Premio Racconti nella Rete 2020 “27 10 2018. La pecora, un pugno, il vento forte” di Pier Francesco Verlato
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2020In ricordo della Tempesta Vaia, disastro naturale.
Il vento rabbioso spazza il bosco. Un sasso mi rotola tra i piedi. Vedo il muschio sollevarsi dalle radici dei pini. Guardo il cielo plumbeo d’ira e di gloria. Eppure mi sento bene: le particelle umide si muovono all’unisono, c’è grazia nel loro sfilare obliquo a sud-est. Il cielo mi restituisce la pace che mi ruba il bosco, la mia anima afflitta dai rami che si schiantano – e io ho le mani sulla testa – dai tronchi che scricchiolano, dalle radici superficiali sullo stramaledetto carso che fremono a volersi levare da terra. Il vento è un manrovescio che mi deforma la faccia, respiro la pioggia che pare salire dal sentiero invece che scrosciare dall’alto, mi pulisco gli occhi di una polvere umida e nera che stratifica ogni trenta secondi come lava fredda di un vulcano extraterrestre, come una congiuntivite pizzicante e sporca. Un boato mi coglie mentre strofino gli occhi semichiusi. Li strizzo d’impulso e mi accascio d’istinto. Non ci vedo e penso che potrei morire, penso che sto giocando alla roulette russa con Madre Natura, che il bosco dietro casa mi è improvvisamente nemico, lui che mi ha sempre accolto con calore anche in Inverno, quando il terriccio si veste di ghiaccio. Due tre secondi e prendo il coraggio di sbirciare alle mie spalle: un larice giace sdraiato, le radici penzolanti di muschio e di humus, il sentiero una massa di pietre e di foglie e di rami sempreverdi. Corro nella direzione opposta, quella di casa mia, corro verso la contrada di mio padre, di mio nonno, di mia madre che ancora si raccomanda – maledetta la volta che ho deciso di correre con la bufera ma tante altre volte l’ho fatto – corro come se mi inseguisse un fiume d’acqua o di fuoco. Mi vengono in mente i film apocalittici del Cinelux ma chi ricorda quale? Lì tutti scappano e allora scappo anch’io. Sono in gara ma non per il podio drappeggiante di una domenica di sole e neanche con il mio folle e ambizioso gps da polso. Lotto contro la furia di un vento artificiale – ché questo vento non esiste in natura – contro la pioggia marrone, contro i larici che oscillano dalle radici come corpi crivellati da mitologici colpi. Volo sulla terra che si muove, le punte dei piedi che non trovano appoggi. Maledetto altipiano, maledetto terreno così basso e instabile su cui gli alberi crescono abbracciati l’uno all’altro, ché se va giù uno poi si tira dietro tutto il bosco. E io, formica epilettica tra tessere di un domino verde-scuro-dondolante, balzo agile sui traumi interni di questa straziante ossessione podistica. L’io diciottenne campione di corsa in montagna non trova sfida migliore se non quella di portare in salvo il me quarantenne accecato di fango e di aghi di pino. Cado non so come e mi ritrovo su un fianco. Mi fa male la spalla e il bacino, mi sanguina una tempia. I dolori che mi accompagnano sempre, quelli alle anche e alle caviglie – e che ingoio a colazione con l’analgesico – tornano improvvisamente con l’acume delle peggiori giornate. Mi rialzo con un balzo inumano, un’avance improvvisa e violenta al mio corpo a voler testare la capacità di resistere e reagire. Mi sento vivo e all’erta, forte dalle dita dei piedi alle punte dei capelli. Mi assesto su quello che rimane di un giramento di testa e ricomincio a correre aumentando gradualmente il ritmo per recuperare confidenza con il terreno. Provo una strana fierezza nella falcata lunga e disperata, nel distinguere le ombre a malapena, so che tutto finirà e che io, più che il sollievo del sopravvissuto, sentirò l’orgoglio del temerario. Ma cado ancora, questa volta in avanti, un ginocchio urta la punta di un sasso, la punta del naso striscia sul traverso di un ramo ispido e fangoso. Mi rialzo, lentamente questa volta, e ricomincio il vortice di balzi rapidi, il fiato trattenuto tra i denti, la mano destra sugli occhi a mo’ di visiera. Se non perdo il sentiero mancheranno cinquecento metri, poi la carrabile bianca sarà percorribile. Riprendo a correre e ogni passo è una scommessa con il terreno animato da un vento sotterraneo, come se un dio arrabbiato si ingegnasse a pompare aria sottoterra per agitare il manto naturale con onde discontinue. Il vento mi soffia mi scaglia addosso tutto ciò che incontra. Un faggio a monte del fu-sentiero si solleva dal lato destro inclinandosi lentamente a sinistra. Non è stabile e il dio malvagio ne dirige la punta verso di me, come se mi avesse visto avanzare veloce, zoppicante e disperato, e mi puntasse