Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2020 “Cecità” di Maria Luisa La Rosa

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2020


Devo scrivere. Si. Devo. O meglio, dovrei. Capozzi, quello spocchioso raccomandato del mio capo non mi ha dato alternative. O porti a casa il pezzo o sei fuori. Hai tre giorni. Cazzo, solo tre? E meno male che lavoro a un settimanale di cronaca nera per un pubblico popolare – tra le righe per una massa di capre ignoranti. Eppure mi era sembrato una manna dal cielo all’inizio, dopo anni e anni di studi buttati nel cesso e nessun lavoro all’orizzonte. Ora chi lo dice al vecchio panzone che non riesco più a scrivere neanche la lista della spesa? 

Com’è successo, proprio non lo so. Forse è iniziato tutto l’altro ieri sera. O forse ho avuto qualche piccolo cedimento anche prima, ma che importa? Fatto sta che me ne stavo qui, nella stanza in cui sono cresciuto, che prima era di mio padre e prima ancora di mio nonno. Qui, seduto alla vecchia scrivania di compensato, davanti al MacBook di tripla o quadrupla mano, al quaderno ad anelli pieno di appunti, alla bic nera e alla terribile lampada ad olio sbeccata di mio nonno, che continuo ad usare anche adesso, nonostante la vorrei buttare dalla finestra nel vicolo di sotto.

Me ne stavo qui, pronto a riversare su Word ogni singolo dettaglio estorto con astuzia sul luogo del delitto a gente informata sui fatti, passanti, vicini, bambini, cani e a chiunque avesse qualcosa da dire oltre a “era una persona così gentile”, dopo aver dribblato le occhiate torve degli sbirri, che, chissà perché, quando sentono odore di giornalisti rizzano le orecchie e ringhiano, peggio di cani rabbiosi dietro le sbarre. 

Ero qui, seduto a fumare le mie Lucky Strike e a ricostruire l’ennesima tragedia familiare, lui che scopre lei con l’altro, le urla, le lacrime. Una pistola che entra in scena e che spara. Tutti ingredienti triti e ritriti, perfettamente in regola per un luculliano pasto serale che avrei servito al pubblico famelico. Qui, concentrato a pensare a come drammatizzare il dramma. Che era già di suo piuttosto semplice: avevo persino il personaggio giusto, il bambino di cinque anni che dallo stipite della porta aveva intravisto la madre volteggiare su sé stessa e cadere a terra con il viso rivolto verso l’alto e le orbite di fuori. 

Ero proprio qui, quando d’improvviso è diventato tutto bianco. Una distesa di neve. Una cecità opaca, lattiginosa, di straordinario candore, che ti si appiccica addosso e ti avvolge come in un fresco lenzuolo di lino. Persino gradevole all’inizio. Non so davvero come sia successo. Comunque sia, non è stato un fatto a cui ho dato un grande peso e dopo due o tre scotch e la puttana dell’incrocio nel mio letto, non ci ho pensato più. Fino a stamattina, quando mi sono seduto di nuovo alla scrivania e ho visto, con mio enorme stupore, che era tutto ancora completamente bianco. Ho perciò compreso di essere malato. Di una malattia che nessun medico avrebbe mai potuto curare: la sindrome da pagina bianca. 

E adesso che cazzo faccio? Il vecchio domani mi farà a pezzi. Scosto infastidito il bicchiere che sinuoso mi invita ad approfittare nuovamente di lui. Stavolta l’oblio non mi aiuterà a eliminare i miei problemi e se devo affogare in un mare bianco, quantomeno voglio mantenere un briciolo di dignità. Afferro il pacchetto di sigarette. È vuoto e lo strizzo come un asciugamano bagnato. E meno male che la puttana mi ha chiamato bastardo rachitico quando le ho gettato venti euro in faccia e l’ho cacciata via. Il cerchio rosso che troneggia al centro del pacchetto mi appare come un chiaro divieto. Qui non posso entrare. No fumo, no party, no parole. Palleggio, lo lancio in aria e lo riprendo prima che cada. Poi tiro deciso, mirando il cestino accanto alla libreria, con uno stile che anche Kobe Bryant mi avrebbe invidiato. Centro perfetto, 3 punti. Proprio quando il pacchetto rimbomba sul fondo del canestro improvvisato, la vedo.

Mi fissa con occhi verde smeraldo. È compatta, solida, tutta d’un pezzo. Anche se non è più giovane come un tempo non sembra per nulla vecchia o fuori moda. È bellissima. Sento improvvisamente il desiderio di toccarla, di passare le dita tra le sue intercapedini. Chissà se funziona. Avvicino la mano, titubante. Un dito, poi l’altro. La sfioro con delicatezza, per evitare che scricchioli. Non ho mai visto dentro nessuno così tante possibili parole. La invidio per questo, io non ne ho più: sono cieco, della mia bianca cecità.

