Racconti nella Rete 2009 “Sceneggiata” di Frank Spada
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2009Un’anonima quattroporte in doppia fila accende i fari. Il Capo della mobile irrompe nel traffico di un’ora sempre di punta: labbra serrate e fumo vorticante dallo sterzo.
Il passeggero a lato fissa una goccia che scivola sul finestrino, che si unisce a un’altra. Una ragnatela di percorsi brilla per le insegne accese attorno a un golfo – lettere e disegni tubolari al neon che nascondono i segreti di una città che non si ama.
Il poliziotto di rango è entrato poco prima in un bar per un caffè e una lisciatina ai baffetti per segnale. Chi non lo aspettava è sceso dal sedile ruotando sopra un perno senza fine, ha girato un angolo di strada e si è chiuso al fianco la portiera; stava là con un giornale in mano: attorcigliava i pensieri dentro un bicchiere e deglutiva “cose sue” a sorsi di liquore.
Il guidatore libera dal guinzaglio la pantera bianca azionando la sirena. L’altro abbassa gli occhi sul tappetino grigio di cenere. È un pubblicista, come tanti. Diffonde notizie per addomesticare la stampa; ma lui fa un doppio gioco che gli imprigiona l’anima. Il poliziotto sa che onorarsi la divisa sporcandosi le mani è necessario alla carriera e di lui… per ora quel che basta per puntarla in alto.
La notte scorsa l’ha passata con Ciro, il comprimario che gli imbocca le parole. Una risata ricordando i vecchi bastimenti e un brindisi con “due scozzesi ghiaccio a parte!”, poi via in città – l’immondezzaio esistenziale è una cultura impegnativa da far vivere.
Ciro – in tasca uno sgusciante “pesciolino” a scatto e i pantaloni stretti ai fianchi dalla fame di far strada nella vita – da ragazzo aveva imparato presto a destreggiarsi negli affari. Lui, invece, aveva un coltello a serramanico; glielo aveva regalato Ciro e non lo aveva mai usato.
Cresciuto nel rispetto dell’onorata società, Ciro è diventato il figlio prediletto di uno che tiene una ‘famiglia’ numerosa. Lui, qualche anno dopo quei ricordi giovanili, aveva seguito il padre a Milano. Terminati gli studi liceali si era iscritto a lettere. Già orfano di madre, alla morte del genitore era rientrato al Sud senza una laurea, con una valigia e un manoscritto – un romanzo autobiografico, incompiuto. Ha riavvicinato Ciro che lo ha introdotto con astuzia in un certo ambiente: non ha parenti, possono imboccargli le parole e lo pagano a servizio.
Una frenata scosta il passeggero dai pensieri. Due furgoni ai lati dell’ingresso ed entrano. Dalla guardiola esce una divisa. In fondo al portico qualche luce accesa: un obitorio e un morto che li attende, privo d’identità. Per ora il Capo non ha detto altro.
Lui segue chi fa strada perché deve. Strascica le suole al ritmo delle scarpe che precedono le sue e cerca di adeguarsi a quello che gli altri vogliono da lui, senza sorprese.
La morte sceglie tanti volti; l’ultima faccia è la maschera perfetta per chi sa conquistarsi la sequenza finale della vita – e lui ci sta pensando, mentre cammina sospinto dai ricordi.
Riemerge dal passato la scena di uno yankee che si tuffa tra le onde del libeccio per farsi bello agli occhi di una ragazzina, Lucia – si è esibita disinvolta per attirarlo in un posto defilato. Poche bracciate e lo spavaldo atleta è sbattuto contro un frangiflutti: annaspa, risale qualche metro, si accascia. Lui era là con Ciro; stavano acquattati aspettando il momento per ripulire una divisa militare. Ciro non dà segni d’emozione: un’occhiata al panorama, arraffa e strattona la sorella fissandolo interrogativo; pochi istanti e un “pesciolino” segna la gola di quello sventurato. Lucia non sarà individuata. Mano nella mano i due s’infilano nella breccia di un recinto. Lui li segue stringendo il suo coltello in tasca. Ciro gli dà una parte del denaro, lo deride strafottente. Lei guarda lui senza dirgli una parola.
Lucia è stata il suo primo amore. Da quando è tornato quaggiù l’ha incontrata solo una volta, in una stazione, per un caffè con Ciro e un saluto. Lei vive da tempo ‘in provincia’ – come si dice – e suo fratello la tiene lontano dagli affari.
Il suggerimento di uno sguardo, un serramanico trattenuto in tasca… ricordi che lo tormentano.
– Buonasera dottore!
– Ciao Nino! Fallo preparare, – ordina accendendosi una sigaretta; si incamminano lungo un corridoio. Una lampada sobbalza intermittenze buie. Sul fondo si apre il chiarore di una porta: un camice li fa entrare.
Allestimenti sobri, luce fluorescente di fenolo, pavimento piastrellato azzurro cielo; su due pareti una fila di riquadri in linea: la morte sullo stesso piano.
