Premio Racconti nella Rete 2020 “Di libro in libro” di Maria Luisa Ghianda
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2020Fratel Maso fece ruotare il lume, tutto era in ordine, uscì dallo scriptorium e s’incamminò con la sua andatura ormai lenta lungo il corridoio stretto e buio su cui si affacciavano le porte delle celle dei suoi confratelli. A dispetto dell’età avanzata, aveva ancora l’udito fino e in quell’oscurità non fugata dalla fiamma, sapeva ad ogni passo di fronte a quale cella si trovasse: glielo indicava il ronfare che ne fuoriusciva, rivelatore dell’identità del suo occupante. Ogni monaco, infatti, russava in modo differente, quale con lieve sibilo, quale quasi grufolando, qual altro bubolando o, addirittura, chiocciando. Quando si ritrovò davanti ad una porta muta, si fermò, un altro passo e sarebbe precipitato nel vuoto, la sua cella era l’ultima prima di una scala crollata durante un terremoto e mai più ricostruita.
Il monastero di antica origine longobarda, al cui scriptorium fratel Maso era addetto, aveva infatti subito danni nel corso dei secoli provocati dagli svariati sismi che lo avevano funestato, per fortuna nessuno mai tanto violento da intaccarne le mura e le fondamenta. Però c’era il rischio che ciò potesse sempre accadere. Era dunque assai pericoloso che i frati continuassero ad abitarlo e non si contavano le missive che l’abate Landolfo, a capo del cenobio, aveva inviato al suo superiore di Montecassino, con la supplica di assegnare lui e i suoi confratelli ad altro convento. Ma nessuna aveva mai ricevuto risposta e ciò era molto strano, data l’efficienza epistolare cassinese. All’abate era dunque venuto il sospetto che esse non fossero mai giunte a destinazione. Iniziò perciò a meditare di recarsi lui stesso a perorare la causa. Certo, a sessant’anni, non sarebbe stato facile affrontare i pericoli e i disagi del viaggio, ma lui non era tipo da sottrarsi alle responsabilità del suo ufficio.
E poi c’erano i libri.
Nello scriptorium si conservavano manoscritti e rotoli antichissimi, giunti lì chissà da dove, per mano di chi e in quale epoca. Poiché, tra i molti in greco, alcuni erano vergati in sanscrito e altri addirittura in arabo, era stata ipotizzata una loro provenienza dalla Siria, forse portati lì da quei monaci erranti che, attorno al IX secolo, circolavano per l’Europa in veste di pittori. A riprova, dietro l’altare della cappella conventuale, dove l’intonaco non era caduto per l’umidità e le scosse telluriche, si scorgevano ancora le tracce di un affresco simile, per vivacità dei tocchi, a quelli che ornavano le absidi della Chiesa di Santa Sofia in Benevento, dalla quale San Wulflaich dipendeva. Ormai da tempo si sapeva, infatti, grazie ai dotti studi del cardinale milanese Bognettus e del prelato beneventano Rotilius, che le pitture sofiane eran di mano siriaca.
Per numero e per dimensione, era inoltre possibile che quei tomi, all’incirca due dozzine, avessero viaggiato in quelle casse che si issavano sui carri delle carovane che dall’Oriente giungevano ancora a Benevento percorrendo la Via Appia, lungo la quale il convento di San Wulflaich sorgeva. E la sua ubicazione non faceva che avvalorare l’ipotesi della provenienza orientale dei volumi che stavano così a cuore all’abate Landolfo, appena un po’ meno della vita dei suoi confratelli.
Venne dunque il giorno in cui egli, più che mai deciso a proteggere le une e gli altri, partì alla volta di Montecassino.
Correva l’Anno del Signore 1079 e a presiedere il cenobio cassinese era l’abate Desiderio, di origine beneventana e Landolfo confidava in questa conterraneità per ottenere il suo scopo. La mattina del 21 marzo, festa di San Benedetto, s’incamminò, dunque, accompagnato da un novizio e da un armigero, messo a sua disposizione dall’arcivescovo per difenderlo alla bisogna. La scelta del giorno della partenza rivelava quanto l’abate confidasse piuttosto in una protezione ben più alta.
