Premio Racconti nella Rete 2020 “Dolore” di Alessandra Cavanna
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2020In un giorno e in un tempo che potrebbe essere ieri, ma sono passati mille anni, una bambina si incamminò per la strada della vita. L’uomo che le dava la mano era colui che l’aveva generata. Camminavano in un paesaggio extraterrestre, la strada si insinuava tra le alte rocce color bruciato e strapiombi paurosi dove la fine non si vedeva o, a tratti, se ne immaginava il fondo, dove si muoveva una lava incandescente color del sangue, ribollente e mostruosa. Non c’era cielo, sembrava un’immane grotta di cui non si vedesse fine alcuna né in cielo né in terra. Ma la bimba non aveva paura, stringeva quella mano con fiducia e sorrideva a quell’uomo che, a tratti, le appariva strano, gli passava una strana luce negli occhi e non sempre le sembrava di somigliargli. In alcuni momenti il suo viso era dolce e gli occhi sorridevano buoni ma in altri il suo corpo si copriva di irti peli, le sue braccia si deformavano e le unghie gli crescevano in maniera smisurata, anche il viso, pure coperto di peli, assumeva un aspetto terribile, gli occhi roteavano mentre gli si arrotavano i denti ed una bava scendeva dalla sua bocca e lui prendeva a blandirla con dolcezza lasciva che lei non riusciva a comprendere, ma non aveva mai conosciuto una altro essere nella sua breve vita e, pur con terrore, lo amava poiché non aveva nessun altro da amare in quel mondo. Qualche volta incontravano piccole tribù nomadi che si accampavano tra le rocce, alla bambina sembrava che vivessero in armonia, diversamente da come vivevano lei e suo padre ma non poteva esserne certa, ognuno continuava il proprio cammino e nessuno si soffermava a riflettere sulla vita degli altri. La bambina era bella e molto dolce, era facile amarla. Raramente qualcuno si soffermava a guardare i suoi occhi troppo grandi, troppo seri e troppo tristi, era più facile accarezzarle i capelli biondi inanellati, il viso bianco di porcellana e ascoltarla narrare storie inventate e così sagge da dubitare che uscissero dalle labbra di una bimba di pochi anni. Il padre appariva amorevole con lei se c’era qualcuno e nessuno lo vedeva mai irto di peli con gli occhi roteanti e la bocca lasciva, ed anche quando ciò accadeva non pareva se ne avvedessero. Lunga era la strada che dovevano percorrere e spesso la bimba era stanca e voleva riposare. Allora si fermavano dove la roccia formava una piccola nicchia o una grotta e lei cercava di dormire raggomitolandosi accanto al padre perché la coccolasse e la proteggesse e, anche nei momenti in cui lui era mostruoso, sperava le avrebbe dato una carezza che contenesse quell’amore di cui aveva tanto bisogno. Ma lui non la voleva, non per coccolarla o per darle amore, lui beveva un sidro a fiumi, forse, pensava lei, per affogare un tormento lontano, poi si adirava e urlava e le sue urla riempivano l’aria, ed eco agghiaccianti si rincorrevano sulle rocce e rimbalzavano sino a ritornare ancor più forti e agghiaccianti, come stridori di carni lacerate, di morte, di agonia, alle orecchie della bimba, che tratteneva il respiro e si raggomitolava su se stessa nell’angolo più buio della grotta stringendosi le ginocchia e fissando il padre in tutte le sue manifestazioni orrende. Passò il tempo ed il cammino si faceva sempre più duro ed il convivere sempre più faticoso, nonostante ciò la piccola aveva fiducia, aveva speranza e nel cuore aveva amore, quell’amore che nasce con noi, non c’è odio nel cuore di un bambino. La bimba aveva imparato a dormire scostata dal padre poiché ormai, forse per paura o forse per istinto, lo temeva, intanto aveva capito che amore da lui non ne avrebbe mai ricevuto. Una notte lui la chiamò, era un richiamo strano, dolce, pensò lei. Ma era veramente dolce? La bimba ebbe un fremito di paura. «Perché» si disse «dovrei temere»? Forse ha capito che ho bisogno di affetto, forse ora mi vuole. Sì, lui la voleva, ma lei non aveva compreso che lui la volesse come si vuole una donna non una figlia. Lei non implorò, non chiese di risparmiarla, restò lì, attonita, stupita, troppo giovane per capire, per reagire. Era amore questo oppure no? Era buono o era cattivo? Era felicità o era dolore? Non lo sapeva ma, mano a mano che passava il tempo il terrore in lei si fece vita e qualcosa nel suo ventre iniziò a nascere e a crescere e nel momento stesso in cui se ne accorse urlò, ma nessuno udì il suo grido perché le sue labbra rimasero chiuse, dalla sua gola non uscì un respiro, dai suoi occhi non una lacrima. Passarono gli anni, lei lasciò la mano del padre, era cresciuta, era diventata una donna.
