Premio Racconti nella Rete 2010 “Cosmopolitan Hotel” di Paolo Santoro
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2010Un uomo si sveglia in un albergo chiaramente dopo i postumi di una sbornia; si ricorda come ci era arrivato ma assolutamente nulla di quello che aveva fatto la sera prima. Era certo che fossero stati gli amici suoi a portarlo in quel posto ma non sapeva dove fosse.
si alza, si sveglia insomma.
Guarda dalla finestra e si trova in campagna; che ci fa in campagna?
Si osserva le scarpe, macchiate di fango. Erano nuove!
Si fa una doccia tiepida e mentre si asciuga le mani osserva con attenzione il lavabo; il portasapone era di forma ovale con un disegno centrale raffigurante un polpo, un polpo in campagna!
Non era per nulla dissimile ad un porta sapone che egli aveva da bambino . lo prende per mano, lo annusa ammiccando, si guarda intorno;
esce dal bagno, si risiede sul letto, si rimette le calze, le scarpe che tenta di ripulire, la cravatta; è pronto, arriva all’uscio quando si volta e si guarda intorno, vede la stanza come dietro un obiettivo grandangolare; apre la porta.
Il pianerottolo è deserto, punta diretto l’ascensore.
Preme il pulsante .
Nell’attesa si guarda intorno, e riuscendo a sbirciare all’interno di una stanza attigua, vede un bambino disteso per terra, poteva avere cinque anni, piangeva.
Bussa alla porta, la spalanca; il bambino si gira di scatto sospendendo,ma solo per un attimo, il pianto.
L’uomo si accerta del fatto che il bimbo è solo, lasciato a se stesso.
Parlarono con calma e solo quando il bimbo capisce che non ha nulla da temere , iniziano un dialogo.
Spiega che stava aspettando il nonno andato a prendere delle caramelle e forse la colazione.
L’uomo gira per la stanza notando sul letto una divisa nera col fiocco azzurro, probabilmente la divisa da scuola del bimbo.
Anche lui aveva avuto molti anni prima la stessa divisa, e sorrise rimembrando ciò.
Si rivide all’asilo, inseguendo gli amichetti per il cortile; rivide sua madre che lo tranquillizzava il primo giorno, il cestino con i biscotti ed i colori, risentì quegli odori che crescendo non avrebbe mai più risentito.
La finestra aveva tende diverse dalla sua camera, un particolare che lo colpì.
Deciso ad aspettare il nonno del bimbo, aveva tempo e comunque non credeva fosse il caso di lasciare un bambino di quell’età da solo e dato il tipo di albergo, non credeva potersi aspettare un qualche aiuto dalla improbabile reception ,
torna dal bambino che gli racconta del nonno che ogni mattina prima di portarlo all’asilo gli comprava, appunto, delle caramelle e che gli piacevano quelle a forma di fragola
a questo punto l’uomo si allontana d’istinto dal bimbo, allarga gli occhi girandosi di scatto.
Si mette nella tipica posizione del “pensatore” e con un sorriso misto alla tristezza si ricorda che anche a lui piacevano le medesime caramelle da piccolo; istintivamente si guarda alla specchio dell’armadio aperto per verificare le rughe che nel corso degli anni erano inesorabilmente sopraggiunte. Sente come un pugno nello stomaco.
Eppure quel bambino gli piaceva, non era paffutello, sembrava sveglio, e aveva fortunatamente smesso di piangere.
Solo dopo essersi presentato al nonno esce dalla stanza e dopo aver chiuso la porta si rese conto che del bambino non sapeva neppure il nome.
Non attende neppure un attimo e si dirige diretto verso le scale.
Aveva appena imboccato il piano inferiore seguendo con la spalla la ringhiera dell’ascensore quando andò a sbattere contro un ragazzo che attendeva a sua volta l’ascensore stesso.
Lo urtò con tale forza che per poco non lo fece cadere.
Dopo le ovvie scuse il ragazzo iniziò a guardarlo fisso come se lo conoscesse.
Anche all’ uomo quella faccia non era nuova, ma non riusciva ad inquadrarlo;
incuriosito attese l’ascensore insieme al ragazzo che iniziò una piacevole discussione fino a quando per motivi attinenti il dialogo stesso, questi diventò non triste ma sicuramente melanconico.
Iniziò a a parlare del padre e di come non ne soffrisse la mancanza, l’uomo si sentì colpito da tale confessione ed iniziò a sentire il bisogno di riprendere il viaggio verso il basso, a piedi, ma il ragazzo incalzava, continuando a sostenere di conoscerlo.
L’uomo non guardava più il ragazzo, era come assente, guardava in alto e chiudeva gli occhi, si sentiva come tramortito.
