Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2020 “Un cuore obeso” di Marco Lessi

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2020

“Cos’ è? Hai sentito?”

La voce di Giacomo era uno squillo. Mentre la nonna, ferma e indifferente, sembrava al riparo da ogni rumore.

“La serratura. C’è qualcuno”.

“E allora?” disse alzando leggermente la testa dal libro. “Vai a vedere”.

Senza pensarci due volte, Giacomo balzò giù dalla sedia per raggiungere l’ingresso.

Vi trovò un uomo snello, quasi bello.

“Ciao”.

Giacomo indietreggiò di due passi. “Chi sei?”

Il presentimento di gioia si era trasformato in delusione.

“Come chi sono”.

“Non ti conosco”.

“E adesso?” domandò dopo aver gonfiato le guance con esagerazione.

Un lampo attraversò la testa di Giacomo e lo fece indietreggiare di un altro passo.

“Babbo?”

“Proprio io” disse, rimarcando con orgoglio ogni singola lettera.

“Felice di vedermi?”

“Eccolo, è tornato”. Nel frattempo la nonna li aveva raggiunti. Abbracciò il figlio che non vedeva da diversi mesi e lo baciò su entrambe le guance.

“Sapevo tutto. Volevamo farti una sorpesa”. Disse rivolgendosi al nipote.

Giacomo però non rispose nulla. Era allibito, sotto shock.

Così fece un altro passo indietro e ancora un altro per rintanarsi in camera sua e levarsi dagli occhi quella che gli pareva soltanto una strana creatura.

Dopo qualche ora il padre andò a bussare alla sua porta.

“Posso entrare?”

Lo trovò davanti al computer, impegnato a giocare. Così gli si avvicinò lentamente e lo abbracciò. Giacomo però si divincolò subito dalla stretta e da quelle braccia stranamente ossute.

“Cosa ti è successo?”

La domanda gli stava addosso come una seconda pelle.

“Adesso ti spiego tutto”.

“Almeno il treno l’hai visto passare?”

“Quale treno?”

Secondo la versione ufficiale suo padre era impegnato in un viaggio d’affari, un’estenuante cavalcata attraverso l’Asia. In quel periodo di assenza gli aveva inviato anche delle cartoline che aveva custodito gelosamente nel proprio diario. Una proveniva da Bangkok, un’altra ancora da Shanghai. Un’altra ancora da Hanoi, dove un binario passava direttamente in mezzo a un quartiere colmo di case.

“Il treno del Vietnam, dove sei stato”.

“Ah si certo”.

“Allora”.

Le parole gli uscivano incompiute e tremanti.

In fondo la risposta l’aveva già davanti agli occhi.

“Cosa ti è successo? Dove sei stato tutto questo tempo?”

“A dimagrire”. Lo disse sottovoce, come se si trattasse di una cosa da niente, ma il suo sorriso plateale e incontrollato, diceva l’esatto contrario. “A perdere i chili di troppo che avevo accumulato negli anni. Adesso..”

“Come hai potuto?”

“Adesso sto molto meglio. Sono molto più felice di prima”.

Grida e singhiozzi. Giacomo vi sprofondò come in una voragine. Impossibile non cadervi dopo quelle ultime parole.

“Ora sei come tutti gli altri”, urlò, “uguale agli altri”.

Il padre sospirò. Si passò una mano sulla fronte. Mai si era immaginato che sarebbe stato facile, ma nemmeno così difficile.

“L’ho fatto per la mia salute”.

“Egoista”.

“L’ho fatto per continuare a starti vicino”.

“Ora siamo troppo diversi. Non siamo più una coppia”.

“Per evitare di addormentarmi una notte e non risvegliarmi più. L’ho fatto per te”.

“Per non morire?” La voce di Giacomo si alzò debole.

Con discrezione il padre annuì rivelando a Giacomo un pezzo di mondo che non si era mai immaginato.

Suo padre rischiava di rimarci secco? Di stramazzare al suolo all’improvviso? Di rimanere sepolto sotto le coperte senza avere il tempo di chiedere aiuto, di dire no, non voglio?

