Premio Racconti nella Rete 2020 “Guglielmo” di Giuseppe Raineri
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2020Un uomo, consumato dagli anni, dalla vita, da piccole e grandi disattenzioni sue e di altri, dall’indifferenza, se ne sta seduto sopra un muricciolo che fa da argine al fiume.
Scruta l’orizzonte, prova meraviglia ancora e sempre e i suoi cani guardano lui scodinzolando in affettuosa ammirazione fissandolo negli occhi stanchi, appesantiti dopo una notte insonne e fredda passata all’addiaccio come molte prima di questa e molte di quelle che verranno.
Per scelta, per necessità, per rassegnazione.
In quegli occhi affaticati non c’è astio, ansia di vendetta, di riscatto, solo attesa di venire scaldato dai primi raggi del sole.
Oggi sarà una buona giornata e mollemente la memoria torna con dolcezza al passato…
Dicevano che la vita era stata crudele, ma lui non se ne lamentava, erano gli altri ad esprimersi così parlando di lui.
Nelle sue continue peregrinazioni aveva scelto sempre luoghi dove trovare acqua sotto forma di mare, di fiume, di lago senza riuscire a mettere radici da nessuna parte.
Gli unici compagni erano i suoi cani, i soli che lo accettavano senza pretese di cambiarlo, plasmarlo, educarlo.
Gli avevano insegnato che per avere successo nella vita doveva porsi obiettivi raggiungibili e così aveva deciso di non porsene affatto; le donne di casa si raccomandavano di continuo “Guglielmino studia, impegnati, così diventerai un uomo; diventerai come il nonno, come il papà…”
Entrambi i suoi esempi uscivano prestissimo la mattina e rientravano di sera stanchi e abbacchiati, sfiniti da una giornata ripetitiva, giusto in tempo per consumare la cena, pronti per affrontare la giornata successiva, asserviti a ritmi di lavoro gravosi più che esserne padroni.
Guglielmo alla fine della scuola, dove se l’era cavata con il minimo dello sforzo, prese altre strade e scoprì di essere ancora capace di sorridere, i suoi due modelli lo erano un po’ meno.
Si mise in cammino senza mete precise né mai l’intenzione di tornare là da dove era partito; ovunque arrivò, non riuscì a trovarsi pienamente a proprio agio.
Si accontentava di nutrirsi di quello che trovava se lo trovava, altrimenti digiunava senza soffrirne e finché la buona salute lo assisteva non aveva nulla di cui lagnarsi.
Solo i cani lo preoccupavano; dipendevano in tutto da lui.
Nulla pretendeva e poco chiedeva e quel poco lo faceva con molta discrezione, sempre.
Così l’avevano cresciuto.
Non serbava rancore verso chi lo guardava con circospezione o lo redarguiva con disprezzo, quasi con odio, intimandogli di andarsene a lavorare per guadagnarsi di che vivere.
Trovava però inspiegabile tanto rancore verso un perfetto sconosciuto; era incredibile che potesse scaturire da benpensanti di cui non poteva mettere in dubbio impegno e serietà, nobilitati da un lavoro, qualunque fosse.
Piuttosto temeva che si trattasse di alienazione, di paura, di pregiudizi, di una diffusa insoddisfazione per la vita.
Era intimamente convinto di non essere un parassita come invece traspariva dagli sguardi accusatori di alcuni passanti; si proponeva umilmente, senza mettere gli altri in difficoltà e non appena gli riusciva di fare qualche lavoretto intascava il poco che bastava per sé e i suoi cani, senza curarsi troppo di ciò che l’aspettava.
Osservava la gente e la trovava troppo nervosa, troppo bellicosa ed aggressiva; agiva compulsivamente senza pensare; in compenso e nonostante una vita orientata alla massima organizzazione degli spazi e del tempo venivano perse un numero impressionante di cose.
Aveva imparato a conoscere le persone attraverso quello che si lasciavano alle spalle per distrazione o volutamente e durante le ispezioni delle pattumiere, protetto dall’anonimato della notte, avrebbe potuto ricostruire storie molto personali.
I luoghi che aveva raggiunto, in fondo gli piacevano; un po’ meno tollerava la folla, non capiva la frenesia quotidiana che l’animava, la vita convulsa, l’ipocrisia che veniva nascosta da giustificazioni inconsistenti basate su un benessere fatto principalmente di cose, di innegabili comodità e sicurezze.
Di tanto in tanto entrava in chiesa e si sedeva nei banchi sul fondo; sapeva di non odorare di buono e stava discosto per evitare le smorfie di disgusto che segnavano i volti di chi si avvicinava per scapparsene subito lontano; nelle stagioni fredde vi si rifugiava per scaldarsi un poco, ma non troppo a lungo, per non lasciare soli e incustoditi i cani fuori ad aspettare, con il pericolo che venissero catturati come randagi.
Aveva tutto il tempo per riflettere, per questo aveva scelto quel tipo di vita senza scendere a compromessi con nessuno, uomo o donna che fosse, e con l’intero sistema per non farsi imprigionare dai tanti piccoli tranelli che uno dopo l’altro avrebbero finito con incatenarlo senza scampo ad un modo di vivere che non riusciva ad accettare, se non per pochi aspetti marginali; la soluzione allora era o tutto o niente.
I suoi pensieri ruotavano regolarmente intorno alla questione fondamentale.
Si nasce pieni di bisogni che occorre soddisfare per vivere e far vivere. E poi? Si trascorre il resto del tempo a trovare qualcosa da fare per giustificare la propria esistenza, quando non ci si adopera per porre fine a quella degli altri.
Forse un premio dopo una vita improntata al bene poteva essere appropriato: una speranza, solo un’illusione, un tragico inganno? Non poteva invece bastare il vivere tutti una vita morigerata, minimalista, poco dedita all’accumulo senza cadere nella trappola di una crescita senza limiti poco credibile?
Non voleva creare legami stabili con nessuno e così aveva conosciuto il prezzo della libertà: la solitudine e non voleva rinunciarci per nulla al mondo.
Molto meglio consolarsi contemplando lo spettacolo della natura, almeno fino a quando non si fosse riusciti a deturparla.
Guglielmo viveva senza tempo. La sua vita si sarebbe consumata in un lunghissimo unico istante…
Il freddo è ancora pungente.
Sente le gambe tremare. Accarezza i suoi cani. Sorride, e pensa che in verità nessun’alba è mai uguale all’altra.