Quando si sentì meglio riprese a sentire il ragazzo, con più attenzione, lo squadrò da cima a piedi; vent’anni o poco più, in giubbotto jeans, con una piccola spilla rappresentante la bandiera inglese, un orecchino sul lobo sinistro, ed un anello sull’anulare destro.
Perché non vedi tuo padre, chiese con evidente imbarazzo ormai incalzato dal ragazzo che, era evidente, prese di mira l’uomo come se complice dei suoi problemi.
Il ragazzo rispose, e ciò che l’uomo sentì lo fece ricadere in uno stato di trance.
Sentì il bisogno di sedersi su di una poltrona che non aveva visto fino ad allora, appoggiata al muro, verde e male odorante.
Come per incanto la sua mente viaggiò su mari lontani, ripensò a suo figlio, il piccolo, che a sua volta non vedeva da secoli, senza alcun motivo in effetti, ma era un fatto.
Si rese conto di quanto fosse orgoglioso e di quanto suo figlio fosse simile, evidentemente, a lui.
Vent’anni di silenzii, di stupidi conflitti ancora ben vivi nella sua mente.
E quel ragazzo che non voleva vedere più suo padre per motivi che gli ricordavano quanto successo anni prima a lui.
Avrebbe voluto rispondere al ragazzo, ma nel suo cuore non aveva più parole, sentiva il bisogno di fuggire, il passato, a volte arriva addosso come un macigno.
Ebbe paura che anche suo figlio, la pensasse così, raccontasse di lui così.
Si alzò di scatto, stordito, puntò una mano verso il ragazzo, come per dirgli basta, ma il ragazzo non c’era più, come polverizzato da quel pianerottolo che improvvisamente, sembrava più piccolo.
Riprese le scale e si accorse che ,correva.
Ebbe il bisogno di fermarsi alla prima rampa, sudato, si chiese se gli effetti della doccia fatta poco prima erano ancora evidenti, si sentiva da schifo; si sedette su di un gradino, pianse sommessamente, infastidito dalle luci al neon delle scale; ogni tanto si sentiva così, ma non ritenne quello che sentiva come una cosa ormai standardizzata in lui, non era il solito sfogo, si sentiva diverso, una parte di lui rifiutava di aver torto ma il ragazzo appena conosciuto, gli apri delle stanze, ormai chiuse, con una violenza inaudita.
Perché stava accadendogli ciò?
Dov’era finito?
Iniziò a pensare che nulla accade per caso.
Dalla fronte si intravidero delle gocce di sudore.
Si alzò e si affacciò verso il basso, vide delle ombre nel pianerottolo successivo, ed aspettò.
Non voleva vedere più nessuno.
Improvvisamente sentì un forte dolore al petto, sentì perdere le forze, svenne.
Nel sonno più totale ebbe l’impressione di sentire delle voci attorno a lui, “ è lui”, “ manca poco oramai”, si riprese sentendo distintamente “ non è ancora finita, svegliati, svegliati”
Aprì gli occhi, era solo.
Sentiva ancora dolore al petto, ma più leggero, il braccio sinistro semi addormentato, si chiese cosa gli fosse successo e che ora era.
Sbirciò la piccola finestra nell’ interscala e capii che era notte;
ma possibile che nessuno chiedesse di lui?
Restò fermo ancora un po’, ponendosi mille domande, ed anche, purtroppo per lui, trovando anche le risposte.
Si rialzò lentamente, sentì un forte dolore alle ginocchia e proprio mentre stava per ricadere all’ indietro, una mano smaltata arrivò in suo aiuto;
il suo cervello realizzò in un attimo che chiunque fosse, dovesse avere una bella mole, ma girandosi su se stesso, si accorse con sorpresa che la donna che lo aveva soccorso era quasi mingherlina, o almeno così appariva dalle caviglie, splendide caviglie coperte da collant neri; si rialzò lentamente, quasi volesse scoprirla lentamente; gonna lunga, di un verde ricercato, lana morbida, molto calda forse cachemire, vita snella, camicia a fiori, mai visti, sfumature di rosa miste a blu vivi. Il seno non doveva essere prosperoso ma si accoppiava perfettamente all’insieme, non poteva crederci: era bellissima.
Ma Sembrava lei, sembrava proprio lei.
Gli piacque il suo sorriso, era gentile e per nulla distaccato; lo conosceva bene. Tutto bene? – mai stato meglio – pensò.
tutto bene, grazie.
Sapeva che era questione di secondi, ma sapeva che non li avrebbe dimenticati per molto tempo.
Parlarono così, come se si conoscessero da tempo ed ogni minuto che passava, era lui, che cercava di prolungarlo il più possibile.
