Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2020 “Alise” di Bianca

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2020

La prima cosa che ricordo è che galleggiavo, che è sempre stata l’unica cosa davvero importante. Il calpestio allegro di una bambina e di suo fratello sulle mie robuste assi di mogano risuonavano sordi su tutto il fasciame. I tuffi scomposti e i richiami degli adulti. Briciole di panini improvvisati e molliche gettate alla voracità dei pesci. A fine stagione, la salsedine aveva corroso il bordo, il corrimano, le traverse, il timone. I parabordi erano sgonfi, le fiancate sporche di catrame e punzonate qua e là dalle imprudenti manovre dei diportisti. Ma all’inizio dell’estate successiva, mani sapienti mi restituivano al mare in perfetto ordine. Ero grande e pesante, la gente mi guardava e diceva che ero bellissima. Non che ci badassi, per me l’essenziale era galleggiare.

Poi, alla fine di un agosto torrido, una gru mi staccò dal pelo dell’acqua. È morto il proprietario, dicevano, la vedova ha due bambini, non può più tenerla.

Un signore premuroso mi sistemò su un carrello e mi portò in un terreno, all’ombra di un querceto. Passarono gli anni.

Ogni tanto, il signore e la bambina venivano a trovarmi. Lei lo chiamava “zio”, e gli faceva domande su di me, mentre toccava il mio legno tarlato, la prua umiliata dalla resina degli alberi, i miei fianchi asciutti. Poi, si passava la mano sugli occhi e quando tornava a posarla umida sul mio fianco, era salata, come l’acqua del mare. Ogni anno la bambina era un po’ più grande e il signore un po’ più bianco. Venivano sempre da me, ma alla fine mi lasciavano lì, all’ombra degli alberi, secca e inutile.

Trascorsero così circa trent’anni.

Finché, un giorno, il signore venne con altri uomini, mi agganciarono a un fuoristrada e mi portarono sotto un capannone, in una campagna assolata. Piallavano le mie assi putride, sentivo le loro mani nel mio ventre scuro e popolato da insetti, le loro tenaglie sul mio motore inchiodato dal tempo.

Quando mi riportarono in mare, non mi riconobbe nessuno. Solo la bambina, che adesso era grande, sembrava abbracciarmi coi suoi occhi larghi e liquidi, mentre io dondolavo piano, trattenuta da una cima legata alla bitta del molo. Il mio scafo tirato a lucido si impregnava di sale, le onde si aprivano sotto la lama sorridente della mia chiglia verniciata di fresco. Galleggiavo. E questo era molto importante.

A fine settembre mi portavano nel rimessaggio, al riparo dalla furia dello scirocco. Dormivo tutto l’inverno. All’inizio dell’estate, quando l’antivegetativo mi solleticava la chiglia, capivo che sarei presto tornata in porto. La bambina grande si prendeva cura di me. Controllava che il serbatoio fosse pieno e la batteria carica, grattava via le alghe dall’elica, teneva in ordine il gavone. Se il mare era calmo, scivolavo sull’acqua al ritmo costante del mio entrobordo, che rimbombava nella penombra delle grotte della scogliera, buie e fresche come cattedrali. Durante le violente mareggiate di fine estate, rimanevo ormeggiata nel porticciolo, in attesa che il vento si posasse il tempo necessario a farmi raggiungere l’alaggio del porto grande, per tornare a dormire sul mio carrello.

Ora è di nuovo estate, ma nessuno è venuto a prendermi per calarmi in acqua. Con me nel rimessaggio ci sono solo una vecchia deriva con l’albero spezzato e un gommone con i tubolari sgonfi. Sono in vendita, dicono. La bambina grande non può più tenermi. È andata a vivere in un posto lontano, dove il mare è ruvido e nero, non ci si può tuffare dentro e servono le ruote per navigarci.

Ieri è venuta a trovarmi. Sembrava di nuovo piccola. È salita sul carrello e si è arrampicata a bordo. Ha ripulito il prendisole dalla polvere dell’inverno e ha sistemato con cura i cuscini. Ha controllato qualcosa nel gavone e poi è rimasta inginocchiata a prua per un po’, era il suo posto preferito. Mi ha accarezzato, come si fa con i cavalli. Chissà se i cavalli muoiono, se non galoppano. Io certo muoio, se non galleggio. Dai suoi occhi larghi è caduta una goccia e mi ha solleticato il bordo; aveva lo stesso sapore della sua mano umida, quando veniva a trovarmi nel bosco. Alla fine è scesa a terra, il carrello ha ondeggiato e, per un attimo, ho pensato di essere sul mare. Poi ho sentito il rumore di un’auto che si allontanava. Poi solo le cicale.

Sono rimasta nella penombra, con quella goccia salata sul bordo, che evaporava rapidamente sotto la calura estiva, lasciando un alone biancastro, come succede agli spruzzi delle onde che sferzano la prua, quando la tramontana forte non lascia loro il tempo di posarsi troppo a lungo.

Loading

8 commenti »

  1. Non c’è nulla di banale, di scontato, di prevedibile in questo racconto: mi ha colpito.
    Originale il punto di vista della barca. È tutto triste, come una barca abbandonata ma anche tutto bello come il mare.
    Questo passaggio, per me, è straordinario: “È andata a vivere in un posto lontano, dove il mare è ruvido e nero, non ci si può tuffare dentro e servono le ruote per navigarci”.

  2. Meraviglioso racconto. Sarà che mare e tutto ciò che vuol dire mare mi affascina, però no, in questo caso è veramente bello. Bello il punto di vista e anche molto insolito, linguaggio semplice ed efficace, pulito, senza sbavature. Molto molto bello. Complimenti.

  3. Caspita, grazie! 🙂

  4. Intrigante e scritto benissimo, complimenti!

  5. Grazie mille. 🙂

  6. Mi hanno colpito molto sia la puntualità dei termini utilizzati sia le immagini evocate, davvero complimenti!

  7. Grazie, Alessandro!

  8. Bello, veramente bello e poetico…

Lascia un commento

Devi essere registrato per lasciare un commento.