Un giorno incontrò un cavaliere, non era un principe, non era neppure su di un cavallo bianco, ma era buono e l’amava e l’avrebbe portata via da quel mondo terribile di terre rocciose e bruciate, di lave di sangue, di orrori. Gli diede la mano e gli si affidò, lui la prese sul suo cavallo e si incamminarono per una vita migliore, ma lei troppo spesso si voltava indietro, aveva paura che il padre li seguisse e nello stesso tempo forse aveva fatto l’abitudine a quel suo tormento. A volte piangeva e si contorceva e quell’essere che era in lei lo sentiva vivo, lo sentiva crescere, allora restava attonita in ascolto e si domandava che cosa avesse dentro e a quella domanda sembrava che il tormento sparisse, si dileguasse e allora ne provava grande sollievo e sorrideva felice. Con il tempo qualche cosa nel suo viso, nel suo corpo e nella sua mente mutò e lei ne incolpava il cavaliere e lo odiava e lo tormentava e lo cacciava da sé. Lui sopportava in silenzio e l’amava e la comprendeva e la prendeva tra le braccia cercando di calmarla con carezze, con dolcezza, con amore, ma lei era come impazzita, non voleva nulla, non voleva amore, non voleva comprensione e correva folle tra le mura del castello dove vivevano. Il castello aveva un’aria ridente con piante e fiori all’interno delle mura e fontane e pareti rosa nelle stanze e tutto era stato fatto da lui per lei. Ma a lei nulla importava se non capire che cosa fosse quel supplizio dentro il suo ventre, che cosa fosse l’essere che si ingrandiva dentro di lei, che la torturava, l’appesantiva. Sentiva la nausea salire e vomitava fiumi di lava verde e urlava ma l’essere non nasceva mai.
Quel tormento la consumava ma più consumava lui, il cavaliere, che, giorno dopo giorno si intristiva, sbiancava, nonostante ciò, per il suo amore, ogni volta che vedeva lei serena gli tornava la luce negli occhi, ma lei subito gli si scagliava contro, lo aggrediva, lo graffiava, lo mordeva, lo odiava e lui ricadeva nella malattia, ma lei non se ne avvedeva, non le importava della vita di lui né della propria, in lei non c’era vita, non c’era ragione, non c’era aria pulita, né mondo da vedere, né parole da ascoltare.
Un giorno grigio senza rumore e senza parole il cavaliere morì. Nel letto che dividevano lei sentì d’un tratto che lui non esalava più alcun respiro.
Quella stessa notte il silenzio era assoluto, non un alito di vento, non un gracidare di rana, né un frinire di grilli, quel silenzio era tale da sentirsi sprofondare in un inchiostro nero senza sensazioni e senza fine, un silenzio tanto forte da essere più terribile e fragoroso di qualsiasi rumore, più triste di un pianto, più acuto di qualsiasi dolore e lei, in questo terrificante silenzio sentì muovere il figlio dentro il suo ventre e dopo anni finalmente iniziò il suo parto.
Fu la cosa più terribile che avesse mai provato e che alcuno potesse comprendere, nessuna donna che avesse partorito poteva avere sofferto tanto. Le viscere stesse del suo corpo sembravano voler uscire e lei si contorceva ed il suo aspetto era tanto agghiacciante che se qualcuno l’avesse vista avrebbe pensato che fosse una morta che fuoriuscisse da una tomba dopo che i vermi avevano iniziato a divorarla. Gli occhi erano fuori dalle orbite, la bocca si torceva in un ghigno e le unghie si scavavano lunghe ferite per il corpo, il cuore batteva forte da sentirlo all’esterno e rimbombava per le stanze del castello con un ritmo sinistro, come di campane a morto, i capelli le si appiccicavano al volto bagnati di sudore e di una specie di bava appiccicosa e il colore del viso era inimmaginabile a tratti giallognolo a tratti bianco, ma non piangeva, voleva finalmente partorire per liberare il suo corpo da questa entità che da anni dentro l’attanagliava nutrendosi di lei.
