Jeff Curtis, che di inglese gli aveva lasciato solo il cognome per fortuna e non la malsana abitudine di indossare i sandali con il calzino corto di cotone rigorosamente bianco, che schifo!
Le parole di Elio aprirono anche lo scrigno della memoria legata a Samy e Pietro si accorse di non ricordare quando le era caduto il primo dentino e come ricompensa aveva chiesto di portarla al cinema a vedere un cartone mieloso come gli odiosi film romantici che amava sua madre; o di quando per lavarle via dalle mani le macchie lasciate dai pennarelli si inzuppava i polsini della camicia e doveva correre a cambiarsi per la fastidiosa sensazione di bagnato che provava.
Non ricordava neanche quando Samy, avrà avuto sì e no 3 anni, piombò in lacrime a casa con una mantide religiosa nel fazzoletto pregandolo di salvare il povero animaletto, lui che appena scorgeva una mantide o una cicala veniva travolto da brividi di ribrezzo e tratteneva a stento un urlo;
ricordava, perfettamente, però, quando con Samanta e sua madre al Guggenheim si erano fermati ad ammirare quel quadro di Picasso che esprimeva tutto lo stress e le fatiche del lavoro e la ragazza, colta da un momento di tenerezza giunto a spezzare il suo vigore adolescenziale, gli regalò una carezza disegnando un parallelo tra il grigiore della donna che stirava e quello di suo padre autista del direttore di un giornale.
Il frastuono di una bottiglia caduta a terra da un tavolino vicino lo risvegliò dal torpore dei ricordi e gli fece balenare la domanda “Quante bottiglie mi sono rimaste in cantina?”
Era indeciso se portare 2 o 3 bottiglie di Pinot da Elio per ringraziarlo dell’invito a cena. Dannazione, questa indecisione sulle quantità ogni volta… “Pensi che qualcuno abbia qualcosa da rinfacciarti?”
Elio non era “qualcuno”, era stato il suo salvatore dopo che Pietro aveva visto la saracinesca del quotidiano per cui lavorava abbassarsi per l’ultima volta, travolto dal fallimento. Elio era il direttore del quotidiano che Pietro scarrozzava in lungo e in largo e che, dopo la chiusura del giornale, gli aveva chiesto di seguirlo nel suo nuovo incarico promettendogli un aumento di stipendio.
Elio era l’amico che durante gli spostamenti in auto gli sedeva affianco e mangiava i biscotti scartati da Pietro perché spezzati o solo sbrecciati. In cambio, a fine settembre, Elio pretendeva da lui solo un aiuto a vendemmiare quei pochi filari di vite che aveva deciso di coltivare affianco lo splendido casolare vicino Orvieto, acquistato appena andato in pensione.
Elio era inconsapevole che l’affetto provato nei suoi confronti era così elevato da essere uno dei pochi di fronte al quale Pietro riuscisse a mangiare senza problemi.
Durante la cena del giorno dopo Pietro gli avrebbe raccontato la breve vacanza natalizia appena trascorsa.
Da quando, giunto alla stazione di Piacenza, aveva trovato ad attenderlo Janet, la personal trainer rimorchiata sul social con la scusa di avere lo stesso cognome. Di come aveva strabuzzato gli occhi ammirando il maestoso tacco 12 che Janet aveva indossato assecondando il desiderio confessato con malizia durante le chattate.
E quando, usciti dal locale, durante quella che sarebbe rimasta l’indimenticabile passeggiata notturna di un 24 dicembre, Janet lo aveva eccitato baciandolo non sulla bocca ma indugiando con le labbra sulla voglia a forma di cuore che Pietro ha sul polso della mano destra.
Quel fugace ricordo stava risvegliando il vortice erotico che gli regalava piacevoli brividi interiori e concluse che era giunto il momento di pagare il caffè e avviarsi verso casa.
Improvvisamente una Smart irruppe sulla piazza ad una velocità tale da spingere giù dal sedile il cellulare della biondina che impugnava il volante;
il dolce sorriso stampato sulle sue labbra, nato dal pensiero, anzi, dalla certezza di sapersi far perdonare dal padre per la burrascosa litigata avuta la sera prima, si trasformò in una smorfia incazzata;
Pietro, sollevatosi dalla sedia, si spostava in avanti verso il ciglio del marciapiedi col pensiero di dimenticare qualcosa; la mania di dover render conto dei suoi gesti lo stava spingendo a tornare verso il tavolo a lasciare la mancia;
la ragazza, inferocita, lasciò il volante nella sola mano sinistra allungandosi alla ricerca del cellulare finito sotto il cruscotto;
Pietro, lasciandosi convincere una volta tanto dall’orgoglio e scacciando l’idea della mancia, si spostava deciso verso il centro della piazza rassicurato dalle strisce pedonali e non scorgendo l’ombra rombante incombente su di lui;
la biondina, annaspando con la mano sul tappetino, allarmata da un’ombra oltre il parabrezza, cercò di spostare il piede verso il freno, ma il maledetto tacco 12 si era andato ad incastrare;
fu un attimo, un maledetto attimo per entrambi.