contro l’artiglieria pesante. Mi alzo e mi piego sulle ginocchia, mani a coprire completamente gli occhi. Sono ancora abbastanza distante e, anche considerata l’altezza del faggio che presto rovinerà a terra, dovrei essere in salvo. Odo il tronco e i rami spezzarsi: un rumore di frittura amplificata, una violenza simile allo scaricarsi di un mercantile di patate in un mare di olio bollente. Il tonfo è magnifico: aggiunge una vibrazione gutturale e profonda all’incresparsi ondoso del terriccio. L’albero è sdraiato longitudinalmente al fu-sentiero – massimo sette dieci metri da me – e io lo percorro sul fianco, incastrando cautamente i piedi tra i rami. Lo supero del tutto, sputo con forza un liquame nero che mi si stampa sul mento e riprendo la corsa verso lo spiraglio di luce. Tutt’intorno, fritture ciclopiche e tonfi primitivi. Saranno duecento metri adesso, lo spiraglio di luce diventa caleidoscopio: non più il verde scuro e il marrone e il giallo delle foglie ma il cielo un po’ più in là. Lo osservo nelle mille sfumature di grigio e di nero e di arancio-tempesta. Sono fuori dal bosco ma il caleidoscopio è meno onirico di quanto sperassi: alberi sradicati a decine, stesi di traverso sulla strada bianca. Scavalco tronchi centenari agonizzanti l’uno accanto all’altro – alcuni l’uno sull’altro – pronti a morire come soldati rastrellati in un’infame fossa comune, a connotare un altro cimitero di guerra in un triste territorio – l’altopiano di Asiago – dove le fosse comuni e i cimiteri sono ovunque. Sul ciglio della carrabile, testimone cosciente del genocidio, una pecora belante di disperazione, dispersa dal centinaio di pecore belanti e unite, sfuggita a un cane-pastore accecato dalla pioggia e dalla necessità di salvare il salvabile. Un dolore come un pugno allo stomaco mi coglie quando decido di abbandonare la pecora al sonno eterno. Il susseguirsi di tonfi è adrenalina, energia incosciente pompata con vigore nei quadricipiti stanchi. A mano a mano che avanzo, la strada è sempre più libera e io posso correre anche per trenta quaranta metri prima di affrontare un altro tronco senza vita. A un certo punto, l’asfalto mi coglie di sorpresa come una carezza forte e sicura sotto la pianta del piede. Le auto parcheggiate di fronte ai garage, le linee bianche che delimitano la carreggiata mi comunicano civiltà, salvezza e calore. Il dolore da quasi nullo è sempre più pungente e mi convinco che siano i nervi che si rilassano per cominciare a reagire in modo normale: gli squarci sulla tempia e sul naso mi sembrano punte di coltelli agitate lentamente, il piede destro poggia a terra e produce l’effetto deflagrante di un calcio sul rene. Quella rossa è casa mia, quella col gallo dipinto sopra l’ingresso. È buia di elettricità, la porta si apre a una debole spinta e allora mi accorgo che anche la spalla destra è malconcia. Mio padre è sul divano, le gote rosse d’ipertensione e di Merlot, lo sguardo spento. Mi madre si lancia verso di me con il balzo della montanara sessantenne, la chioma corta e grigia, l’unto dei capelli che si staglia sulla luce vibrante delle candele.
– Odio Piero, steto ben, stai bene? O Signor, dai che te sí a casa.
– Dame ‘na man mama ché non so mia bon a cavarme zo, non riesco a spogliarmi – La voce è inesistente e prima che finisca di parlare le sue mani sono su di me, sulla maglia tecnica e sui lacci stretti delle scarpe.
– Aldo, meti l’aqua calda nela vasca se la ‘riva ancora. Se no metela sui foghi – Il tono calmo dei comandi familiari è subito senza ribellione da mio padre – Vedemo come che ‘l sta, se no te lo porti all’ospedale.
– No mama. Un bagno, un minestron e te vedaré che doman se gavaremo desmentegà, ci saremo dimenticati – Il bagno caldo e il minestrone bollente mi riportano a nuova vita: il sangue galoppa tra i vasi fino alla punta delle dita e io ricomincio a sentire, a vederci, a capire. La radio a pile descrive mari caldi e porti sventrati, venti alpino-tropicali, accordi di Parigi disattesi da potenti con la cravatta eloquente e il sopracciglio alzato. Cambiamento climatico, così lo chiamano, anche se a Asiago, dove non fa mai caldo, non ce ne siamo mai veramente curati.
– Mai vista ‘na roba del genere – confessa con un fil di voce mia madre sull’onda emotiva dello sventato pericolo del figlio e delle notizie apprese all’apparecchio Brionvega.
Resto in silenzio due tre secondi, il tempo che un’altra cucchiaiata di minestrone mi consenta di mettere in fila le parole, prendo fiato e faccio appello a ciò che resta della voce consumata dal vento e dalla pioggia – E invece mama, adesso te l’è vista la realtà, te l’è capìo che non se salvaremo più.