Si sentì invaso da un crescente senso di colpa.

“Mi dispiace”.

“Non potevi saperlo. Non ti preoccupare”.

Giacomo allora alzò lentamente il capo verso di lui. “Scusa”.

“Non ti preoccupare,” rispose il padre schiarendosi la voce, “saremo ancora una coppia”.

Poi guardandolo con un’intensità nuova aggiunse. “Ti aiuterò a diventare come me”.

Nuovamente Giacomo si sentì in pericolo come chi fuggito a un crollo continua a sentire la terra tremare sotto i suoi piedi.

“Scordatelo, mai come te”.

“Giacomo, mi devi ascoltare”.

“No. Mai”.

“Vedremo, vedremo”.

Lo disse stringendo i pugni e gonfiando i bicipiti nuovi di zecca, mentre il dispiacere dell’uomo che era stato si mescolava all’orgoglio dell’uomo nuovo che si guarda allo specchio ed è magicamente in pace con se stesso.

Il mese successivo, Giacomo reagì. Ingurgitò mezzo bicchiere di candeggina e contro ogni previsione si risvegliò in un letto di ospedale. Prima di aprire gli occhi e riaffacciarsi alla realtà brutale che lo vedeva improvvisamente figlio di un essere prestante, sognò sua madre. Non era soddisfatta di lui e del suo gesto. Lo rimproverò per il suo comportamento e per tutto l’odio che aveva nutrito nei confronti del suo nuovo padre. Gli aveva spiegato che la sua magrezza non era un disonore ma una conquista. Doveva esserne fiero, appoggiarlo e, infine, seguirlo. Giacomo avrebbe voluto ribattere una serie di cose ma non fece in tempo.

All’improvviso la morbida immagine della madre lasciò il posto alla faccia smunta e insolitamente viola del padre.

“Cosa ti è saltato in mente? Sei forse impazzito?”

Giacomo non battè ciglio. Sbattuto dalla lavanda gastrica e dai postumi dell’avvelenamento si godeva il suo stordimento.

“Per favore, non farlo mai più. Ci hai fatto prendere un grandissimo spavento”.

Il plurale lo lasciò interdetto.

“Come?”

“Ci hai fatto prendere uno spavento”.

“A chi?”

“A me e a lei”.

Si spostò e indicò una donna sulla soglia della stanza.

Mora e alta indossava un top da cui emergeva con prepotenza un seno poderoso. Era il tipo di donna su cui lui e i suoi amici avrebbero potuto fantasticare per ore. Perfettamente sovrapponibile a quella donna che Armando gli aveva mostrato in un video.

Si fece avanti con energia, battendo i tacchi sul pavimento.

“Piacere Samanta”.

“Giacomo”.

“Tesoro, non mi avevi detto che era così carino”.

Suo padre sbuffò e fece una smorfia. Samanta gli mandò un bacio con le mani. Poi tornò a riporre le sue attenzioni verso Giacomo.

“Cucciolo, cosa hai combinato?”

Accennò un piccolo sorriso. Ma solo per rispetto alle tette che inevitabilmente gli mostrava. Per il resto era sbalordito e terrorizzato.

Oggi,12/08/2019, mentre fuori il sole arroventa le strade e i corpi nudi di molti persone, Giacomo se ne sta al fresco, nella penombra del suo studio. È bello, anzi bellissimo. Sembra un orso polare. Il completo di lino bianco gli fascia le membra con decisione e ne accentua le rotondità. Il volto è massiccio e gli occhi sono due saette che tradiscono un’intelligenza sopra la media, un ragionare che è un galoppo, un saltare feroce da argomento ad argomento. L’aria condizionata lo preserva dall’inferno che c’è fuori. Le persiane abbassate lo proteggono da una luce che è solo fastidio, un solletico inutile. È teso ma non è la fame. Sulla scrivania ci sono carte importanti. La lettera dell’avvocato del padre che accompagna il suo testamento ed, infine, il referto del medico legale. Non gli importa nulla di cosa gli abbia lasciato il suo vecchio, potrebbe farne anche a meno.

