Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2020 “La ballata dell’orso” di Dante Zucchi

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2020

Un giorno lo trovarono morto. Fu il postino che nel mettere la bolletta della luce nella cassetta della posta davanti al cancello vide una massa enorme a terra davanti alla porta di casa.

Chiamò. Nessuno rispose ed entrò nel prato. Vide il corpo di Ronco immobile a terra, si avvicinò. Con timore lo toccò e corse in paese dicendo che l’orso era morto. Arrivarono un po’ tutti, ma nessuno osava toccarlo fino a quando non arrivò il medico che ne constatò la morte.

Chi era Ronco?

Un uomo

No un selvaggio

Un selvaggio?

Peggio. Una bestia, tanto che l’avevano soprannominato Ronco l’Orso, per sottolineare l’aspetto primitivo e bestiale di quell’essere alto quasi due metri e grosso come un armadio che vestiva sempre allo stesso modo come se per lui fosse una pelle, appunto la pelle di un orso: blu jeans, camicia, scarponi, barba folta non curata, capelli raccolti sulla nuca in una corta coda tenuta da un nastro nero.

Cosa faceva?

Poco o niente, viveva con una rendita mensile, lasciatagli dal padre morendo, di mille euro circa che lui si faceva bastare. Aveva una vecchissima jeep e una specie di moto da cross che lui stesso si era costruito utilizzando l’officina del vecchio e ormai cieco Crusca, mettendo insieme pezzi di moto presi dallo sfascia carrozze.

Dove viveva?

Una casa

“Che cazzo di casa! Era una tana” a detta di tutti. Quattro stanze e un cesso, due al piano terra, due al primo piano, una soffitta con un grosso lucernaio da cui molti giuravano aver visto spuntare la testa di un orso. Mai nessuno si era azzardato ad entrare in quella casa quasi diroccata dai muri scrostati. In mezzo alla campagna, sola, isolata, nessun albero e un gran prato intorno di circa un ettaro recintato da una rete che cadeva a pezzi e mancante in diversi punti, tanto che molti dicevano che Ronco non riparava apposta, così che i cani e i gatti randagi entravano e lui li uccideva per mangiarseli.

Amici?

Nessun amico e quando si recava in paese molti lo evitavano, tranne i negozianti da cui si recava per comprare da mangiare. Aveva una passione per il caffè per cui il barista era una delle persone che giornalmente lo doveva sopportare. Era già tanto che gli avventori del bar non si alzassero per andarsene via. Un giorno qualcuno mise un cartello all’entrata del bar con

“Proibito entrare a cani e orsi”

ma fu subito tolto dal vigile urbano perché era troppo evidente il riferimento a Ronco e questo non si poteva per legge.

Non era del posto. La famiglia era arrivata da dove non si sa da una decina d’anni. Padre, madre e lui. Poi rimase solo lui dopo che il padre morì e la madre, ancora una bella donna nonostante i suoi cinquanta e passa anni, andò via con un altro uomo in una fredda giornata d’inverno portandosi via anche la legna che il giorno prima Ronco aveva tagliato e raccolto nella golena del fiume per bruciarla nel camino e senza la quale quella notte Ronco quasi morì di freddo.

Quando parlava nessuno capiva quello che diceva, andava più che altro a gesti oppure prendeva direttamente dal banco della frutta e della verdura quello che gli serviva e lo buttava sulla bilancia per poi portarsela via direttamente senza cartoccio nella sporta unta e bisunta e sporca tanto che ormai i colori vivaci della treccia di cui era fatta non si vedevano più, consunti dal tempo e dall’uso.

Aveva una forza incredibile. Si diceva che avesse sollevato la fiancata dell’auto della scuola guida per cambiare la ruota che si era squarciata contro il cordolo di un’aiuola sulla quale un ragazzo era andato a finire durante una lezione.

Nessuno mai si era lamentato non solo di aver subito violenza da Ronco, ma nemmeno nessun gesto di rabbia o di irritazione nonostante fosse spesso oggetto di derisione e di burle da parte di molti che si divertivano alle sue spalle, come quella volta che per poco non gli incendiarono la casa buttandogli delle bottiglie incendiarie contro la porta durante i festeggiamenti del capo d’anno. Li aveva riconosciuti, ma non disse mai niente anche incontrandoli per strada o al bar.

