Premio Racconti nella Rete 2020 “Concerto a due” di Giuseppe Raineri
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2020Lui, da parecchi giorni si presentava con il suo violoncello sempre nello stesso posto.
Il rituale si ripeteva ogni volta: apriva un seggiolino richiudibile, di quelli portatili rimediato chissà dove, metteva tutto in buon ordine sul marciapiede cercando di occupare meno spazio possibile. Si scaldava le mani, passava all’accordatura e dopo una pausa ad occhi chiusi iniziava la sua esibizione.
Quando pioveva si rifugiava sotto il porticato per proteggere il suo prezioso strumento.
Lei, passava di lì e ascoltava.
Pochi si fermavano e di quei pochi ancor meno erano quelli in grado di apprezzarne le capacità.
I più si limitavano ad un rapido ascolto delle sue esecuzioni, pochissimi si degnavano di seguire un brano dall’inizio alla fine, qualcuno lasciava frettolosamente una moneta più per carità che per apprezzamento del giovane musicista.
Non le sembrava un artista di strada qualunque.
Non era solo bravo.
Aveva talento e ottime doti da solista.
Cosa ci faceva per strada vestito come un mendicante anonimo invece che venire idolatrato da una schiera di severi ascoltatori di musica impegnata?
Si presentava con un aspetto trascurato, ma non ero sporco.
Quale astrusa motivazione si doveva nascondere dietro quelle contraddizioni?
Profumava di una fragranza antica, di sapone alla lavanda come quello che usava sua nonna per il bucato lavato a mano nei lavatoi e che, nonostante l’età avanzata, continuava a fare con le preziose lenzuola di lino, sebbene una grave artrosi le stesse deformando le dita delle mani; lo fece fino a qualche giorno prima di morire, quando lei era piccola, ma già perfettamente in grado di cogliere e ricordare dettagli anche minimi della sua vita.
Eppure, ancora più del viso, segnato da profonde rughe, e delle parole, le erano rimasti impressi nella memoria i suoi profumi, quelli che ne annunciavano l’arrivo già a distanza, quello dei letti e dei cuscini, dei vestiti puliti di fresco che aveva imparato a riconoscere tutte le volte che era stata sua ospite felice nella casa di campagna.
Lei, di musica ne capiva. Era violino di fila, ma sperava di poter intraprendere la carriera di solista, prima o poi.
Prese coraggio e sospinta da una determinazione a lei sconosciuta, un giorno di quelli si presentò con il suo violino. Temette di aver indugiato troppo, non c’era nessuno.
Chiese ai negozianti vicini, ma non avevano saputo dirle nulla; quel giorno il giovane “randagio” geniale non si era presentato.
Ritornò il giorno successivo e quello ancora dopo.
Niente e nessuno, sembrava che si fosse dileguato nel nulla, senza lasciare tracce.
Non si dette per vinta fino a che il quarto giorno, un giorno di sole addolcito da un’aria tiepida, lo trovò al suo posto che suonava il preludio della prima suite di Bach.
Ascoltò con grande attenzione ed attese la fine del pezzo, quindi si fece avanti approfittando del momento di estasi che coglie ogni artista alla fine di un’esecuzione particolarmente intensa.
Non ci fu bisogno di sprecare parole rese inutili dall’atmosfera solenne di un incantesimo ben riuscito.
Sembrava che tutti e due avessero vissuto solo in attesa di quell’incontro.
Lei si dispose al suo fianco e aprì la custodia del violino; la mise da parte con cura dopo averne estratto delicatamente il suo strumento.
Aveva con sé alcuni spartiti nel caso ne avesse avuto bisogno.
Non furono necessari.
Accordò il suo strumento e lui con lei in un silenzio denso e carico della tensione che anima ogni interprete all’inizio di un concerto.
Fu lei a prendere l’iniziativa ed accennò le prime note di Oblivion di Piazzolla e lui non ebbe alcuna esitazione nell’accompagnarla ed alternarsi nel ruolo di solista.
Intorno a loro prese vita un capannello di curiosi, ma nessuno dei due diede segno di accorgersene.
Si era formata una cortina densa di nebbia che li proteggeva dagli sguardi, dalla curiosità suscitata dalla coppia inconsueta e apparentemente mal assortita.
Suonarono per il reciproco piacere, improvvisando nell’alternarsi alla guida della melodia, ma mantenendosi fedeli alla partitura del compositore suonando a memoria.
La sintonia, la complicità erano perfette.
Non le era mai accaduto di trovare un simile affiatamento con nessun collega.
Non era questione di orecchio assoluto, di indubbie capacità.
La sua competenza in musica la induceva a pensare che ci fosse altro sotto la superficie di quel suo apparire tanto dimesso.
Bastava accennare le prime note di un brano e lui subito seguiva nella corretta tonalità dimostrando di conoscerlo a menadito.
Il suo violoncello sembrava di dimensioni leggermente diverse rispetto agli strumenti dei violoncellisti con cui suonava spesso.
Chiese consiglio ad uno di loro che era additato come massimo esperto di liuteria.
Lo subissò di inviti a seguirla, al punto tale che quegli, stremato, accondiscese ad accompagnarla.
Venne, guardò e si rese subito conto che si trovavano di fronte ad uno strumento di un certo valore. Non ne era sicuro, ma poteva trattarsi di un violoncello costruito da un certo Goffredo Cappa, liutaio piemontese vissuto a cavallo del 1700 ed allievo dell’Amati a Cremona. Per esserne sicuro avrebbe dovuto verificare la presenza di un’eventuale etichetta al suo interno, magari suonarlo, sottoporlo ad una perizia e non accontentarsi di quello che aveva visto, osservando le dimensioni, la vernice, la forma delle “effe”. Sicuramente non era uno strumento dozzinale da pochi soldi né tantomeno uno solo da studio.
