Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2010 “Non abbiamo chiuso occhio” di Daniele Ciccolini

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2010

Ada e il suo nuovo compagno stanno per arrivare. In piedi davanti alla tavola apparecchiata, Cristina elenca quello che abbiamo fatto nel pomeriggio, per verificare che tutto sia pronto, che non manchi nulla. E’ tutto pronto. Non manca proprio nulla. Non poteva essere diversamente. Abbiamo vissuto la settimana in funzione di questo momento. Una settimana dedicata al loro regime vegetariano. Eliminare le proteine animali purifica il corpo e la mente, mi aveva spiegato Cristina mentre sfogliavamo Cucina vegetariana in poche mosse. Una domenica pomeriggio passata su quel libro, prima di decidere il menù. Un antipasto vegetariano, una torta di zucca, delle zucchine gratinate, un tortino ai fughi porcini, dei canederli vegetariani ed un piatto di fagioli cannellini con i broccoli. Il tutto cercando di comporre le pietanze in modo tale che apparissero come nelle foto del libro.

Suona il citofono. Marco vai tu. E corre in bagno.

Sì?, dico al citofono. Sento la voce rauca di Ada che mi dice siamo noi.

Cristina esce dal bagno. Hai acceso le candele sul tavolo?

No.

Lo sapevo. Eppure sai quanto ci tenga a questa serata.

Corre in cucina e prende la scatola dei fiammiferi. Con la mano che le trema un po’ accende le due candele. Secondo te, come segno di ospitalità, è meglio che apriamo la porta prima che loro suonino, oppure aspettiamo che suonino il campanello?

Per fortuna suonano alla porta.

Da come Ada va ad abbracciare Cristina sembra non si vedano da anni. Ada ha in testa uno zuccotto di lana rossa poggiato su un cespuglio di ricci neri. Dal cardigan blu legato in vita da una cinta, spunta un vestito giallo ocra che le arriva fino ai piedi.

Ancora non mi ha salutato quando rivolta a Cristina dice, lui è Carlo.

Carlo ha un’aria distratta, con tanto di barbetta alla Nerone e sciarpa grigio chiaro al collo, su un cappotto grigio scuro che non gli arriva neanche a metà coscia. Mi ricordo che Cristina con l’aria seria mi ha detto che è un violinista, musica classica ha aggiunto, alzando le sopracciglia in segno di ammirazione. Ada si accorge di me. Ci scambiamo un ciao mentre accostiamo una dopo l’altra le nostre guance. Con Carlo ci scambiamo una stretta di mano, ma non sappiamo cosa dirci.

Dai venite, dice Cristina.

Date a me, dico io riferendomi al cappotto e al cardigan. Cristina mi fa l’occhiolino, capisco che il fatto delle candele è superato.

Faccio cenno a Carlo che può darmi anche la sciarpa che gli penzola dal collo, ma lui con una voce che sembra uscirgli direttamente dal naso, dice no, il collo lo tengo sempre al caldo.

Abbiamo preparato una cena semplice, così giusto per stare insieme, dice Cristina.

La guardo. Mi sorride.

Apro il frigorifero. Un bel prosecco per cominciare?

Ada si gira verso Carlo. Lui fa altrettanto e si mettono a ridere. Cristina guarda me e si mette a ridere. Mi tocca ridere pure a me, anche se capisco dall’alzata di spalle di Cristina che anche lei non ha capito perché stiamo ridendo in quel modo.

Siamo astemi. Tutti e due. E’ curioso vero?, dice Ada. E si va a infilare con la spalla sotto all’ascella di Carlo. Sembrano una coppia unita. Vegetariani e astemi.

Mi dispiace, dice Carlo.

Non vi preoccupate. Non mi ricordavo che tu fossi astemia, dice Cristina.