Vi erano però cinque fatti che egli ignorava.
- Causa l’annidarsi di nuclei di saraceni allo sbando nelle terre pugliesi, con cui il Sannio confinava, la Chiesa di Roma reputava il convento di San Wulflaich avamposto della Cristianità contro l’avanzata della fede musulmana, e non vi avrebbe rinunciato neppure pena la perdita della vita dei suoi fraticelli e ancor meno per salvare vecchi codici, taluni scritti addirittura nella lingua degli infedeli.
- Con il nome di Gregorio VII, sul soglio di Pietro sedeva Ildebrando di Soana, il quale, troppo impegnato a combattere la simonia e a tener testa allo strapotere imperiale nella lotta per le investiture, non aveva tempo e neppure l’intento di occuparsi di un convento sperduto e neppure dei suoi libri.
- Sebbene il potere dei signorotti del ducato di Benevento e Capua, il cui territorio Landolfo doveva attraversare per raggiungere Montecassino, dipendesse dalla Santa Sede, essi vi spadroneggiavano senza ritegno alcuno, al punto da aver addirittura istituito dei posti di blocco sulle principali vie di transito. Lì i loro sgherri, armati di tutto punto, esigevano il pagamento di pedaggi e depredavano i viandanti dei loro averi. Se questi osavano reagire, li imprigionavano e ne chiedevano poi il riscatto minacciandoli di morte. Quelli poveri venivano invece uccisi là per là ed era questa l’efferata ragione per cui le missive di Landolfo non eran mai giunte a Montecassino.
- I viaggiatori potevano anche incappare in tratti di strade divenuti impraticabili, o perché franati, oppure resi inagibili dall’incuria. Per aggirare l’ostacolo, dovevano quindi fare lunghe deviazioni, addentrandosi magari in zone paludose, o in boschi infestati dai lupi o, peggio, dai briganti.
- I viandanti rischiavano anche di morir di fame. Lungo le vie, infatti, non c’erano né locande, né taverne e neppure ricoveri od ostelli. Gli unici luoghi ad offrire ristoro erano i monasteri, che scarseggiavano. Si dovevano perciò approvvigionare di derrate bastevoli per tutto il tempo del viaggio trasportandole su carri o carretti che finivano per intralciarlo.
Il nostro gruppo si muoveva leggero, con provviste per un sol giorno. Ignaro d’ogni pericolo, Landolfo contava infatti di far tappa nei conventi che avrebbero incontrato lungo il cammino. Nella sua qualità di abate, gli era infatti concesso di venir accolto anche in quelli femminili, preclusi al comune viaggiatore. Ve ne era uno giusto ad una giornata di marcia. Avrebbero pernottato lì.
Intanto, a San Wulflaich, fratel Maso montava la guardia ai libri. Ora che il suo abate non c’era, se ne reputava l’assoluto custode, cui competeva una vigilanza totale. Perciò si stabilì nello scriptorium, portandovi anche il suo pagliericcio, così da non dover abbandonare la postazione neppure di notte. Si allontanava solo per pregare nella cappella alle ore canoniche. In osservanza della Regola dell’ora et labora iniziò persino a tradurre in latino il Timeo di Platone.
La parte che preferiva era dove si diceva dei cinque poliedri, quattro dei quali il filosofo faceva corrispondere agli elementi costitutivi dell’universo: la terra, associata al cubo, l’acqua all’icosaedro, l’aria all’ottaedro e il fuoco al tetraedro, mentre il dodecaedro racchiudeva la forma dell’universo. Senza comprenderne il senso filosofico, fratel Maso si limitava a tradurre il testo vergandolo su fogli di pergamena che avrebbe poi rilegato in tomo. Per i disegni dei solidi occorreva però una mano d’artista. Proprio in quel tempo, era ospite del cenobio sofiano fratel Mazzufero, lì giunto dalla cellula monastica di San Michele Arcangelo in Cingoli per miniare un codice. Avrebbe affidato a lui il compito di eseguirli.
