Premio Racconti nella Rete 2010 “Cecco” di Lucio Basile
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2010Centoquaranta chili di ciccia su un vespino rosso sarebbero uno spettacolo quasi comico se non appartenessero al ragazzo con la faccia più triste che si sia mai vista. Si presentò all’appuntamento con la sua prima rapina in canottiera elasticizzata e parcheggiò il vespino rosso proprio davanti l’ufficio postale di Pescara. Senza complici, senza nessuno che tenesse il motore del vespino al massimo dei giri per una fuga da brivido. Prima di entrare nell’ufficio, anzi, spense la moto col rischio che all’uscita, col malloppo a tracolla, questa non volesse saperne di accendersi al primo tentativo.
L’arma con cui diffuse il panico all’interno delle Poste era un coltello, e nessuno sa se l’intimazione di consegnare il denaro la pronunciò in dialetto o in italiano. L’impiegato che fronteggiò Cecco non sembrò stravolto dalla paura e gli consegnò un migliaio di euro, una piccola parte del denaro a sua disposizione, con la speranza mal celata che quell’ingombrante e simpatico rapinatore la facesse franca.
Cecco corse –si fa per dire- alla moto che non lo tradì: si accese al primo tentativo. A tradirlo fu la velocità con cui abbandonò il luogo della rapina: veramente imbarazzante per un veicolo a motore. Un ragazzo nemmeno tanto veloce di prima media avrebbe tranquillamente tenuto il passo del vespino con Cecco sopra, nonostante lo sforzo di quel motore Piaggio che cercava di opporsi a quella montagna di chili con sbuffi di fumo nero e un rombo acuto, quasi esiziale.
Cecco aveva preso il lungomare già pregustando qualche buon pranzetto al “Casereccio” e più di un incontro con la sua amica di strada nigeriana quando fu affiancato da una gazzella della polizia con il suo classico, isterico suono della sirena. Il rapinatore guardò i tre poliziotti armati con la faccia interrogativa di chi si stesse chiedendo cosa mai volessero quei tre tipi con le mitragliette sotto il braccio e perché gli avessero tagliato la strada facendolo finire a terra. Come se i dieci minuti trascorsi tra la rapina e il conseguente intervento della polizia fossero un tempo troppo lungo, geologico, perché Cecco potesse mettere in rapporto i due eventi.
Fu picchiato e portato in questura e da qui in carcere dove nessuno ebbe pietà della sua innocenza di bambino. Un giudice lo affidò a uno psichiatra che si accorse della sua innocuità. Fu liberato dopo qualche mese con nuove sempre più profonde ferite.
Provò a lavorare nel suo paese: una decina di euro per ogni giornata a portare mattoni. Ma la puntualità nel lavoro non è mai stata una prerogativa di Cecco, così come la costanza. Per questo ci riprovò, ma con un ufficio postale più piccolo perché a lui le banche erano antipatiche.
A bordo di un ape, da fedele cliente Piaggio, si fermò davanti le Poste di Collecorvino, un piccolo paese dell’interno. Come il vespino anche l’ape aveva visto tempi migliori e, si intuiva dalle folate che emetteva, avrebbe preferito un autista dalla silhoutte più contenuta, ma come tutte le Piaggio anche lei non avrebbe tradito.
Cecco entrò nell’ufficio con un coltello senza punta, l’unico che era riuscito a trovare, con il solo scopo di rispettare il rituale di una rapina: presentarsi con un’arma.
L’unico impiegato presente era come se l’aspettava: una persona ragionevole. Cecco sparò una cifra astronomica, due mila euro, trattabili. “Troppi per una rapina ad un ufficio postale di un paese così piccolo” gli rispose l’impiegato. La contrattazione durò cinque minuti giungendo ad un onesto compromesso: una cinquantina di euro. Giusti per un pranzetto ed una sveltina alla pineta con la sua amica nigeriana.
Se ne andò soddisfatto sulla sua ape con i cinquanta euro in tasca non incontrando poliziotti lungo una fuga più che dimessa.
Il racconto della rapina fece il giro del suo paese e dei paesi vicini che risero della sua bravata per settimane, ma non in sua presenza. Cecco non ama ridere delle sue imprese che a suo modo di vedere non hanno nulla di comico. Cecco non ha la faccia del comico, non vuole far ridere; chi ride di lui lo fa contro di lui. Chi ride di lui non lo fa in sua presenza, se non altro per il timore reverenziale che ogni persona di buonsenso deve avere verso centoquaranta chili di peso. Tutti, però, ridono di lui, tutti tranne Gianni che ha smesso di farlo da quando Cecco gli confessò che da bambino qualcuno più grande di lui, molto vicino a lui, violò la sua innocenza costringendolo al gioco dei fidanzati.
Ogni giorno, ed è la prima cosa che fa, Gianni apre il quotidiano locale sperando di non trovare notizie di Cecco. E’ certo che quel silenzio non durerà a lungo e che quei centoquaranta chili di innocenza andranno, prima o poi, a liquefarsi nell’indifferenza generale.
Un personaggio più che reale, purtroppo, la cui storia assomiglia ad altre molto simili che a tanti di noi è capitato di conoscere, per lo meno a tanti che hanno frequenza e consuetudine con luoghi e persone che “sopravvivono” alla giornata, per le quali alla fine la deviazione dalle regole diventa fatto abitudinario, quotidiano con tutti i rischi e le conseguenze intuibili. Un racconto di emergenza sociale