Premio Racconti nella Rete 2010 “Potrebbe nevicare domani” di Paola Meardi
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2010Francesca è nata il dieci di marzo, in un pomeriggio caldo che tutti stavano aspettando dopo l’ultimo inverno: il primo caldo che porta fuori a passeggiare con calma a fine giornata, che invita a fermarsi per la strada a parlare; o semplicemente a sorridere, a stare lì, guardando il tempo che passa nei giochi d’ombre che fa il vento tra i rami. Tutti l’aspettavano e così mi sembrava di non essere solo ad aspettare l’arrivo di Francesca. Forse è normale, quanti bambini nascono mentre le altre persone nel frattempo vedono nascere, arrivare o cambiare qualcos’altro. Eppure solo quel giorno me ne sono reso conto: la serenità che si respirava sul lungomare era carica dell’attesa che l’aveva preceduta e per questo così intensa. Per me è stato come se tutti avessero partecipato alla nascita di Francesca e che Francesca fosse la risposta a un desiderio molto più grande di quello che percepiva la mia famiglia. Il telefono è squillato mentre guardavo il mare e, dopo aver ricevuto la notizia, mi sembrava che per tutti quel mare fosse diverso, più colorato, più calmo, più bello o non so cosa, perché era il mare di Francesca. Anche se Francesca non sa ancora cos’è il mare e devo fare in tempo a spiegarglielo io, è il mio regalo segreto per lei.
Mio fratello me l’aveva confidato a modo suo, quel po’ di mesi prima, dopo una birra da me. Era emozionato, confuso, anche preoccupato.
«Un figlio ti sconvolge la vita,» aveva aggiunto, ma io ovviamente non avevo capito, perché ci sono cose che si capiscono solo quando le vivi. Secondo me un figlio non mette in discussione niente: è la normale continuazione, il compimento della vita, magari ci realizza ma tutto va ancora nella stessa direzione che vogliamo, che di solito cerchiamo, in qualche modo. Le cose che spiazzano e mettono tutto sottosopra sono altre, sono i fallimenti, le incomprensioni, la morte. La morte sì è controcorrente: fa paura perché non la conosciamo, non ce l’aspettiamo anche quando ci si presenta con rispetto; soprattutto, non la vogliamo, anche se inizia con le stesse lettere dell’amore che è solo l’apostrofo a fare la differenza, l’articolo, e quella lettera t che sbatte sui denti. Così pensavo, ma era un discorso inappropriato, in quel giorno, e a mio fratello nemmeno gliel’avevo fatto. Mi ero accontentato di prenderlo in giro, come si fa tra noi, e l’avevo lasciato dire: ti cambierà la vita, va bene, ma una nuotata insieme ce la potremo fare sempre.
Quando però si è saputo che era una bambina, la reazione a casa mia è stata tale che mi sono ricreduto e ho scoperto che anche la vita mette sottosopra e trasforma. Siamo tre fratelli, noi, e il più grande ha già tre maschietti a sua volta, così, quand’egli ha annunciato che sarebbe arrivata una bambina, non ci abbiamo visto più. La notizia si è diffusa in un baleno, mia madre il giorno dopo già sferruzzava di lana rosa. Mia cognata ha sopportato tutto con grande delicatezza, soltanto si è tenuta per sé il nome e per mesi si è parlato semplicemente della “bambina”. Tutti abbiamo atteso la bambina con una passione speciale. Persino mio padre tradiva l’emozione e ha contagiato anche i cuginetti, non ancora nell’età per snobbare le femmine. Il maggiore sa già leggere e dice che le racconterà le storie: «Ma non quelle di paura» gli abbiamo spiegato «è troppo piccola». Sarà troppo piccola sempre, allora io voglio che suo cugino faccia in tempo a raccontargliene qualcuna lo stesso, anche di paura, che questo sia il suo regalo e possa farlo contento.
Alla fine la bambina è nata prima del previsto, quasi l’avessimo desiderata troppo, e al momento ci era sembrata solo una piacevole coincidenza perché era arrivata con il primo caldo. I parenti erano tutti là, appiccicati al vetro per vedere la piccola Francesca. Che era piccola davvero, e l’hanno messa nell’incubatrice. Io mi sono presentato il giorno dopo pieno di fiori: i fiori della riviera per mia cognata, abituata ai monti dove le stagioni cambiano più lentamente, mentre da me già tutto germogliava. Francesca però era troppo debole per tornare a casa subito, così ci hanno detto all’inizio i medici, mentre facevano una serie di analisi che non finiva più. Avevano cominciato a fargliele già prima, in realtà, anche se mio fratello era sempre rimasto vago. Noi pensavamo che sarebbe bastato il nostro affetto a farla crescere.
Adesso cresce, infatti, cresce piano piano e ce la farà ad andare a casa. La casa è pronta per lei, tutti noi siamo pronti ad accoglierla, eppure non abbastanza pronti a capovolgere la direzione e lasciarla andare via. Perché Francesca ha una malattia genetica che non può guarire e non la lascerà vivere più di due anni.