Il Capo tace. L’inserviente lo guarda; quello alza la testa, annuisce e l’altro tira una maniglia. Un cigolio di rotelline e un cassone lucido di inox scorre fuori in uno sbuffo di condensa. Un lenzuolo appena sollevato e l’inquadratura stringe su un busto e un cranio bruciacchiati: quel che resta del cadavere lasciato a modellare incerte forme sotto il telo.
– Secondo te… il medico legale cosa ha detto?
Lo stomaco dell’interrogato si strozza; dalla sua bocca esce un fiotto di vomito che si allarga declinando il verde tra le fughe piastrellate. Le sue scarpe si macchiano di giallo.
– La prima volta che vedi qualcuno sotto ghiaccio?
– Cosa vuole che le dica? Che questo è stato messo in forno per impedirne il riconoscimento… – s’interrompe allontanando la bava con il dorso della mano.
I baffetti del Capo aspettano in disparte, mentre la calvizie brilla per l’aureola del suo ruolo.
– Non sono qui per aiutarla a riconoscere un morto. Non so chi sia e se fosse per me sarei già a casa.
– Guardalo meglio, – continua l’altro, sollevando il lenzuolo e passandolo in volo all’uomo in camice che lo afferra sorridendo.
Va in scena il resto. Lo squarcio di una lama mostra un colpo inferto sul costato.
– Un morto… come tanti, – risponde di lato.
– Guardagli la mano destra.
Lui riporta gli occhi davanti alla passerella di una portacontainers, da dove ha visto scendere Ciro che stacca dalla fronte due dita, unite, verso l’alto: il saluto a lama di coltello da quand’era un ragazzino. E chiede dove è stato trovato il morto che mostra l’indice e il medio quasi scarnificati.
– Sei pazzo o fai l’idiota tanto per campare? – sganghera fuori l’altro alzando il tono della voce, – Il segreto istruttorio non ti permette curiosità! Su, inventati qualcosa per mandarmi in là il lavoro, facciamola finita.
“Che Ciro non potrà più togliere i cubetti di ghiaccio dal bicchiere” e pensa a quando lo serviva un barman che non lo conosceva.
– Non so cosa dirle.
Il Capo scuote la testa, fa un cenno con la mano a chi per dovere è stato muto e chiude il dialogo: – Sei proprio un pubblicista di poca fantasia!
Il cadavere rientra al suo posto, cigolando.
La quattroporte si rimette in moto. Il guidatore imbocca il fumo di un’altra sigaretta. Dice ghignando che bruciare un morto è solo vilipendio di cadavere e che se nessuno saprà altro… beh, dipenderà da lui – un malavitoso in meno, privo d’identità, fa comodo sopratutto a chi punta la carriera in alto.
Saluti senza convenevoli e il passeggero è fatto scendere vicino a due locali a un primo piano.
Lui svolta un angolo di strada, s’infila in una spider, arriva al vecchio scalo. Sfila qualche cargo addormentato al buio della ruggine, ma di quella nave non c’è traccia.
Un faro sciabola la voce verso il mare. Un guardacoste romba cupo a pieni giri, gli fa eco con brevi colpi di sirena; sono soffocati dal marciume che s’innalza attorno al golfo per la marea che arretra. Lui guarda, ascolta; poi allarga la visuale del ritorno alle dipendenze di qualcuno. Lascia l’automobile sotto il suo ufficio. Sale una scala e percorre un corridoio, apre una porta – sulla targhetta c’è scritto Napoli in notizia. Una chiavetta in mano e si accosta alla cassaforte a muro. Un giro tra le dita e vede il libretto al portatore che gli ha dato Ciro, dicendo che se la fortuna gli avesse girato le spalle lui avrebbe dovuto provvedere a non far mancare nulla a Lucia. Il numero del suo telefono è scritto sull’ultima pagina.
Lo scatto di un congegno a lato della porticina e si alza il doppiofondo dei ricordi. Stringe un serramanico, lo apre. Prende una matita dal cassetto e intacca il legno, lo scheggia via… crac! Ne prende un’altra: crac, crac, crac… una scossa al centro della schiena e le pareti della stanza girano attorno al perno di una giostra. Le gambe si contraggono: si affloscia come una marionetta disarticolata. Si rialza come può. Afferra una bottiglia. S’inebetisce lungo il fondo del liquore.
Una vibrazione prolungata e rinviene dal tempo che non muore, che lo imprigionerà per sempre. Digita un numero e trattiene ogni emozione. Poche parole e spegne il cellulare. Va in bagno. Due tagli secchi e lascia zampillare i polsi – il suo romanzo è terminato.
La notte stessa una donna entra in quell’ufficio. In una vasca: un coltello, un uomo dissanguato in modo igienico. Prende quel che deve, chiude alle sue spalle una targhetta – la morte ha arrossato il golfo di una città che non si ama, ancora; come si dirà senza sapere.
Ti ho scoperto, vecchio Frank: manterrò il segreto bada però, magico funambolo della parola: se il poliziotto che sappiamo scopre che tu scrivi i meglio racconti gialli della city non ti salvi da due/tre notti in gattabuia. Semmai, chiamami. Con affetto il tuo Biagio.