Premio Racconti nella Rete 2020 “Don Arrigo” di Marilina Giaquinta
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2020L’albergo era stretto lungo e giallo e sgomitava tra un presepe di vecchie case che sembravano separate tra di loro solo dai panni stesi, tanto si stavano addosso a rubarsi l’aria, stoffe dalle forme colorate pendevano da balconielli che linguavano quasi ad assaggiare il tempo e immobili stavano perché lì dentro il vento non poteva entrarci.
La piazzetta era piccola e ingombra, e non solo dell’albergo e non solo dell’assedio delle auto e non solo del formicare della gente, e il cielo che si apriva tra i palazzi era rigato da tisici e mosci fili della luce da cui ciondolavano lampade come rubate a vecchi lampioni. Sporgeva verso la strada larga e veloce un piccolo chiosco di bibite incappellato da una cupoletta piramidale, davanti al quale sedevano, accomodati su sedie di plastica bianca, come quelle messe lì nei lidi, per godersi il sole e sgocciolare di mare, una quaterna di vecchini che in silenzio guardavano fissi l’ipnotico passaggio di auto lungo il corso largo e rettifilo tagliato in due da new jersey di cemento giallo ad evitare che qualche audace si schiantasse contro chi aveva incautamente intrapreso il cammino inverso al suo.
Sul marciapiedi, davanti a un negozio di scarpe a buon mercato, che mostrava in vetrina tacchi metallizzati e inesorabili e lo scintillio di guarnizioni di plastica dodecaedrica, quasi a conferirle suggerimento di cerimonia, una famiglia si aggirava intorno a una bancarella in cui svettava una collinetta disordinata di boccette di profumi, quei campioni omaggio che nei negozi di solito sono offerti al cliente come promessa di ritorno e fedeltà al consumo: in cima un cartello esibiva un prezzo irrisorio, tracciato da mano incerta, che avrebbe dovuto allettare all’acquisto. Il padre stava seduto a vigilare sulla vendita, mentre i bambini giocavano a lanciarsi una palla piccola e sgargiante come i capelli della madre che lungo le punte conservavano ancora le tracce fiammanti di un rosso che un tempo copriva le radici e che adesso accondiscendeva a mostrare la sconfitta di qualche filo d’argento. La donna, carminia anche nelle vesti, era intenta a spazzare il marciapiedi con estrema energia e cura, come se fosse il pavimento di casa, e lo lindava, infilando le setole negli interstizi e ripassando con forza per snidare ogni granello di polvere.
Poco distante, nella piazzetta, in mezzo alle auto in sosta, si faceva largo un tavolino bianco di plastica, sciancato da un lato, così leggero che un soffio di vento lo avrebbe ribaltato e fatto voltolare nell’aria come carta di giornale, intorno al quale sedevano quattro ragazzetti, due intenti a guardare e gli altri concentrati a giocare una partita a scacchi. La colpì, a parte la severità dei volti che contrastava con l’innocenza della loro età, il colore degli scarpini che portavano ai piedi, un rosso fragola con il quale, pensò, il loro attaccante del cuore aveva segnato goal leggendari: penzolavano inerti sotto il tavolo, anche loro tesi a studiare le mosse, brillanti e infuocati ad accendere quel pomeriggio lattiginoso, in cui l’aria era così stanca che si appiccicava addosso e la città arrancava lungo una delle sue infinite salite e diradava la colpa di non bastare mai, di non riuscire a essere compiuta, come se avesse mancato per sempre il proprio destino e ora vivesse per caso o avventura o scommessa e, a volte, per quel che capitava.
Tirò la valigia verso l’ingresso, ma la porta scorrevole non si aprì, nonostante il gradino su cui era salita recasse una scritta di cordiale benvenuto. Vide attraverso i vetri un giovane sonnecchiare dietro una postazione stretta e curva, nascosto appena dallo schermo di un computer. Il ragazzo ricambiò il suo sguardo ma non si alzò: aspettò che lei salisse e scendesse dallo scalino più volte, confidando che il peso avrebbe fatto scattare il meccanismo di scorrimento della porta. Uscì fuori dal bancone solo dopo alcuni tentativi andati a vuoto e con movimenti rallentati, che tradivano una fatica quasi primordiale, allungò la mano verso il muro e girò la chiave per sbloccare il meccanismo.