A mezzodì, il monastero femminile, prima tappa del loro viaggio, era ancora troppo lontano, solo se i nostri avessero accelerato il passo, e in assenza di ostacoli, lo avrebbero raggiunto prima di notte. Fu per merito del novizio se andò tutto bene. Si chiamava Bartolomeo, come il patrono di Benevento, ed era figlio di pastori. Non sapeva né leggere, né scrivere, ma era scaltro. Suggerì all’abate di abbandonare la via maestra e di imboccare un tratturo a lui noto fin da quando pascolava le greggi del padre. Sebbene impervio e scosceso, quel sentiero avrebbe fatto loro risparmiare tempo e miglia. Spaventato dall’asperità del terreno, inadatta al suo passo da anziano, a tutta prima l’abate esitò, ma una voce interiore lo indusse ad accettare.
Quando furono al sicuro tra le mura del convento, la badessa Aliperga, che lo presiedeva, lo mise al corrente dei cinque fatti a lui ignoti e soggiunse:
«È stato San Bartolomeo a salvarvi la vita per il tramite del novizio. Che credete? Se noi monachine siamo ancora vive, è perché ormai da tempo seguiamo una via che serpeggia tra le montagne, di tratturo in tratturo, collegando i nostri monasteri e consentendoci di scambiarci cibo e notizie. L’abbiamo chiamata la via delle monache, arriva fino a Montecassino, dove noi badesse ci dobbiamo recare se convocate dall’abate per il tramite di piccioni viaggiatori. Non potendo noi volare, scaliamo le montagne. Se volete arrivarci sani e salvi, dovete fare lo stesso.»
Fu grazie alla via delle monache se Landolfo e i suoi raggiunsero incolumi la meta, dove l’abate Desiderio, incurante del veto della Chiesa, firmò subito il decreto di trasferimento dei monaci di San Wulflaich ad altro cenobio.
E i libri?
Un violento terremoto distrusse il convento pochi giorni prima che i frati lo lasciassero. Non vi furono vittime ma lo scriptorium precipitò con il suo contenuto in una voragine apertasi nella crosta terrestre. Dei libri si salvò solo quello con la trascrizione latina del Timeo, fatta da fratel Maso, il quale, dopo averla terminata, lo aveva portato a Santa Sofia e affidato a fratel Mazzufero che vi disegnò i poliedri.
Per gratitudine, Landolfo lo donò poi all’abate di Montecassino, con questa nota in exergo:
A.D. 1079 Manu Masi monaci ex cenobio beneventano Sancti Uulfilaici.
Urbino, 5 maggio 1480
Piero della Francesca poggiò il calamo e si sfregò gli occhi. Ormai non ci vedeva più tanto bene. Stava scrivendo un libro sui cinque solidi regolari della geometria euclidea. Prima di iniziare si era consultato con fra’ Luca Pacioli, esperto del Timeo di Platone, che trattava lo stesso argomento in chiave filosofica. Il matematico gli riferì di averlo studiato in un’antica traduzione latina, conservata nella biblioteca cassinese e proveniente da un cenobio di cui si eran perdute le tracce. Gli disse anche che di quel monastero si sapeva solo che risaliva al tempo della conquista longobarda, visto che era dedicato a San Wulflaich, il cui culto non s’era diffuso in Italia. Lo scomparso cenobio ne costituiva l’unico esempio noto grazie ad una dedica contenuta in quel tomo superstite che lo diceva d’ambito beneventano.
«Di libro, in libro» pensò il maestro rimettendosi al lavoro. «Che giri tortuosi fa la storia.»
Bel racconto, che articola con notevole abilità una profonda conoscenza dell’argomento trattato e della storia in particolare medioevale dei luoghi e dell’arte, in una struttura narrativa, in rapporto alla misura del testo, varia e stratificata, con un finale imprevisto e illuminante.