E finalmente uscì ed era orribile, verdi e molli minuscole braccia e sottilissime gambe, un corpo piccolo e deforme e, a sovrastarlo, una testa enorme, gli occhi spiritati, vitrei, che guardavano non da bimbo, ma da adulto, la bocca era come quella del padre della donna, enorme con denti affilatissimi e la bava gli colava e la lingua era grande e rossa e carnosa.
Lei lo guardò stupita e inorridita ma finalmente sollevata di essersene liberata, di non sentirne più il peso dentro di sé. Lo appoggiò sul suo corpo e lui, con quella sua enorme bocca, cominciò a mangiarla, iniziò a masticarla, lentamente ma con cupidigia, a sbranare grossi pezzi della sua carne e lei lo lasciava fare, troppo stanca per potersi difendere, stremata nelle sue forze per poterlo fermare. Capì che sarebbe morta ed ebbe soltanto un desiderio. «Chi sei?» gli chiese, e lui, con una voce dolcissima per quell’orrido corpo, rispose «Il dolore».
Bello forte il tuo racconto! Un’infanzia rubata, una vita di tormenti… ho sofferto e provato rabbia nel leggerlo. Le metafore che hai utilizzato rendono molto bene e colpiscono il segno. Complimenti!
Grazie Margherita. Ero molto in dubbio se inviare questo racconto mi pareva troppo crudo ma ci tengo veramente molto che passi il messaggio che contiene. A te è arrivato per me già un grande risultato.
Hai scelto un tema davvero difficile da raccontare. Dalle immagini che descrivi arriva un insieme di sensazioni: disgusto, paura e rabbia. Coraggiosa!
Grazie Federica. In realtà ho pensato davvero a lungo se partecipare con questo racconto. Non nego parecchio timore sia per il contenuto che per come mi sono sentita di affrontarlo. Per me molto importante che il messaggio che contiene venga compreso.
Cara Alessandra, inizialmente mi è sembrato di riconoscere uno scenario post-apocalittico simile a quello descritto da Cormac McCarthy in La Strada. Ma, proseguendo, ho letto lo sviluppo di un racconto simbolico, che unisce quasi un esorcismo a un approccio onirico alle più nascoste sfere dell’inconscio. Probabilmente un racconto necessario, e facile da far proprio da parte di chi è assillato dagli stessi incubi. Credo che tu abbia fatto bene a proporlo. Complimenti.
Grazie Francesca apprezzo il tuo commento che ha colto nel segno
Molto bello. L’impostazione fiabesca crea la giusta distanza per non essere troppo coinvolti e il percorso non è quello che sembra, ma ci si arriva lentamente. Lo si capisce solo nel bellissimo finale in cui c’e’ necessità, amore, accoglienza per quello che con sofferenza e ferite deve venire alla luce.
Il tuo racconto coinvolgente invita a riflettere.
Il dolore spesso proviene da traumi e sempre divora.
Complimenti.
Racconto intenso. Colpisce!
Grazie Marco Floridia per aver apprezzato il mio racconto. Hai colto un significato nel finale che io stessa che l’ho scritto non pensavo trasparisse.
Grazie Roberto Contini per il tuo commento mi fa piacere che il racconto ti sia piaciuto.
Grazie Maria Luisa La Rosa per aver apprezzato
Come in una fiaba, ci sono l’orco, la foresta cupa, la grotta degli orrori, il cavaliere, come in una fiaba l’orrido s’intreccia con la speranza e il desiderio, l’amore fa rima con dolore.
Già, n dolore, sempre presente, è la vera condizione.
Sono così le fiabe, anche quelle “e vissero felici e contenti”
La tua è la fiaba.f
Un racconto terribile come solo certe verità possono essere. Bravissima e coraggiosissima. Non riesco a dirti altro, scusami.
Grazie Tommaso Deidda per aver letto il mio racconto e per il tuo commento
Grazie Annamaria Cembalo non c’è bisogno che tu aggiunga altro hai già detto tutto e ti ringrazio di cuore.
Un racconto intenso, con immagini forti e d’impatto quasi da far rabbrividire. Viene voglia di rileggerlo per trovare nuovi significati.
Grazie Davide Desantis per aver letto e apprezzato il mio racconto e ancora di più per esprimere il desiderio di rileggerlo. Per me un grande complimento. Ancora grazie