Premio Racconti nella Rete 2010 “Una bizzarra sentenza” di Gabriella Santaniello
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2010Vincenzo Merlo, conosciuto da tutti nella zona di San Fratello come don Cecè, si apprestava, come ogni giovedi nell’ora del meriggio, a preparare con cura sotto lo sguardo custode di Siccia il suo bassotto nero, la buggiacca*1.
Ripassando meticolosamente l’inventario si ricordò, come trafitto da una folgore, che il giovedi era il giorno della caccia al coniglio selvatico, quindi, avrebbe dovuto portare il fucile a canna rigata.
La caccia, per don Cecè, era come andare in battaglia, una manifestazione di prodezza e coraggio. Giravano addirittura voci sul fatto che, prima di imbracciare il fucile solesse esclamare impettito: “frangar, non flectar!” in preda ad uno stato allucinatorio, credendosi un impavido condottiero romano.
Uno dei suoi momenti preferiti era, durante il tragitto, passare per quella mulattiera tra San Fratello e Troina, che sovrastata dalle fronde dei rossi castagni, sembrava un bucolico arco di trionfo, mentre lui, orgoglioso, lo attraversava come un moderno Napoleone, trasfigurando, con le sue fervide doti immaginative, il tozzo Siccia in un cavallo bianchissimo.
“Niuru come ‘na Siccia*2” fu la prima esclamazione che Cecè pronunciò quando Peppe, suo cugino di Viagrande, glielo regalò per sdebitarsi di una damigiana di vino.
Ormai era diventato un amico discreto, il suo compagno di avventura, un prode commilitone.
Quel giorno la frizzante brezza autunnale liberava odori antichi e inebrianti, come quello del muschio o della legna arsa, che riportava Cecè al tempo dilatato e crepuscolare dell’infanzia.
Nel frattempo Cesarò si era improvvisamente svelata ai loro occhi, dolce e sublime epifania di fitti boschi, e senza perder tempo, imbracciato il fucile al suono ideale di un corno, si aprivano le danze.
Dopo qualche ora, Cecè era sicuro che avrebbe ricordato quel pomeriggio per sempre; mai infatti aveva cacciato così tanta selvaggina in un sol giorno.
In realtà non si sbagliava, se non per un dettaglio: in quel posto non era solo.
Nel raccogliere il “bottino”, prova della sua innegabile ars militaris, appoggiò il fucile sul tronco di un pino, ed accadde che Siccia, correndo incespicò proprio lì, la canna sparò un colpo e destino volle che ad esser colpito fosse stato un compagno di Cecè, un conoscente a cui era legato da un sodalizio sacro: la caccia.
Ebbene, compare Vito, il cacciatore in questione, era un uomo di bassa statura, Cecè lo chiamava cicirittu*3, e questo, per lui, era il suo nome di battaglia.
A dire il vero Cecè non aveva molta stima di Vito, lo considerava uno sfaticato, un lavativo che intendeva la caccia come un sollazzo virile e non una missione coraggiosa, quindi in un certo senso era sollevato dal fatto che l’offeso fosse stato lui, piuttosto che un altro più ammirevole. Il colpo sferrato colpì questo sfortunato pigmeo e lo rese cieco da un occhio.
Quella sera al posto del suo arco trionfale c’erano delle fauci nere e fameliche che sembravano inghiottirlo in un boccone senza speranza.
Aveva perso quel giorno sul campo e tornava disfatto con un enorme macigno sul cuore.
I giorni passavano lenti, sempre più lunghi e sbiaditi e i fuochi strepitanti si spegnevano, cristallizzandosi in nebbie impenetrabili.
Tutti a San Fratello erano a conoscenza del fatto, non si parlava d’altro che di don Cecè e della sua nefasta vicenda, degli anni di galera che avrebbe dovuto scontare e di chi, ebbene si parlava anche di questo, avrebbe preso in custodia il piccolo Siccia.
Si aspettava il giorno del giudizio con l’ansia morbosa tipica dei piccoli centri, e con insofferenza, la stessa che hanno gli scolari quando spalmati sui banchi attendono l’estate, e lo stupore nacque sui volti di tutti quando si ebbe notizia dell’identità del giudice.
Melo Gatto avrebbe deciso della sorte del povero Cecè.
Carmelo Gatto era uno strano individuo; non si può dire certo che fosse una volpe, era volubile, talvolta irruento e un po’ piagnucoloso e non sbagliava di molto chi si riferiva a lui con l’epiteto di Cucuzzuni*4 .