“E adesso cosa facciamo?” chiese un uomo accorso a vedere Ronco steso morto a terra

“Chiama le pompe funebri e portiamolo in casa, non possiamo lasciarlo qui fuori sotto il sole. E’ sempre un essere umano, no?” rispose un altro

Si trattava di entrare nella tana, ma nessuno osava, tutti avevano paura.

Finalmente Silvia, una bimba di dodici anni, vedendo tutte quelle esitazioni, si fece largo fra tutti quelli che si erano riuniti davanti all’entrata, si chinò sul corpo di Ronco e lo baciò sulla guancia suscitando un vespaio di

“oddio che schifo” o “non hai paura di prenderti qualcosa?”

e lei guardando perplessa i presenti

“Perché non entrate?”

Nessuno rispose e si guardarono l’un l’altro perplessi.

Silvia aprì la porta ed entrò

“Venite. E’ una casa piccola, ma molto accogliente”

Molti la seguirono e rimasero a bocca aperta vedendo l’ordine e la pulizia in cui la casa era tenuta. Niente era giù di posto e tutto era pulito. Tavola, sedie, credenza e un immenso armadio a muro pieno zeppo di libri e uno scrittoio dal quale Silvia prese un quaderno, lo aprì e lesse una poesia dolcissima, strana, quasi un canto

“Questa è l’ultima poesia che Ronco ha scritto. Io vengo qua quasi tutti i giorni per leggere le poesie che Ronco scrive. Lui non riesce a parlare bene, farfuglia e allora vuole sentire le sue poesie come suonano e poi se non gli piace il suono le corregge ed io le torno a leggere fino a quando non sente il suono giusto. Allora sorride, mi bacia sulle guance, mi abbraccia piangendo e mi ringrazia”

Un silenzio incredibile si appropriò della stanza e nessuno osò interromperlo fino a quando Silvia prendendo il quaderno fece per uscire e disse

“Lui non voleva, ma tutte le sue poesie le ho mandate per e-mail al mio professore di italiano che le ha trovate straordinarie e le ha fatte pubblicare col nome di Ronco. Adesso devo dirgli che è morto. Ronco sapeva che doveva morire, me l’ha detto qualche giorno fa dopo aver ascoltato l’ultima poesia che gli ho letto. Era contento e mi ha sorriso”

“Era ammalato?”

“Non lo so. Non credo. Lui ha detto che quello che doveva fare l’ha fatto, non c’era più motivo di vivere e che aspettava la signora con la falce”

“Ma i tuoi cosa dicevano che venivi qua?”

“nessuno sa che venivo qui. Leggevo le sue poesie e lui era contento e poi me ne andavo. Adesso non posso più venire qui e non posso più leggergli le sue poesie” disse con gli occhi lucidi uscendo con il quaderno stretto fra le braccia incrociate sul petto, come se custodisse un tesoro e avesse paura di perderlo

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4 commenti »

  1. Volevo correggerlo, ma poi ho deciso di lasciarlo com’è: molto essenziale senza tanti fronzoli per denunciare il qualunquismo e la superficialità del mondo a confronto con la delicatezza e la profondità dell’animo innocente di una ragazzina a cui tutti noi dovremmo assomigliare, ma non vogliamo non per pigrizia, ma semplicemente perchè non è di moda esserlo.

  2. Hai fatto bene, a mio avviso è perfetto così. Una denuncia chiara ed efficace sui preconcetti che ci portiamo dentro. E’ proprio vero, i bambini ci sorprendono sempre positivamente. Un bel racconto Dante.

  3. Dante credo che tu abbia ragione nella tua riflessione ma sono convinta che molti non manifestino il proprio animo per paura più che per moda. E’ un racconto dolcissimo che rivela una enorme sensibilità. Mi sarebbe piaciuto conoscere Ronco e la sua amica. Complimenti

  4. Molto toccante e non mi vergogno a dire che ho pianto. Questo racconto evidenzia come sarebbe migliore il mondo visto con gli occhi dei ragazzini. I pregiudizi e l’indifferenza hanno privato l’uomo della sua dignità umana. Per questo dobbiamo fare attenzione a far crescere bene i nuovi adulti garantendo loro quel valore imprescindibile che fa dell’uomo un Uomo.
    Complimenti!

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