Il caldo gli aveva fatto appendere la giacca nera lungo la spalliera della seggiola e stava in maniche di camicia, una camiciola bianca e lisa di un tessuto sintetico che le ricordò il terital in uso quando era bambina, comodo da stirare: era smilzo e guardandolo si sorprese a pensare che quella magrezza gli fosse necessaria per infilarsi dentro quel cubicolo, che lo avessero assunto solo perché sembrava modellato per stare lì dentro, che non c’era spazio in quel locale e in quella reception per uno di taglia più grande e forma diversa. Portava i capelli lunghi, rasati intorno alle orecchie, e tirati indietro con un elastico che li tratteneva dentro una coda lunga, lucida e nera, pettinata con cura e impiego di tempo. Lei pensò che doveva tenere assai a quei capelli, che manteneva lucenti e morbidi, pensò che avesse il vezzo di farseli sciogliere nei momenti dell’amore, dalle donne che ci avevano poi affondato le mani e lui il piacere, che l’avevano addormentato e poi di colpo piantato.
Mostrò il voucher e il documento che lui ghermì indolente, come se le stesse facendo una cortesia, lesse svogliatamente i dati, li verificò con quelli inseriti al computer; quindi si girò con la stessa interminabile lentezza verso le caselle di legno in cui erano appese le chiavi delle camere e gliene porse una con un portachiavi di cuoio scuro su cui era stato dipinto il numero della stanza.
“Primo piano… ascensore a destra” sibilò in modo che lei intuisse le sue parole piuttosto che sentirle, come se non fossero affari suoi, omettendo ogni volta il soggetto o il verbo o l’articolo perché tanto era inutile o scontato o evidente e comunque a lui non interessava.
Mentre si allontanava, la percorse con lo sguardo senza timore che lei se ne accorgesse, come se stesse valutando se valeva la pena sciogliere la coda per lei: aveva un vestitino smilzo e nero, così leggero da lasciar trasparire le forme e tutto quello che a stento ricopriva, gambe lunghe, tornite e leggermente brunite e sandali alti che le mettevano in rilievo qualche vena stanca di stare in piedi. In quel pomeriggio letargico, dove anche i vichi che contornavano l’albergo stavano muti, lui custode unico e annoiato di un posto deserto di ospiti e di stanze, l’avrebbe presa proprio lì in quell’angolo cieco che non si faceva vedere da nessuna parte, dietro il bancone, proprio lì dove di solito si cambiava, lungo quella parete dove si appoggiava per tirarsi su i calzoni della divisa e non perder l’equilibrio, avrebbe fissato i suoi occhi stanchi del viaggio o di qualcos’altro che li rendeva drammatici di sconforto, avrebbe dimenticato quel bancone di formica e il suo istmo che a stento ce lo teneva dentro, il dovere del pane, la fortuna di quel lavoro che suo padre gli rinfacciava ogni volta che lui provava a dirgli che voleva andare via, perché aveva penato tanto per trovarglielo e aveva accettato, pur di sistemarlo, di scomodare l’inquilino del piano di sopra, che non gli era mai piaciuto, che non usciva di casa, dicevano che non poteva prendere l’ascensore perché soffriva di una strana malattia che lo faceva soffocare e si strozzava da solo, con l’aria stessa, strano, lui pensava, quell’aria che lo faceva vivere, dentro un luogo chiuso invece lo strangolava, e stava sempre, d’estate e d’inverno, con le finestre spalancate come se la sua casa si prendesse tutta l’aria di cui lui aveva bisogno e lui allora ne faceva entrare dell’altra e quando c’era vento si sentiva cantarlo le arie, dicevano che era finalmente felice, che poteva usare quel fiato che altrimenti risparmiava e teneva chiuso dentro di sé.
Per questo motivo, non parlava mai. Ascoltava, però, ascoltava tutti con attenzione, guardava così fisso che sembrava ascoltare cogli occhi. Seduto su una bergere di velluto rosso rivolta verso il balcone, inondato dalla luce che proveniva dal cielo e coi lineamenti effusi dalla strana aureola che formava il suo controluce, ascoltava, in silenzio, tirando respiri così profondi che sembravano provenire dall’inferno, e che gli sommuovevano il busto e lo allungavano verso la luce come la clorofilla di un albero, e lo spezzavano in due come se fosse composto da due parti tra loro indipendenti: quella superiore che si alzava e si abbassava a mantice e quella inferiore immobile, le gambe austere e solenni come le statue pensose dei giardini pubblici o dei cimiteri, fissità che gli conferiva una aurea funebre e faceva credere ai vicini che fosse una specie di spiritello benefico, una entità tutelare, un penate del quartiere sul quale vigilava dall’ultimo piano, muto eppure eloquente in quello sguardo che quando s’affissava non c’era modo di toglierselo di dosso.