Questo le bastava, ed aumentava semmai l’interesse per una persona enigmatica, poco incline ad apparire. Non andò oltre con le sue ricerche né spinse altri a farlo.
Il loro repertorio si arricchiva di volta in volta; non ripetevano mai gli stessi pezzi e nemmeno concedevano bis a richiesta. Facevano concordemente di testa loro senza lasciarsi influenzare. Suonavano per il piacere di suonare e non per il piacere di piacere.
Insistettero con Piazzolla, con Bach, ci provarono con Bernstein, Monti, Haendel, Paganini, si commossero all’unisono con un pezzo che li coinvolgeva intensamente come “Moon River”.
Suonavano con ingordigia, con una fame insaziabile che li sfiancava, felici della loro spossatezza.
Lui insisteva per dividere gli scarsi guadagni, lei con fermezza rifiutava la proposta senza che il suo gesto venisse confuso come un atto di superbia o di pietosa elemosina.
Continuò così per alcuni giorni di seguito in assoluta e libera spontaneità; non vi era alcuna necessità di darsi un appuntamento, gli incontri si susseguivano con una naturalità mai imposta dallo scandire del tempo, dal controllo degli orologi.
Lei fu costretta ad allontanarsi pochi giorni per l’impegno di una tournée all’estero con l’orchestra.
In albergo aveva assaporato il gusto per lei insolito di una pesante solitudine.
Aveva provato un forte disagio, un fastidioso sentirsi sospesa nel vuoto senza riferimenti per non avere avuto modo di raggiungerlo con una telefonata.
Segno che le mancava, cosa mai accaduta prima di allora con quella intensità.
In camera suonò brani che aveva eseguito in duetto, sicura che anche lui a distanza avrebbe fatto la stessa cosa.
Al suo ritorno lo trovò dove l’aveva lasciato come se non ci fosse stata quella seppur breve interruzione.
Silenzi che normalmente potevano destabilizzare, indispettire, mettere in una condizione di disagio, sembravano normali e perfettamente adeguati.
Poi, improvvisa, la fine, senza che nessun segnale lo facesse presagire.
Si ritrovarono fianco a fianco per consumare una cena modesta, servita in un locale altrettanto modesto, che lui pretese di offrirle senza proferire una parola, senza discussioni superflue su chi dovesse pagare, forse in parte per sdebitarsi dei guadagni insoliti di quei giorni. Lei lo lasciò fare.
Ancora una volta non c’era alcun bisogno di sciupare una naturale intesa con parole inutili.
Era goffo, impacciato senza il suo strumento.
Quella notte bruciò di fuochi ed ardori.
Dopo quel giorno, lui smise improvvisamente di frequentare la piazza.
Lei capì e non provò a cercarlo.
Tacitamente non se la sentirono di tentare la sorte con qualcosa di irripetibile.
Entrambi forse temevano che all’apice della complicità, della comunione, della reciprocità non fosse possibile andare oltre se non guastando tutto con una forma di dipendenza e con la forza distruttiva e svilente dell’abitudine.
Né morte, né malattia avrebbero potuto insinuarsi ed imporre la loro volontà con la coercizione di eventi di fronte ai quali si sarebbero sentiti impotenti.
Decisero loro, forse con dolore, ma senza rimpianti.
Eppure, non nutrendo false speranze mai, talvolta, alla fine di un concerto, lei si scopriva intenta a cercare con lo sguardo quello di lui tra il pubblico che sciamava verso l’uscita.
Un gesto innocente, un breve cedimento alla speranza in un miracolo, una veloce rapida incrinatura di una certezza indiscutibile.
Tutto il resto sembrò riprendere il suo corso naturale, senza di loro.
Una parentesi aperta e subito chiusa.
Nonostante si fosse diffusa la voce di quelle esibizioni inconsuete che richiamavano gente così eterogenea per la bravura indiscussa della coppia, nessuno diede troppo peso alla loro assenza e in breve si rassegnarono allo spazio ridiventato vuoto e silenzioso.
Quegli incontri non cercati, la musica suonata con l’ingordigia di chi non è mai sazio di bellezza, la magia di un incontro imprevisto, tutto si stemperava nella certezza intima che di casuale non ci sia nulla, che doveva convivere con una malinconia sorda e allo stesso tempo con la gioia di aver superato insieme i confini angusti della fisicità e debellato la tirannia del tempo che nulla avrebbe più potuto su di loro.
Non si videro mai più.
Un bel racconto dai toni delicati, la casualità di un incontro tra due sconosciuti, complice tra loro la musica. Il ragazzo che suona per strada per vivere, la ragazza che lo incontra, lo ascolta, si avvicina con il suo violino, suonano e si innamorano. Una piccola avventura che sebbene finisca all’improvviso così come era cominciata non lascia amarezza, al contrario la loro unione anche se breve nel superare la materialità del tempo, non passerà nell’oblio.
Un racconto impalpabile lo definirei: i protagonisti si conoscono intimamente attraverso un linguaggio che va oltre le parole.
Probabilmente, davanti ad una piazza vuota, mi sembrerà di vedere quell’improvvisato palco e quel legame fatto d’assenza. Bravo, Giuseppe!