Premio Racconti nella Rete 2020 “In volo per New York” di Rosanna Catalano
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2020«Mamma la durata del volo si aggira sulle otto ore. Ti suggerisco di portarti un block notes. Scrivi, scrivi. Ciao. Buon viaggio!». Sto per chiedere cosa scrivere ma non ne ho il tempo. «Le conversazioni di mio figlio sono sempre molto lunghe!»rimugino a bassa voce. Clicco sul tasto rosso e, con una calma molto ostentata, butto il cellulare nella borsa che trabocca di occhiali, spray, fazzolettini, borsellini, pillole, caramelle, chewing gum. Da questo momento tutto deve passare in secondo ordine. «Calma, calma, Rosanna, devi darti un contegno, ricorda che non stai andando in una città qualsiasi. Vai a New York!» mi impongo.
Da un altoparlante si annuncia l’inizio dell’imbarco. Devo a tutti i costi fare la foto al display con la scritta New York. Prendo il cellulare e cascano a terra lo spray, il rossetto e il portapillole. «Quanto sono imbranata! Mi stanno osservando tutti, sempre figuracce! Ma chi se ne frega!». Il cuore comincia a battere a mille e sento un insopprimibile desiderio di gridare forte che io, Rosanna Catalano, sto salendo sulla scaletta dell’aereo che con le sue ali mi porterà a New York. «Devo comperare un block notes» penso «ma hai visto mai che perdo l’aereo per comprare un block notes?».Provo un po’ di senso di colpa per tutti quei soldi che ho speso e che polverizzerò durante il mio soggiorno, ma a sessanta anni non si aspetta che le ginocchia non riescano a piegarsi. «Io ho il diritto di fare quel viaggio; mio nonno, emigrato a diciannove anni, ha realizzato lì il suo sogno, lì è diventato un musicista famoso, lì è nato mio padre. Certo che mi spetta!». Salita la scaletta mi inoltro emozionatissima. Chiedo allo steward la durata del volo. Mi risponde: «Signora nove ore». Penso a mio nonno e a mio padre che viaggiarono per quindici giorni sulla nave, e mi chiedo dove abbiano trovato quel coraggio. Dopo il decollo faccio il segno della croce:«E’ fatta! O vedo l’America o muoio perché cade l’aereo» penso. Mi ritrovo con la sinistra a fare le corna e sorrido. Seduta in quel posticino, da sola, provo una grande sensazione di felicità.
«Faccio il tragitto sull’oceano che hanno fatto i miei nonni, toccherò il suolo americano, camminerò sul pavimento di Ellis Island!».Noto che davanti ad ogni poltrona c’è un monitor. Chiudo gli occhi e una folla di pensieri invade la mia mente. D’un tratto mi ricordo:devo scrivere! Mi incuriosisce l’idea. Prendo dalla borsa dei fogli e comincio a scrivere mettendo la mano sinistra dietro la penna come facevo a scuola quando non volevo far copiare la mia compagna di banco. Non voglio che la mia vicina di posto, una signora English, legga le mie cose. E’ trascorsa appena un’ora dalla partenza, ho dato voce alle mie emozioni ma con l’aria che mi piomba sulla testa e col reggiseno sbottonato, le cui punte mi arrivano sul collo, riesco a muovermi a malapena. Devo alzarmi. Guardo fuori dal finestrino e scorgo un’immensa distesa azzurra. «L’oceano!». Macchè! E’ il lago di Como. Mi alzo e, nel passare davanti alla English noto un certo fastidio nel suo viso. Sorrido dentro di me e mi avvio fra le file di poltrone. Mi stupisco dell’ampiezza dell’aereo e penso a quante volte ho immaginato quel momento. Mi trovo su un aereo e sto andando dall’altra parte del pianeta, sola, lo spirito di avventura non mi manca, questo lo so, ma, anche se mi incontrerò con quelli del tour a New York, sto per affrontare un viaggio così lungo da sola. Mi vengono in mente le parole di mia mamma:«Tu nun ti scanti di nuddru. Putissi iri in mezzu a lu reggimentu!». Vedo nei monitor scene di film,documentari, solitari.
