Premio Racconti nella Rete 2020 “Rhodos” di Tommaso Deidda
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2020
-Sei il cielo, sei un soffio di freschezza in una giornata afosa, una goccia di condensa su un calice di athiri ghiacciato, freddo vino che mi guida verso la divinità, il sogno in un pomeriggio estivo sotto un pergolato di acerbi grappoli d’uva-. Quante volte aveva ripetuto quelle frasi al volto immaginato lì davanti, sul grezzo muro di pietra, un’icona segreta nel fondo buio della cella, il cinabro, il porpora, il blu, brillavano, riverberandosi dolorosamente sui sensi del giovane pope, quante volte aveva proteso le mani per afferrare quel sogno, ghermire per baciare avidamente quel volto d’oro.
Fuori il giorno, il mattino di Rodi, un pezzo di Grecia sgretolata in sassose e polverose contrade che scendono fino al mare, una Grecia ormai senza più filosofia e sapienza, una Grecia dalla gola secca, un’arsura senza fine, la gola pietra dura, sonora di secchezza, note di basso continuo, un violoncello che aveva da tempo tarpato le ali ad un ingenuo Icaro, costringendolo a volare su quelle pietraie di un tempo che non c’è più, quelle asciutte pietre che erano i camminamenti, le strade che portavano da un mondo ad un altro. Oscure querce piene di storie sorprendenti, icone immaginate, incensi, tè nel bicchiere al mattino, il sole che ferisce gli occhi, che addolcisce le ispide e scure barbe di monaci pieni di curiosità, che arrestano i sogni alle porte delle loro celle solitarie, ma non ferma lo sguardo degli occhi neri che seguivano ogni giorno il cammino del ragazzo, Kostantinos, il suo nome, i capelli lisci, ben pettinati, ancora umidi dei sogni notturni, dei baci di madre, profumati di fragranza di pane e di caffellatte
-Ciao Kostantinos, ho innalzato akathist alla Theotokós nel mattutino, e poi ancora alla prima ora, per la tua salvezza, adorato mio-.
Il ragazzo costeggiava il muro est della chiesa, proprio dove i raggi del primo sole sembravano concentrarsi su quel bianco infinito di calce. Era bello il ragazzo, era alto e magro, inconsapevolmente seducente, era l’icona perfetta, incarnazione divina, ma con un abisso nero e profondo degli occhi scintillanti. Il pope stringeva il libro delle preghiere, il Kyrie eleison sciolto in bocca prima di colazione, Dèipara misericordia per noi, le mani gelate dall’asciugarsi del sudore della febbre notturna che svapora all’alba. Gli occhi neri scintillavano ancora nell’anima, ma il richiamo della vita è così forte, stordente, frammisto all’incenso delle funzioni mattutine, quando i sensi si sciolgono, la mente si svuota, l’essere si rende così vulnerabile, così nudo davanti all’alto dei cieli, e allora tutto il miele della sensualità, la ferocia del richiamo dell’inguine, la voglia di affondare i denti nel lucore di quella pelle giovane, quel giulebbe levantino, quell’icona magica, si fondono in estasi di preghiera.
Kostantinos, ignaro, scendeva verso il mare, il passo sicuro, di gioventù forte, senza incubi, aveva in mente tante voglie, tante speranze, tanti desideri, tutto il suo essere era là, oltre il mare, lontano verso città vive, verso una vita brillante.