“Hermes 3000” sussurro, scandendo bene le parole, “Mia, di mio padre, di mio nonno, di generazione in generazione.” Un piccolo singhiozzo, un tic inaspettato, mi fa trasalire.

Un piccolo singhiozzo, un tic inaspettato, mi fa trasalire.

“Oh, per carità, smettila. Tic. Tic. Tic. Non è opportuno che mi sfiori così. Non sta bene. Tic.”

Mi guardo intorno, spaesato. Non capisco. Mi avvicino alla finestra e lancio un’occhiata fugace al mondezzaio. Il vicolo, illuminato ad intermittenza solo da un lampione fulminato, è deserto. Non vedo neanche il solito barbone che ho ribattezzato Sobieski, in onore di quella vodka polacca che si porta sempre dietro e chissà dove rimedia. Sarà andato a ubriacarsi da qualche altra parte, beato lui. Anche dentro casa tutto tace. Ci sono solo io. Ci sono sempre solo io. 

“Tic. Sei rimasto senza parole?”

Di nuovo quella voce. Mi volto, corrugando la fronte.

“Chi sei?”

“Ma come? Tic. Tic. Ti conosco da quando eri bambino. Sono sempre stata qui, davanti a te.”

La guardo con diffidenza e con un briciolo di risentimento. Ha ragione, è sempre stata lì, ma ha sempre taciuto anche quando, disperato, ho invocato il suo aiuto. 

“Perché stai singhiozzando?”

“Non singhiozzo! Tic, tic. È solo un tic, come una malattia. Non riesco a smettere.”

“Anche io sono malato, sai? Sono cieco. E senza parole.”

“Beato te. Io odio le parole. Gli uomini mi hanno sempre maltrattata, usata violentemente, spremuta come un limone, fino ad ottenere ciò che volevano. Tic. Tic. Tic. E se non ci riuscivano la colpa era solo mia. Odio la frenesia della scrittura nei momenti di massima ispirazione. Il mio ticchettio diventa incessante. E soffro.”

La guardo, catturato dal movimento dei suoi tasti che sembrano danzare sul prato verde del suo corpo compatto. Neanche quei piccoli graffi, e quella cicatrice netta, offuscano la sua bellezza. È meravigliosa sì, ma non posso dimenticare giorni e giorni di abbandono.

“Scriverai l’articolo per me!” le ordino.

La barra di metallo scatta fulminea sul suo volto, da sinistra a destra, emettendo un suono squillante. 

Mi rabbuio. Quella maledetta stronza non vuole aiutarmi. Mi lascio cadere sulla sedia, inarcando i gomiti sulla scrivania e appoggiandovi sopra la testa. Il bicchiere continua a tentarmi ma io resisto, non so ancora per quanto. Lei mi osserva, ma tutto tace, anche la sua strana malattia. Poi, d’improvviso, un ticchettio martellante, come un rullo di tamburi vibrante in un concerto rock. 

“Ho un’idea. Tic. Non riesci più a scrivere ma puoi parlare. La scrittura verrà dopo. Tic. Tic. Raccontami.”

La guardo contrariato, e lei risponde al mio sguardo con altrettanto ardore.

“Sono un giornalista, non un di giullare di corte. Cercati altri passatempi, stronza”.

La sua asta vibra di nuovo, però stavolta suadente. Il ticchettio si fa lento.

“Se tu mi racconti tic, io posso… potrei… provare a scrivere la tua storia”.

È più furba di quello che avrei mai immaginato. Cosa mi aspettavo? Anni e anni di esperienza, prima di finire in questa libreria da quattro soldi. Non ho altra scelta. O mi sottometto al suo volere o domani il vecchio bastardo mi lascerà in mutande in mezzo a una strada. Cerco di ponderare al volo i pro e i contro, cerco di prendere tempo, di trovare un’alternativa qualsiasi. Ma non c’è. 

“Ok, racconto, ma tu scrivi. La villetta a schiera dei coniugi Landolfi si trova a qualche isolato da qui, in un comprensorio di case tutte uguali, dipinte di rosa. È sera inoltrata e i due stanno cenando. Discutono animatamente, o almeno così mi ha riferito l’inquilino del piano di sopra. Cosa si dicono esattamente, non è dato sapere.”

“Di cosa pensi tic tic parlino?”

“E che ne so? Invento?”

“Racconta!”

“Ok. Parlano di un uomo, un vecchio amico di famiglia. Del suo ritorno in città e di alcuni suoi messaggi alla donna, che il marito ha letto mentre lei era sotto la doccia. Il litigio degenera. Lui inizia a tirare oggetti, una vecchia lampada ad olio, una copia di On the Road dalle pagine ingiallite, un posacenere di vetro. Lei piange, urla. 

“Una lampada ad olio come quella lì?

“Si, come quella. Un bimbo di cinque anni guarda la scena da dietro la porta socchiusa, stringendo tra le braccia un pupazzo a forma di coniglio. Sembra che lo voglia stritolare. Non so cosa provi esattamente ma credo paura. Sono quasi certo che non capisca esattamente cosa stia succedendo ma che sia consapevole che non si tratti di nulla di buono. E soffre.”