Viveva con la sua domestica, la paziente Badduzza*5 che gli trasmetteva calma e serenità, calmava le sue ansie sopportando le sue manie.
Inoltre Gatto, era posseduto da un bizzarro demone, quello che noi oggi chiameremmo schizofrenia, che ogni tanto si materializzava destando la perplessità e lo sconforto in chi aveva a che fare con lui.
“Musciddu, Musciddu!”*6 cercava di ammansirlo allora Badduzza e talvolta vi riusciva.
Il problema era bensì più grave, quando il demone visitava Gatto in quel delicato momento che è la pronuncia della sentenza finale, il momento del martelletto.
Tutti per questo erano costretti a temerlo, e ognuno in cuor suo, non vedeva l’ora in cui anche lui sarebbe passato a miglior vita, ma questo istante tardava ad arrivare, nonostante Gatto fosse di salute cagionevole e in passato fosse stato coinvolto in vari incidenti. Proprio per questo i più superstiziosi leggevano veramente l’allegoria di un destino nel suo cognome, e stavano imparando a crederci anche i più scettici.
Come la primavera, che per un incantevole capriccio della natura non arriva mai nel giorno stabilito dal calendario astronomico, così la notizia della data del verdetto giunse improvvisa, quando ormai nessuno più ci pensava, arrecando un vivacissimo stupore.
Secondo la cosiddetta “magia simpatica” il lunedi è il giorno più propizio per affrontare una circostanza problematica , ma don Cecè, che pensava secondo i dettami della filosofia contadina, viveva questo giorno, il dies lunae, come il preannuncio di una sciagura.
Lunedi era arrivato e Cecè, con il difensore d’ufficio, sedeva nell’ala destra di una minacciosa stanza; davanti Carmelo Gatto in vesti ufficiali, somigliava ad un goffo piccione, come quelli che lui malediva quando doveva mirare alle quaglie.
Passarono due interminabili ore quando finalmente il momento fatidico arrivò.
Il giudice pronunciava frasi incomprensibili, stilemi e formule burocratiche e nessuno si fidò del proprio udito quando Gatto concluse: “pertanto, alla luce delle suddette constatazioni, il ruolo del colpevole è ravvisato nella figura del canis lupus familiaris Siccia, che essendo dotato, a fronte delle recenti scoperte scientifiche, di volontà ed intelletto, deve rispondere di reato penale con lesione fisica e danno permanente.
Visto e considerato il carattere non intenzionale dell’atto penale, si dispongono gli arresti domiciliari, prescrivendo all’imputato di non allontanarsi dalla propria abitazione, rendendo espresso il divieto di comunicare con persone diverse da quelle che con esso coabitano o che lo assistono. L’imputato è tuttavia autorizzato ad assentarsi nel corso della giornata dal luogo di arresto per il tempo necessario per provvedere ad indispensabili esigenze di vita ovvero per esercitare la propria attività lavorativa. Così è deciso, la seduta è tolta”.
Nessuno si capacitava di quello strampalato verdetto, e da quel giorno, iniziarono a diffondersi facili barzellette sull’odio che Gatto, per motivi scontati, nutriva nei confronti della categoria canina.
Intanto si era fatto di nuovo giovedi, e don Cecè, con la solita ritualità preparava la sua sacca per la caccia al coniglio, e alle voci accusatorie di quei paesani che gli rimproveravano una colpa mai pagata, rispondeva lapidario: “ dura lex, sed lex”, e nessuno sapeva cosa replicare.
*1 carniere, sorta di borsa in cui il cacciatore ripone la selvaggina uccisa.
*2 “ Nero come una seppia”
*3 cecedritto
*4 Zuccone
*5 Pallina
*6 “Micetto, Micetto!”
Potenza delle parole desuete ed in quanto tali, spesso incomprensibili. Incutono soggezione ed in genere, nel mondo descritto dall’autrice, andavano a svantaggio dei più deboli; in qualche caso agivano da deterrente, come tutela e riparo da possibili conseguenze. Funzionano ancora oggi. La singolarità della sentenza, ci fa sorridere, ma ci porta anche ad una riflessione seria e cioè: “ è un bel guaio quando chi è chiamato a dirimere questioni importanti non è nel pieno delle sue facoltà. Questa sciagura e di pericolosa attualità.