Apodisis invece era la vocazione, era l’amore verso Cristo, sbocciato nel silenzio della fresca casa di famiglia, la solitudine di pomeriggi estivi, i fiori di verbena e le fresie alla finestra, la preghiera per sentirsi parte di qualcosa, appoggiata sui fiori e sulla brezza estiva, la preghiera scende a fondo nell’anima e poi risale pura se vola su ali profumate, solo quei languori conturbanti, indefiniti, ma che, istintivamente divenivano segreti, l’unico modo per alleviarli, quando le fanciullesche preghiere non bastavano più, era accarezzarsi colpevolmente nel segreto del pomeriggio. Apodisis aveva deciso che non poteva più aspettare, non poteva più trattenere quelle urla silenziose delle sue membra, voleva il sapore dei quel ragazzo. Decise di lanciarsi in una corsa veloce per tagliare il sentiero e arrivare prima di Kostantinos, precederlo prima che il tratto di strada che mancava fino al villaggio divenisse visibile già dalle prime case. Il libro delle preghiere del mattino lasciato aperto sul genuflessorio, insieme ai propositi di penitenza della notte e del risveglio .Come una farfalla, dolce, timida, silenziosa, attratta dal profumo di verbena, ansando un poco, il giovane monaco, si era appoggiato all’albero cavo, lì un
tempo aveva visto Karpos, un amico di Kostantinos, nascondersi all’interno per sorprendere e spaventare l’amico un po’. Li aveva osservati, dopo, litigare scherzosamente, inseguirsi, rotolarsi sull’erba, sfiorarsi con le mani, arrivare con le bocche vicine, fermarsi con imbarazzo, alzarsi scuotendosi dalla polvere, avevano smesso di ridere, si erano guardati profondamente negli occhi, intensamente, poi non scherzarono più e, quasi di corsa, tornarono al villaggio. Era quasi la sesta, anche Apodisis doveva tornare, una tristezza infinita nel cuore, era l’ora della morte di Cristo e lui si sentiva morire un po’, la gelosia. Non li aveva più visti insieme, alle funzioni in Santa Maria si tenevano lontani uno dall’altro. Apodisis non perdeva nemmeno un battito delle palpebre di Kostantinos, tra i fumi dell’incenso poteva di nuovo immaginarlo finalmente suo, le sue mani tra le sue, tutto si fondeva con la divina liturgia di San Giovanni di Crisostomo, riempiva la mente di speranza, di sogni, i sensi erano accesi per prendere il massimo delle sensazioni da portare nel segreto buio della cella, di quella prigione che la notte era un regno oscuro, che racchiudeva nelle sue ombre la gioia e il dolore, la bellezza e l’orrido del peccato, eppure tra quelle fredde pietre sentiva che l’amore non poteva essere lontano dai pensieri di Cristo, tutte le sue parole erano miele che colava con tutta la dolce vischiosità tra le mani, nella bocca, giù in gola, lentamente, un fiume che scorre lento e denso, arriva in ogni punto dell’anima.
Si, doveva cibarsi di quella santa pietanza, non poteva più aspettare. La corsa lo aveva lasciato senza fiato ma era arrivato prima del ragazzo, ora il dubbio era su cosa poteva dire per scagliare tutto il suo amore e il suo desiderio di come poterlo ricoprire della lacca del suo desiderio, ridurre Kostantinos a una tanagrina da tenere nell’oscurità della sua cella per sempre sua. Lo avrebbe preso per mano, si diceva, e felici avrebbero corso fino alla valle di Petaloudes, la valle delle farfalle. Lì si sarebbero lasciati accarezzare dalle ali rosse maculate, esse avrebbero danzato e cantato in una parabasi, lasciando l’agone poi a lui e al suo amato. Aveva tutto in mente, Apodisis, era una commedia d’amore menandrea.
Kostantinos apparve, oh il magico telchino, fabbro che aveva forgiato la spada infuocata che aveva trafitto il cuore di Apodisis, così innamorato del divino e che ora eleggeva a divino un ragazzo per la sua bellezza.
-Ciao Kostantinos!-
-Padre! Buongiorno, mi ha spaventato, non mi aspettavo di trovare qualcuno sul sentiero-
Apodisis tremava, aveva la gola più secca della polvere delle rovine di Agios Stephanos, il suo amato era lì, davanti a lui, solo e suo.
La mano tremante si allungò verso il collo già pieno del sole del mattino, una carezza, un buffetto, ma Kostantinos si discostò infastidito, non gradiva di essere toccato, tanto meno da quel monaco strano, dallo sguardo intenso, sguardo che lo ieromonaco gli teneva addosso, quasi una catena che lo faceva sentire legato durante le funzioni, incantato dalle preghiere, stordito dall’incenso. Gli incuteva soggezione, paura, sensazioni forti, ma non ne era attratto, avrebbe voluto fuggire da quello sguardo rapace, forse cattivo, – forse è un demonio-, aveva pensato Kostantinos, ne aveva paura, anche se si vergognava di averne, – non posso avere paura di un monaco, è un uomo di Dio-. Ma nei suoi pensieri reconditi, riaffioraravano le superstizioni infantili, di cui credeva di essersi liberato, ma che forse così non era.
Raccolto un coraggio che non sapeva d’avere, provò a guardare il monaco nella profonda oscurità dei suoi occhi, in quegli occhi neri profondi come il mare di notte, distogliendoli subito, sentiva di non avere la forza necessaria per resistere alla forza di quello sguardo, ipnotico, volitivo.
No non aveva la forza per affrontarlo, per chiedergli che cosa volesse da lui, che lo lasciasse in pace, aveva paura dell’inferno in cui sembrava volesse trascinarlo.
Apodisis non capiva perché il ragazzo avesse così tanta paura di lui, forse era stato troppo brusco, troppo insistente nei suoi sguardi.
-Kostantinos, non aver paura, io voglio solo parlarti, voglio solo esserti amico, perché mi respingi?-.
-Perché tu sei un monaco, non possiamo essere amici, io ho già i miei amici, e io non ho niente da dire, cosa vuoi tu da me?-
Lo aveva detto con la rabbia che il ragazzo aveva sentito crescere dentro, ma c’era paura, c’era turbamento, nelle sue parole, persino un po’ di vergogna.