Don Arrigo, si chiamava così, era così magro che sembrava che la sua persona fosse fatta non di muscoli e ossa, ma d’aria, di quell’aria che gli mancava o non gli bastava mai: eppure mangiava, mangiava tanto. Passava tutto il giorno a spizzicare, mangiucchiare, giravoltarsi nella bocca, succhiare, sciogliere, ruminare con la mandibola morbida e centripeta, e sempre un po’ di bolo nel palato, le leccornie che la fedele Alfonsina, sua balia, da nato da puerpera arida, e ora sua nutrice da vecchio, gli apparecchiava sul tavolino accanto alla poltrona.
Lo aveva ricevuto subito, suo padre, lo aveva fatto accomodare e gli aveva offerto il caffè, forte e nero, di quello che rimane in bocca fino a quando svanisce il ricordo ma non il suo sapore. Il caffè di Don Arrigo rimaneva per sempre: quando eri arrivato alla sua porta, avevi suonato il suo campanello, ti eri seduto sul suo divano e avevi la sua tazzinella in mano e il fumo non aveva manco il tempo di salire che subito veniva inghiottito dalla finestra aperta e andava a odorare l’umida ombra dei vichi, quando con lo sguardo basso cercavi le parole per chiedergli la cortesia, un intervento, l’indicazione di una conoscenza, avevi esposto il problema, gli avevi parlato di questo unico figlio che non vuole studiare e che ha sempre in testa la musica, quella degli altri, perché lui non la sa suonare, e che stava diventando grande e il tempo gli passava davanti e anche le sue speranze di padre di vederlo con un lavoro stabile e un fisso alla fine di ogni mese, come il suo che non era gran che ma gli aveva permesso di vivere e di crescere questo figlio che non vuole fare niente, allora quel caffè era l’ultima cosa che avresti ricordato prima di morire.
Don Arrigo la prego lei mi deve aiutare altrimenti questo guaglione s’ammala, a volte non s’alza manco dal letto, dice che s’affatica, che è sforzo inutile, che non serve a niente lavarsi e vestirsi, perché poi non c’è niente da fare e sua madre mi piange ogni giorno di nascosto e si mette paura e gli porta il pranzo a letto e pure la cena. Anzi, davanti alla porta, gli lascia il piatto, perché lui sta con la porta chiusa e non vuole uscire. Dice che lì dentro ha tutto e che non gli serve niente e non sappiamo come fare. Gli parliamo attraverso la porta, cerchiamo di farlo uscire, ma lì dietro c’è solo silenzio, non lo sentiamo neanche respirare e qui si ferma suo padre per un attimo, ma uno lungo che sembra eterno perché non può parlare di “respiro” a Don Arrigo, perché lui subito si mette in agitazione e controlla che il suo funzioni e ne tira uno profondo per vedere che l’aria ci sia nella giusta quantità, che l’ospite non gliene stia respirando più di quella che a lui occorre, non gli stia prendendo tutta l’aria. Allora chiama Alfonsina e le chiede se tutte le finestre della casa sono aperte, le ordina di fare il giro e di assicurarsi che non trovi inciampo, che l’aria circoli, che l’aria abbondi, che ci sia una corrente come quella del mare, che lui lì il mare non lo può avere e Alfonsina fa il giro di tutte le stanze, di tutta la casa e verifica e ritorna e “statevi tranquillo” che è tutt’aperto. E Don Arrigo dice a suo padre di andarsene e di aspettare una sua risposta, che non avrebbe tardato a farsi sentire, che doveva stare sereno, che avrebbe pensato lui a suo figlio, che di certo una soluzione si sarebbe trovata, che non doveva preoccuparsi, e che ora era stanco e che voleva riposare. E si era messo un acino d’uva in bocca, di quella bianca e lungarina, che è la più dolce e prelibata, la regina di tutte le uve, diceva Don Arrigo, e se la scioglieva come una caramella, la guancia sinistra bitorzoluta mentre il suo profilo inalava avido il pulviscolo che danzava nella penombra della stanza.