– Francesca ha un’atrofia muscolare spinale. Dicono che non supera i due anni. – Mio fratello me l’ha detto così, senza girarci intorno; come quando mi aveva detto che sarebbe nata e senza perdere la stessa luce che aveva negli occhi allora, perché per lui è la vita che conta, non quanto sarà lunga. La luce che hanno nello sguardo i genitori nuovi è qualcosa su cui i ragionamenti non fanno presa, non la puoi intaccare nemmeno con un annuncio di morte. Non c’entra niente, la morte, quando inizia la vita. Cosa stanno dicendo, di cosa stanno parlando? La storia si muove al contrario ma lui e sua moglie continuano ad andare avanti, vanno ogni giorno a trovare Francesca, la guardano nell’incubatrice e le parlano, la aspettano per tornare a casa e non c’è niente che cambia dentro di loro, nel loro amore per questa figlia. Ma io che sono fuori e che non capisco niente di figli, sono confuso e arrabbiato. Potrebbe nevicare domani, congelarsi il mare, crollare la montagna, mi sembrerebbe meno assurdo di una bambina che cresce e contemporaneamente muore.
A due anni un bambino corre al mare lungo il bagnasciuga e guarda le sue impronte e ride se l’acqua schizza troppo fredda. A due anni riconosce i personaggi di una fiaba sulle pagine del libro e la vuole risentire cento volte uguale. Distingue i colori, mette le scarpe e assaggia gusti nuovi da solo, col cucchiaio. A volte, a due anni un bambino parla già bene. Mio fratello continua a volare da una parte all’altra della città e ad aspettare che sua figlia vada a casa, così piccola e indifesa, così bella, non pensa ancora a tutto quello che imparerà a fare in due anni. Oppure ci pensa, chissà cosa si dicono la sera, con sua moglie, che io non capisco perché a me sembra tutto un incubo e invece vedo che lui nonostante tutto, ogni giorno, viene sempre fuori e ricomincia e sembra ancora felice come quando mi aveva detto che la sua vita sarebbe cambiata: è cambiata, certo, vorrei gridargli, guarda com’è cambiata, ma perché, perché continua a cambiare? Io non capivo all’inizio cosa sarebbe cambiato e non capisco adesso, che la sua vita cambia davvero, come possa lui invece, adesso, dire che è ancora uguale. Va sempre al contrario di come me lo aspetto io.
Oggi l’ho toccata. Mi hanno fatto entrare, l’incubatrice non è più una macchina ma qualcosa di vivo perché Francesca è viva nell’incubatrice, è un po’ tutt’uno insieme all’incubatrice. Mia cognata se ne sente parte, e allora anch’io mi sono avvicinato alla macchina pensando di farne parte, di incontrare un altro pezzo della famiglia, forse nemmeno il più strano o il più freddo. Poi mi hanno lasciato mettere dentro la mano, dove c’è la bambina, e l’ho toccata. Calda. L’ho sentita, allora non c’è più stata macchina, c’era lei, lei era la vita che sentivo. Francesca è nell’incubatrice e sembra che non veda nessuno, sta lì, con le mani chiuse a pugno e le gambe abbandonate, gli occhi chiusi. Le ho accarezzato piano quelle gambe perché mi sembravano la parte più robusta, più sicura, non c’erano fili né cerotti né sondine, così non ti faccio male, pensavo. Così ti faccio bene, mi senti? La pelle dei neonati è come il velluto, la sfiori appena e poi non sai quanto puoi toccare, sembra che si rompano anche se lo sai che non si rompono. La gamba era così sottile che mi divertiva vedere se ci stava dentro all’anello delle mie dita, l’indice e il pollice ad anello e la sua gambina dentro: ci stava. Allora l’ho seguita, scendendo lento fino alla fine con il polpastrello del dito medio, ho toccato piano il piede, piccolissimo, l’ho accarezzato e mi chiedevo quando iniziano a sentire il solletico i bambini: prima dei due anni? Magari stava ridendo già in quel momento, nel suo mondo dei sogni. Se no le farò il solletico quando sarà più grande. Francesca diventerà grande presto perché tutto quello che può imparare lo deve imparare subito, come tutti i bambini solo che noi ci faremo più attenzione. Quelli che imparano siamo noi, che ascoltiamo Francesca e tutto quello che ci dice. Francesca è più fragile, pensavo. Poi l’ho toccata e ho capito che invece Francesca è più forte. È lei che vive adesso, che grida la vita in faccia a noi che la guardiamo increduli. Quando l’ho toccata ho capito. Per un attimo, poi ha vinto la rabbia e di nuovo non ho capito più niente.
Racconto estremamente toccante, mia ha ricordato “lo spazio bianco” per alcuni spunti. Trasuda di rabbia, perchè a volte la realtà si può comprendere e affrondtarla acnhe con la rabbia. Mi ha colpita la descrizione della morte, concepita attraverso una differenza “(la morte) soprattutto, non la vogliamo, anche se inizia con le stesse lettere dell’amore che è solo l’apostrofo a fare la differenza, l’articolo, e quella lettera t che sbatte sui denti.”
Carmina Trillino