Ci mettiamo seduti a tavola. E’ apparecchiata con la tovaglia nuova comprata due giorni fa alla Ikea, insieme alle posate, ai piatti, alle ciotole per gli antipasti e alla salsiera. Cristina ha di fronte Ada e io Carlo. Le solite cose. Le cene, all’inizio, si assomigliano un po’ tutte. Poi accade quello che temevo. Si comincia a parlare di concerti di musica classica. Mi viene da ridere. Nessuno mi chiederà qualcosa sul mio lavoro da infermiere, o sulla tecnica migliore per svuotare pappagalli e padelle. Cristina è tutta presa da quei discorsi artistici. Da un paio di mesi poi, frequenta un corso di scrittura creativa. Laboratorio, lo chiamano. Appena stacca dall’ospedale, torna a casa e si mette a scrivere. E’ da un paio di mesi che non fa altro che scrivere e riscrivere un racconto. Mi ha detto che un giorno me lo farà leggere. Non so quanto le possa servire questa cosa di scrivere, di inventare storie. Avrei preferito avesse fatto uno di quei corsi dove alla fine sai fare davvero qualcosa. Qualcosa di concreto, intendo.

Secondo me la voce di Ada starebbe meglio a Carlo e viceversa. Gli strumenti ad arco tirano fuori un suono che te lo sogni, dice lei. Si gira verso di lui e gli prende la mano. Carlo è di poche parole. Come vuole lo stereotipo del vero artista, sembra avere la testa altrove. Parlano soprattutto Ada e Cristina. Adesso è iniziato l’appello dei compagni di classe del liceo. Ada elenca quelli che come lei hanno proseguito gli studi andando all’università. Cristina abbassa lo sguardo, prende il tovagliolo che ha sulle gambe e lo mette vicino al piatto. Con il mio ginocchio tocco il suo, come fosse una carezza. Anche a lei sarebbe piaciuto frequentare l’università, ma non fece in tempo. Suo padre morì e lei rimase da sola con la madre. Dovette pensare a trovarsi un lavoro.

Quando abbiamo finito di mangiare ci andiamo a mettere seduti sul divano a elle. Loro sul lato lungo, noi su quello corto.

Ada riesce a dire la sua su qualsiasi argomento. Cristina mi ha detto che ha una cultura da fare invidia anche ad un professore universitario.

Cristina, ti devo assolutamente raccontare quello che ci è successo la settimana scorsa. E’ stata un’esperienza che ce la porteremo dentro per sempre, vero Carlo? Si guardano più a lungo del solito, ci faccio caso.

Cosa vi è successo?, dice Cristina.

Cosa gli sarà mai capitato di così sensazionale, penso io.

Ada si gratta la testa ed inizia a parlare.

Eravamo a casa mia, in cucina. Ad un certo punto Carlo si accorge che c’è una luce ferma lì fuori. All’inizio ci sembrava fosse il riflesso del lampadario sul vetro. Siamo andati sul balcone e davanti a noi c’era una palla luminosa che emanava dei raggi di luce.

Oddio, penso. Già me lo immagino dove vuole andare a finire. Oddio.

Cristina è protesa in avanti, come se dovesse scattare in piedi da un momento all’altro.

Eravamo così emozionati. Avremmo potuto prendere una macchinetta fotografica, ma non ci abbiamo pensato.

Questa della macchinetta fotografica me l’aspettavo. E’ la solita storia.

Però abbiamo preso un binocolo che abbiamo in casa e lo abbiamo puntato verso quella cosa. Non si vedeva più una luce, ma un oggetto con la forma del classico ufo, con due colori sgargianti che sembravano metallizzati ed in movimento: un rosso acceso ed un verde pisello.

Gli vorrei chiedere a tutti e due come mai questi extraterrestri non si fanno mai vedere. Potrebbero farsi intervistare, una volta per tutte.

Cristina è attenta, concentrata. Magari sta pensando di scriverci un racconto.

Per quanto è rimasto lì, questo coso?

Non più di cinque minuti, dice Carlo. Con le dita appuntite continua a tamburellarsi la coscia magra.

Sì, ma ci ha messo dentro un’inquietudine che è difficile da descrivere, vero Carlo?

E poi che fine ha fatto?, dice Cristina.

Dopo ha iniziato a spostarsi. Lentamente. Nel silenzio più assoluto. Ma dovevamo ancora vedere la cosa più straordinaria.