Scesero alcuni gradini e si accorse che aveva dolore ad una gamba, forse un trauma della prima caduta, arrivarono al pianerottolo, non c’era nessuno, sentì il bisogno di risedersi, per quanto ebbe l’impressione che anch’ella volesse trattenersi.
Di fatto, non sembrava volesse proprio andarsene, per fortuna.
Incredibilmente, fu sempre lei a dire – mi sembra di conoscerti – l’uomo afferò al volo la situazione.
Si sedette su di una poltrona posizionata esattamente nello stesso posto del piano inferiore, cambiava solo la forma ed il colore, ora bianco sporco.
L’uomo si sentiva debole, aveva nausea ma continuava a guardarla, come impietrito, sentì come il bisogno di recuperare il tempo perso, ma sapeva di essere già sconfitto.
probabilmente si, rispose – in effetti…
ma certo, disse lei, ma certo…
si guardarono negli occhi, quelli di lei erano verdi, così ovvii, pensò l’uomo, erano occhi che lui aveva visto spesso o almeno si illudeva di credere.
Improvvisamente, mentre lei parlava, gli tornò alla mente, un periodo in cui lui era un altro uomo, in cui lui, non era proprio lui; un periodo in cui aveva messo da parte la sua sfiducia verso il mondo ed i dispiaceri che esso poteva dare.
Alla donna parve che l’uomo si fosse addormentato, ma egli pensava ad occhi chiusi, e pur ascoltandola si ricordava di quel periodo, l’unico periodo della sua vita in cui non si sentì solo.
Credette per un momento che lei gli parlasse di una situazione già vissuta, in cui la donna che lei gli ricordava, pur avendo torto, lo fece sentire un uomo perso, confuso, in cenere.
Questo lo fece rinsavire, ma lei non c’era più;
si guardò intorno, sbirciò all’interno di una porta aperta dalla donna delle pulizie, non la vide.
Pur sapendo di non aver sognato, si alzò di scatto e si girò intorno, nulla.
Non sentiva più dolori, si chiese se si fosse semplicemente addormentato su quella poltrona, come drogato,
capì che doveva uscire da quell’albergo, si sentì come oberato di responsabilità ormai volontariamente passate per lui e capì, che la vita come un campionato di calcio, alla fine, ha sempre un ritorno; tutto torna. Sempre.
Riguardò l’ascensore con le fiancate a griglia, vide l’interruttore di chiamata ma non ebbe voglia di premerlo;
mancava ancora un piano all’arrivo e si fermò.
L’ascensore da una parte e le scale dall’altro, le gambe morte gli impedirono di muoversi.
L’aiuto gli venne dalle spalle;
qualcuno lo tocco su un braccio- è guasto disse -, è guasto da sempre.
Scese gli scalini guardandoli di continuo, come se avesse paura di cadere , gradini di marmo bianco.
Primo piano, almeno ciò è quello che pensa, si affaccia alla finestra, vede giù, -ci siamo- dice a voce alta;
improvvisamente si chiede cosa possa accadergli negli ultimi 10 metri che lo separano dall’ultima rampa.
Si guarda attorno, non vede nessuno.
Aspetta qualche attimo, nulla.
Qualche risatina dalla camera numero 1, si avvicina alla numero 2, silenzio.
Indispettito, si siede sull’immancabile poltrona sfondata;
aspetta.
E’ stanco, chiude gli occhi, si addormenta velocemente ed un sogno già sognato gli ritorna alla mente, rivede i familiari intenti a cucinare un pranzo di natale di molti anni prima, tanta gente, parenti di cui non si ricordava più il viso, cugini mai visti, persino una vicina di casa, sua coetanea mai più rivista nella vita comune.
Sul viso gli spunta un sorriso sincero, di quelli che a vederlo dal di fuori, ti fa pensare che l’uomo che lo indossa sia in quel momento felice.
Il sogno cambia, si ritrova in un cortile, a giocare con la corda, insieme a bambine mai viste, è in una colonia estiva, certo non può che essere là, nessuno sogna cose che non ha mai vissuto o di paure mai pensate, o di mostri mai immaginati.
Il respiro gli diventa affannoso quando si rivede piangente dopo una frustata che il padre gli aveva dato solo perché non veniva fotogenico durante uno scatto con una vecchia macchina a rullino.
Piangeva.
Io lo guardavo, e mi rendevo conto che era contento del fatto che la vita andava via lentamente e inesorabilmente.
Era veramente contento.
La vita non è fatta per quelli che sopravvivono, che cercano di rimanere normali quando tutto ciò che li circonda normale non è.
Mi sedetti vicino a lui, gli tenni la mano, e anche se pur un istante, sentii come un fremito nelle sue dita; era la vita che andava via, e lui, sorrideva ancora.