Ha quarantacinque anni, uno studio legale avviato e nessuno a cui provvedere. È un uomo benestante che potrebbe tranquillamente smettere di lavorare dall’oggi al domani, senza preoccuparsi troppo di ciò che spende. Però è curioso di sapere come si sia consumata la dipartita di suo padre. In questo istante, diverse immagini popolano la sua mente. Vede suo padre attempato entrare in una palestra e in un moto di orgoglio sfidare qualche giovincello al bilanciere. “Sono ancora in grado di tirar su 100 kg, volete scommettere?” Divertiti, lo lasciano fare. Così si sdraia sulla panca, impugna il bilanciere e spinge: uno, due volte e poi all’improvviso crolla. Se le cose stanno così, pensa Giacomo, quel bastardo se le proprio meritato. Però le cose potrebbero essere andate anche diversamente.

Ma questo immaginare è pericoloso, è spostare gli equilibri sapientemente costruiti nell’arco di una vita. Così nella mente di Giacomo si apre una fessura che dà direttamente sul passato, quello reale. Diciotto anni compiuti, eccoli insieme. Uno di fronte all’altro.

“Queste sono le tue chiavi”, gli dice il padre, consegnandogli la via d’accesso al suo nuovo appartamento. “Sul conto troverai i soldi necessari a vivere nei prossimi anni. Ora puoi andare”.

Quella sera stessa nella sua nuova casa Giacomo aveva inaspettatamente versato delle lacrime.

Come aveva potuto lasciarlo andare così? Come aveva potuto una semplice questione di silhouette dividere padre e figlio?

Ora nella penombra del suo ufficio sente una vibrazione scuoterlo da dentro. Rabbia. La sente crescere, salire, invitarlo a gridare ma si trattiene. Anche se è lontano dagli occhi di chiunque non vuole scomporsi. Così prende il referto tra le mani lottando contro l’istinto che lo vuole annichilito nel tritarifiuti e comincia a leggere. Arresto cardiaco nella notte. Si ferma subito spostando lo sguardo nel vuoto. Forse non vuole sapere come sono andate realmente le cose, forse gli basta tenersi l’immagine ridicola di lui schiacciato da un bilanciere. No, non gli basta. Così riprende la lettura e continua fino alle fine senza battere ciglio. Si appoggia allo schienale e chiude gli occhi per lasciarsi invadere da quello che è un solletichio crescente, un calore che lo abbraccia lentamente e gli regala una specie di gioia.

Il paziente, affetto da grave obesità, era seguito da qualche anno da diversi specialisti, tutti sconvolti dalla leggerezza e dalla negligenza con la quale trattava il proprio corpo. Infatti, anche a seguito di piccoli infarti e ricoveri, il paziente si ostinava a non curarsi, limitandosi ad assumere senza criterio i farmaci prescritti e, infine, rifiutando categoricamente l’adozione di uno stile di vita sano e di un nuovo regime alimentare. Un giorno, il cardiologo, nel tentativo di riportarlo alla realtà, gli aveva lanciato una battuta.

“Lei cerca la morte”.

“No, soltanto il piacere. Voglio solo godere”.

Poche settimane dopo, il piacere e il godimento assoluto lo avevano lasciato esamine sul proprio divano. Sul pavimento giacevano dappertutto vecchie lattine di Coca-Cola e tantissimi cartoni. Alcuni erano assolutamente anonimi, altri, invece, portavano con chiarezza i loghi dei migliori fast food della città. Al momento dell’autopsia il cadavere pesava 120 kg.

Rilesse tutto tre volte, poi fece una fotocopia del referto. Lo avrebbe appeso da qualche parte in ufficio, ben in vista. Si sentiva troppo eccitato per continuare a lavorare.

Uscì a fare due passi con l’idea che l’avrebbe raccontato a qualcuno. Suo padre si era lasciato andare senza limiti e lui sentiva un’inedita gratitudine accarezzargli il ventre. L’aveva fatto per lui, per lanciargli un ultimo messaggio. Ne era certo.

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