Forse ci stanno per dire che li hanno visti anche in faccia questi extraterrestri, ammesso che una faccia come la intendiamo noi ce l’abbiano.

Ad un certo punto si è fermato. Un attimo. Poi, come se fosse risucchiato dall’infinito è salito in cielo, con una velocità disumana, con una facilità e una leggerezza che non si possono immaginare.

Rimaniamo tutti zitti. Il silenzio è rotto dal mio stomaco che brontola. Devo riconoscere che Ada è stata brava a raccontare questa storia. Cristina si gira verso la finestra. Poi mi guarda e fa una smorfia con la bocca.

Peccato non abbiate pensato a fare una fotografia, dico io.

Quella notte non abbiamo chiuso occhio, dice Ada.

Quando esco dal bagno trovo Cristina al computer.

Il racconto?, dico.

Gli occhi di Cristina rimbalzano dalla tastiera allo schermo. Non mi dire che ti sei annoiato perché non ci credo.

Hai ragione. Quella storia ha ravvivato la serata.

Mi metto alle sue spalle e mi chino in avanti per leggere quello che sta scrivendo.

No, dai. Quando sarà finito te lo farò leggere, dice coprendo con le mani lo schermo.

Va bene, va bene. Posso sapere almeno se è un racconto autobiografico?

Smette di scrivere, mi guarda e dice più o meno.

Tira su le spalle e poi con un sospiro lungo le fa ricadere. Mi piacerebbe vivere un’esperienza del genere.

Lo dici come se a noi non succedesse mai niente. In fin dei conti hanno soltanto visto una luce che poi è sparita.

Mi vado a mettere seduto sul divano ed accendo la televisione tenendo il volume basso. Magari era soltanto un satellite, dico.

Tu non ci credi, vero?

Si rimette a scrivere. Fa una pausa più lunga delle altre, con le mani che rimangono sospese sulla tastiera. Poi si gira e mi dice non senti il bisogno di saperne di più?

Spengo la televisione. Mi serve qualcosa di più di una palla di luce che è apparsa e poi se ne è andata chissà dove, per credere che là fuori ci sia qualcuno diverso da noi.

Beh, invece secondo me non è possibile che siamo soli nello spazio infinito.

Ho capito, metterai degli extraterrestri nel tuo racconto, dico ridendo mentre vado a mettere il catenaccio alla porta di casa.

E da bambino?

E da bambino, cosa?

Non ci pensavi agli extraterrestri, ai dischi volanti?

Da bambino pensavo a giocare a pallone.

Cristina adesso sbadiglia e dice comunque domani vado a comprare un binocolo. Spenge il computer e va in bagno.

A letto mi dice ti mette paura l’idea che ci siano altri esseri che ci osservano?

Guardo il lampadario e dico non ci ho mai pensato.

Secondo me i telegiornali non ci dicono tutto, sbadiglia e si gira dall’altra parte.

Secondo me ci dicono anche troppo.

Sono stanchissima, dice con un filo di voce. Uno scatto delle gambe mi fa capire che si è addormentata. E’ stata una cena impegnativa per lei.

Spengo la luce. Quando gli occhi si sono abituati al buio, vedo un chiarore provenire dal soggiorno. Ho dimenticato di tirare giù la serranda. Mi alzo e vado di là. Ma invece di tirare giù la serranda, scosto la tendina e mi fermo a guardare il cielo. C’è la luna piena. Da bambino, quando aspettavo che i miei genitori chiudessero il bar la sera tardi, mi mettevo seduto sui gradini dell’ingresso e guardavo il cielo. Mi piaceva la luna, perché ci vedevo una faccia. Una faccia un po’ triste.

 

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1 commento »

  1. L’autore, per la sua storia, sceglie il finale meno scontato; quello più facile avrebbe infatti visto il personaggio, che è anche la voce narrante, fissare oltre la finestra, nel buio della notte, un misterioso oggetto luminoso. Fortunatamente per noi non cade nella trappola del finale a sorpresa (che oramai, visto l’ampio sfruttamento, non può più definirsi tale), ma ci rivela un ricordo d’infanzia che forse chiarisce del perché egli non sia facile alle suggestioni.

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