-Voglio essere tuo amico-
-No! Io non voglio un amico, io non voglio te come amico-
-Ho capito, tu provi quello che io provo per te, non averne paura, l’amicizia porta bellezza-
-Non hai capito, io non voglio avere niente a che fare con te-
Apodisis prese dalla sua borsa un libro e lo porse al ragazzo.
-Accetta questo regalo-
-Non voglio nulla da te, lasciami in pace-
Girò le spalle e fece per andarsene, ma Apodisis lo prese per un braccio, per fermarlo, -è solo un libro di poesie, so che ti piace la poesia, ti prego accettalo-
Kostantinos si voltò bruscamente e con tutte le forze spinse via il giovane monaco. Lo spinse via con così tanta violenza che lo mandò a battere la testa su una roccia. Un colpo fortissimo, un rumore d un ciocco spaccato in due da un’ascia, lo stesso che sentiva al mattino quando suo padre spaccava la legna per il camino.
Subito il sangue cominciò a scorrere dalla testa di Apodisis, un ruscello che tingeva di rosso le piante selvatiche di tè.
Kostantinos guardò quel corpo inerte, la sua veste nera impolverata, i capelli, la barba impolverata e già imbrattata di sangue, il kamilavkion era volato via dalla testa ed era lì, un po’ discosto.
Tutto formava un’immagine grottesca, la macchia nera della tonaca, sporca di polvere, il verde ed il giallo dell’erba, il rosso cupo del sangue, il bianco della roccia su cui il monaco aveva battuto la testa il biancore del suo volto e delle mani, quelle mani che avevano così spaventato Kostantinos, le aveva viste così rapaci, tutto sembrava fosse saltato fuori dal cilindro di un mago, quel nero kamilavkion volato via dalla testa di Apodisis, così come era volata via la sua vita, i suoi sogni, le sue passioni. Kostantinos raccolse il libro che il monaco voleva regalargli, era consunto, logorato dall’uso, era una raccolta delle poesie di Konstantinos Kavafis, ne scorse le pagine, erano piene di glosse, annotazioni scritte con grafia quasi illeggibile, nervosa. Erano commenti, riferimenti ad altre poesie, alcune pagine, dove vi era spazio, il monaco aveva disegnato a matita, ritratti a memoria di Kostantinos, ora con un volto angelico, ora con un volto demoniaco. I disegni erano accompagnati da versi tratti dalla Bibbia, da versi di tragedie. Era un libro pieno di tormento, di passione, di solitudine. Alcune parti del libro si erano leggermente macchiate di sangue, impolverate, ma a tenerlo in mano sembrava vivo, era come tenere in mano un cuore appena strappato via dal corpo a cui apparteneva ancora pulsante, che ancora manteneva gli ultimi istanti di una vita, i sogni, i desideri, le voglie inappagate, le piccole felicità date da brevi momenti. Tutto poi era volato via, come farfalle dalle ali rosse e gialle che abbandonavano gli alberi di zitia per andare a rallegrare gli dei.
Lo sguardo perso nell’orizzonte di mare e cielo, con il libro ancora tra le mani, Kostantinos era caduto in ginocchio ed era scoppiato a piangere, lì, in quel punto dell’universo, dove vita e morte, gioia e dolore, amore e odio, paura e bellezza, si erano fusi e tutto era finito come una nuvola di polvere o come una nuvola d’incenso. Si era alzato il vento, Kostantinos si alzò, e decise di fuggire, si scappare via. Un nugolo di farfalle come Erinni avevano preso a volteggiare sulla skené, inseguirono il ragazzo, come corifei di tragedia sembravano declamare versi dal libro che Apodisis aveva portato in dono:
“ L’ha perso. Come se non fosse mai neppure
esistito. Voleva – così disse- scampare
al marchio d’un morboso piacere, alle sue tare,
al marchio vergognoso di quelle voglie amare.
Era – diceva- ancora a tempo per scampare”.
E’ la seconda volta che leggo il tuo racconto. Ero sicura di aver lasciato un commento ma evidentemente no. E’ bellissimo intenso si vive la Grecia il sole i sentimenti negati che fanno paura l’amore speranzoso i dubbi i tormenti. Complimenti molto bravo
Grazie Alessandra, hai toccato tasti importanti del mio racconto, sono contento che ti sia piaciuto.
Un sapiente intreccio di sentimenti e sensazioni resi benissimo dalla tua bella scrittura. Bravo, anzi, bravissimo!
Grazie Margherita, sono felice che ti sia piaciuto.
Grazie Margherita, sono felice che ti sia piaciuto.
Avevo un po’ paura nel trattare questo tipo di argomento.