Ed era stato di parola e gli aveva trovato quel posto in quell’albergo, nello stesso quartiere in cui abitava, che il proprietario era un amico di Don Arrigo che a lui doveva un grosso favore; un posto comodo, a lato alla casa, e così non c’era bisogno di prendere la macchina, che tanto lui non ce l’aveva, che poteva alzarsi anche un po’ più tardi la mattina, che aveva anche il tempo di fare colazione, pettinarsi i capelli, anzi lustrarseli, con la spazzola, come fanno le femmine, che era un poco preoccupato anche per questo, non sembrava mostrare mai interesse all’argomento, a volte lui aveva tentato con qualche allusione, qualche ammiccamento, qualche doppio senso spinto e s’era beccato un’occhiataccia fulminante dalla moglie, che poi la sera gliel’aveva fatta pure pagare sottraendosi ai suoi assalti amorosi e venendo meno ai doveri coniugali, cosa che, a dir la verità, faceva spesso, accusandolo di essere posseduto dal demonio perché stava sempre lì a tentarla con quel peccato, che però lui aveva sempre avuto l’impressione che a lei molto piacesse, perché poi alla fine, quando cedeva quasi a fargli una cortesia, per farlo sfogare pover’uomo dopo un’intera giornata a sgobbare, era lei che all’orecchio gli diceva quello che doveva fare. E lui allora le perdonava tutto, tutto quanto, anche quello che ancora doveva sbagliare.
E si chiedeva da chi avesse preso quel figlio così apatico, che parlava poco, che anzi stava muto, che non cercava femmine, che a quell’età, invece, doveva essere una malattia, che stava sempre ad ascoltare musica e a passeggiare per i vichi con la testa per aria a cercare la striscia di cielo che non riusciva a imbucarsi tra i tetti e stava sospesa, come un manto benedicente, e che ora sarebbe stato pagato per oziare, stare seduto ad aspettare, in quel silenzio che gli piaceva tanto, rotto solo dalle note della sua musica.
E grazie Don Arrigo, grazie assai, avete ridato la vita alla mia famiglia, grazie anche a nome di mia moglie che ora se deve piangere, piange di troppa gioia, e dice le preghiere pure per voi, ha preso una “mortella” pure per voi e sapete quant’è bella l’icona? La più bella di tutti, anche di quella di nostro figlio che non sapete quanto è diligente al lavoro, e quanti complimenti si è preso per la sua precisione e la sua onestà e non si muove, no, sta sempre al suo posto e sta attento a chi entra e si fa i fatti suoi e non parla, se non è necessario, ma poi è gentile coi turisti, l’hanno ringraziato pure sul libro di cortesia, sì proprio lui, hanno scritto il suo nome perché lui li aiuta quando hanno bisogno, non se lo fa chiedere, porta le valige fino alla camera, e vedesse che mance Don Arrigo che gli danno e le clienti gli fanno pure gli occhi dolci, perché diciamoci la verità, Don Arrigo, è pure ‘nu bello guaglione, e come indossa quella divisa di portiere, sembra un fotomodello. Sua madre gliela lava e gliela stira di continuo per fargli fare bella figura e gli lucida tutte le sere le scarpe che sembrano di vernice tanto sono state ripassate con la bruscia. Don Arrigo siete stato l’angelo della provvidenza, avete salvato la vita di mio figlio e di tutta la mia famiglia, io non so come ringraziarvi, come sdebitarmi di fronte alla vostra generosità.
Don Arrigo non parlava e suo padre non sapeva più cosa dire. Andatevene e state attento a che vostro figlio non combini fesserie e, se avrò bisogno di lui, vi chiamerò, potete starne certo, che io sono un uomo solo e malato e degli amici ho più bisogno degli altri.
E suo padre gli aveva raccomandato di stare attento, di fare la persona seria, di non mettersi nei guai, che un posto come quello se lo sognava, e forse era meglio che smetteva di avere quelle fantasie su quella bionda, che magari aveva colto il suo sguardo impudente e se ne sarebbe lamentata con la direzione e lui avrebbe dovuto giustificarsi e magari quel fatto sarebbe arrivato alle orecchie di Don Arrigo che si sarebbe arrabbiato e magari quel posto l’avrebbe dato ad un altro. Non ne valeva la pena. Riprese a sfogliare il catalogo di viaggi perché a Natale sarebbe partito, sarebbe andato lontano, un lontano che ancora lui non conosceva, ma doveva essere il più lontano di tutti.