….” Di libro in libro”… si scrive la storia dell’umanita’ e dei singoli uomini, ma si ricostruiscono e si rendono eterne anche piccole storie di uomini e donne invisibili come l’analfabeta e scaltro Bartolomeo e le insignificanti e furbe monachine che, nell’anno 1079, inconsapevolmente e con mero spirito pratico , aiutano l’abate Landolfo a raggiungere l’abbazia di Montecassino e, senza neanche immaginarlo rendono possibile che, a distanza di secoli, Piero della Francesca ed il colto matematico fra’ Luca Pacioli, si trovino a discutere ed a ripercorrere la storia di un una copia del Timeo di Platone, trascritta a mano, in latino, da un tal fratel Maso.
E quando, passati altri secoli , “di libro in libro”…la storia del manoscritto di fratel Maso arriva ad attrarre l’attenzione ed a stimolare l’interesse e la curiosita’ di Maria Luisa Ghianda, donna dotata di una mente aperta, curiosa, acuta e ricca di buone e non banali letture, avviene una vera e propria magia… L’ intelligente, colta ed entusiasta scrittrice, con un linguaggio semplice, ma non semplicistico e con una scrittura chiara e sintatticamente eccellente, da’ vita ad un racconto che, per lo spessore del suo contenuto e per la dimensione storica e culturale che lo caratterizza, affascina il lettore.
La competenza letteraria e stilistica che lo scritto manifesta e la sensibilita’ culturale che la scelta dell’avvenimento narrato evidenzia, fanno di Maria Luisa Ghianda un’ autentica, vera ed apprezzabilissima scrittrice. E se noi lettori avessimo la possibilita’ di valutare il suo racconto attraverso una valutazione espressa in voti, io le darei 10 e lode. 10 glielo attribuirei per la scelta e per l’importanza dell’argomento trattato, per la gradevole ed attraente impostazione e strutturazione della storia raccontata e per l’eleganza stilistica e la piacevolezza del linguaggio usato e la lode l’aggiungerei perche’ il racconto ha una notevole valenza storica, fornisce informazioni molto utili ed interessanti anche per gli studenti delle scuole superiori e evidenzia l’antico e mai sopito rispetto, ieri ed oggi, giustamente tributato ai libri quali insostituibili veicoli d’informazione e di diffusione di conoscenze, idee, valori, sentimenti ed emozioni e, come tali, depositari di un importante ed incommensurabile patrimonio umano e culturale da custodire e trasmettere come un bene inestimabile e prezioso.
Il racconto ti coinvolge immediatamente, da subito si respira l’atmosfera del medioevo. É così pregno di cultura che manifesta la profonda conoscenza storico artistica e scientifica di M.L. Ghianda. Tanto sono stato preso da questo breve racconto che mi sarebbe piaciuto fosse un prologo di un grande romanzo storico. Un plauso a Luisa.
Conosco da sempre la profondità della cultura di Maria Luisa: è cultura appassionata e quasi militante, per sapere estrarre da ogni frammento – memoria costruita, vicenda umana, paesaggio – un senso originario ed espressivo. Ma quello che ogni volta mi sorprende è l’aspetto visivo, nitido e illuminato, della narrazione, tanto da farla apparire ai miei occhi come una stupefacente complessa e compiuta sceneggiatura…
Il racconto di Maria Luisa Ghianda ha il pregio di fare dialogare conoscenze diverse con una semplicità incredibile e con una competenza profondissima. La storia dell’arte, la geometria, la storia e la letteratura viaggiano insieme in questo racconto e pur avendo ciascuna la propria voce sembrano recitare in coro un unico testo. Come fare un tuffo in pieno Rinascimento quando un solo studioso si occupava di competenze diverse e approfondiva vari ambiti conoscitivi con una raffinatezza che solo il sapere sviluppato fino alle radici più nascoste della propria disciplina può dare. Maria Luisa può concedersi tutto questo, ha pieni poteri nel far comunicare tra loro conoscenze diverse e non può che essere un immenso piacere leggere i suoi scritti e ringraziarla per averci offerto questa opportunità. Grazie Isa!
Le tendenze eremitiche dilatano il tempo (chiedo scusa per il ritardo) e l’immaginazione. I pericoli dei tratturi che hai descritto si palesano ma, nell’epoca dei GPS, è presente un modo più sottile di smarrire la bussola, che si ripropone costantemente: perdere le conoscenze culturali.
Un episodio antico ci racconta la modernità.