Torno nel mio posto e cerco di capirci qualcosa. Clicco varie volte su alcune icone ma non compare nulla. Mi indispettisco ma persevero. Sento gli occhi della English addosso. E’ una signora sui sessantacinque anni, bionda, con la pelle raggrinzita e bianca come la lana, porta un paio di occhiali dorati allacciati ad una collana di perline rosa ed è muta, non sorride neanche. «Forse è americana. No. Non può che essere English!».Guardo fuori dal finestrino e questa volta sono sicura che quella distesa verde azzurra è l’oceano. Che emozione! La signora English dorme. Sento freddo, meglio tirare fuori dalla borsa il foulard, mi abbasso, apro la cerniera e il mio gomito urta il suo braccio. «Oh mio Dio! Questa mi uccide!» esclamo. Chiudo la borsa,mi appoggio il foulard sul collo ma sento che sto per tossire, ho bisogno dello spray.
«Come faccio! Non posso urtarla di nuovo!». Pian pianino mi abbasso, infilo la mano e subito per miracolo lo acchiappo, faccio attenzione come un equilibrista. Questa volta non l’ho toccata, evviva! Ricomincio a scrivere e mi sorprendo, ho già scritto otto pagine. «Mio figlio ha sempre ragione!». Scrivo ma dopo un po’decido di armeggiare con i tasti. Buio totale! Chiedo ragguagli a due ragazzi, seduti dietro di me. Mi spiegano pazientemente ma niente da fare! Eppure mi sento navigata a navigare. «Che brutta frase per una prof. di Italiano!» ammetto divertita. Ad un tratto la signora English, irritata dalla mia goffaggine, lancia il braccio davanti al mio petto, verso il mio bracciolo sinistro, apre uno sportellino e ne trae fuori un telecomando che ripone prepotentemente nella mia mano. Imbarazzata, tento invano di trattenere una risata fragorosa. Sussurro: «Thank you» ma a lei non importa. Contentissima scelgo un film. Dopo i titoli appare il nome del regista: Ferzan Ozpetech. No! Non è possibile! Non lo tollero! Decido di spegnere. Non me ne va bene una! Vicino ad una vecchia English, stupida, con calzini bianchi e bermuda, e con un monitor che non mi serve. Non è il massimo ma non mi importa, sto realizzando il sogno della mia vita. Quel viaggio in America è stato sempre oggetto di discussione in famiglia.«Me lo merito dopo una vita di lavoro!» ho sempre ribadito. Nel mese di giugno sono andata in agenzia per informarmi del costo e delle compagnie ma sapevo di non poter disporre di tutti quei soldi. Quando ho riferito a mio marito timidamente il costo,ricordo che mi chiese se desideravo realmente andare a New York, io risposi che la spesa era eccessiva ma che in effetti sarei stata felice di accelerare il tutto, mi finsi anche mortificata e lui, fra il serio e il faceto, con grande mio stupore, esclamò:«Certo che te lo meriti!». Sapevo che quella frase avrebbe avuto un seguito e infatti un ironico sorriso si dipinse sul suo viso ma ormai l’aveva detto e lo intrappolai. Chi mi aveva stimolata era stato mio figlio:«Prendila come un’esperienza da vivere non come una compensazione». Mi faccio una piccola pennichella, all’improvviso sento una voce:«Fra quindici minuti atterreremo sulla pista dell’aeroporto JFK, i passeggeri sono pregati di allacciare le cinture».«Ci siamo!». L’emozione mi pervade fino a sentire un brivido nella schiena, mi scende una lacrimuccia sulla guancia. Sono felice! Sono lì dove ho sempre sognato di essere e provo una sensazione stranissima di pace come colui che, dopo un lungo viaggio, torna a casa. Mi chiedo stupefatta il perché di tale sensazione. E’ semplice. Quel cordone ombelicale tra me e New York è saldo, intenso. New York è la terra dei miei padri.
Che bel viaggio ! Ero lì con te, là dove vorrei tornare un giorno, con quella stessa emozione per il volo e poi per la grande città che è New York. Si dai, passano emozioni.
Grazie per avermi fatto viaggiare, anche se soltanto per i pochi minuti del tuo racconto breve e intenso. In un momento in cui viaggiare ci fa così paura, leggendoti ho riassaporato l’ebbrezza e l’emozione di spiccare il volo. Mi è piaciuto anche il finale, che mi ha lasciato piacevolmente in sospeso, a pensare alle sensazioni che proverà la protagonista quando visiterà Ellis Island. Brava.
Grazie!!!!!!