“Anche tu da piccolo avevi dei peluche a forma di coniglio, se non ricordo male…”

“Tutti i bambini ne hanno. Lui continua a stringere la zampa dell’amico peloso, quando il padre…”

“Il padre?”

“Il padre estrae una pistola. Il bambino ha già visto qualcosa di simile e si tranquillizza. Accenna perfino un sorriso, in attesa del vortice d’acqua che sarebbe uscito dal buco e avrebbe colpito la mamma dritto in volto, mischiandosi alle sue lacrime, facendole scomparire. Solo acqua limpida, che lui avrebbe asciugato con la carta igienica presa dal bagno lì accanto. Poi, mentre sta per voltarsi…”

“Tu lo sai bene cosa è successo, vero? Tic. Tic.”

“Il proiettile esplode nell’aria, a velocità disarmante, eppure quell’attimo dura un’eternità. Una traiettoria semplice, lineare. Il mittente, un uomo qualunque, di mezz’età, accecato dalla gelosia. Con le mani strette alla pistola come un credente impegnato in un atto di fede, il volto stravolto dall’espressione furente, i denti digrignati. Il destinatario, una donna qualunque, di mezz’età, con una crisi di nervi e il trucco sciolto intorno agli occhi. Non colpevole.”

“Ne sei sicuro?”

“Che importa? Adesso è morta e i morti vengono assolti di tutti i loro peccati. Il proiettile le perfora le tempie e la donna ruota su sé stessa come una ballerina classica al debutto. Poi cade a terra, con un tonfo sordo.”

Una lacrima mi scende sulla guancia. Ma che cazzo mi sta succedendo? Mi sto rincoglionendo? Un uomo non piange. Mai. 

“E il bambino? Tic.”

“Ah sì… il bambino, lo spettatore inerme. Personaggio non necessario ai fini della narrazione. Da eliminare. Forse d’impatto per un articolo di stampa rivolto al pubblico di massa, ma qui proprio inutile.”

“Tic. Tic. Qui è perfetto”

“No. È sempre stato un cazzo di uomo imperfetto”

“Chi era?”

Un’altra lacrima. Perché diamine sto piangendo? Prendo con violenza il foglio, incastrato tra le grinfie della bastarda. Non ha scritto niente, come immaginavo. L’odio è incontenibile. La scaravento a terra e sputo, risentito per essere stato fregato da una come lei. Che taccia per sempre. 

Poi la mia mano afferra la penna e comincia a scrivere su quel foglio, come se fosse guidata da una forza invisibile. Scrivo, scrivo, scrivo. La storia prende forma, la cecità svanisce. Le parole si mischiano, s’intrecciano, si separano con un ritmo sempre più incalzante, facendomi evadere dalla mia stessa quarantena.  

Omicidio-suicidio nel quartiere Ferrigno. Giovane coppia lascia figlio di cinque anni. 

Di seguito la mia vita. E la loro. Sovrapposte, senza riuscire più a distinguerle. Mi alzo, afferro il bicchiere di scotch e ne tracanno metà. Un brivido mi scuote dalla testa ai piedi. Tremo e il bicchiere precipita sulla scrivania, frantumandosi in mille pezzi. Il liquore si riversa sul foglio, sulle parole, su quello che è accaduto o che forse è stato solo immaginato, espandendosi a macchia d’olio e ricoprendo ogni cosa. Non si legge più nulla. Resta solo una chiazza sbiadita su un foglio lercio, che sembra creare la sagoma di un bambino che diventato grande ha smesso improvvisamente di essere cieco. 

Loading

Tagged come: ,

7 commenti »

  1. Storie che si incastrano e poi spariscono rimane solo un ricordo.

  2. “Concentrato a pensare a come drammatizzare il dramma”… in poche parole condensi il lavoro del moderno giornalista. Bel racconto, scritto benissimo complimenti!

  3. Complimenti Maria Luisa, in un ritmo serrato sai tenere il lettore incatenato all’intreccio per poi sorprenderlo con retroscena psicoanalitici.

  4. Vi ringrazio tantissimo!!! :)))

  5. Mi è piacuto molto il ritmo incalzante e l’avvicendarsi della trama, complimenti!

  6. Quella maschera di cinico disincanto indossata dal protagonista mi ha subito trascinata in un universo narrativo hard boiled alla Raymond Chandler, ma procedendo nel racconto, grazie all’ottima scrittura e al ritmo che hai saputo dargli, mi sono ritrovata in un finale degno di un film di M. Night Shyamalan, che ovviamente non spoilero qui! Bravissima, sai davvero come “drammatizzare il dramma”. Complimenti.

  7. Sono contenta vi sia piaciuto. Grazie mille!!!

Lascia un commento

Devi essere registrato per lasciare un commento.