Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2010 “Il bagliore delle stelle” di Manuela Daidone

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2010

Il crepuscolo è la fenditura tra i mondi” disse Don Juan.

È la porta dell’ignoto.”

Da “L’isola del Tonal” di Carlos Castaneda

Romaldo D’ Agata era un principe solitario. Viveva in un castello edificato sulla sommità di un piccolo colle. L’antico maniero, quando ancora si erigeva, dominava dall’alto gli elementi naturali che lo circondavano: i pendii, le valli, il lago, che per la loro forma tondeggiante, dovevano incorniciarlo dal basso tutt’intorno, mentre il cielo formava su di esso una calotta vitrea. Il castello, per la particolare posizione, appariva simile a una palla di cristallo, che una volta agitata, mostrava in movimento il materiale iridescente, perché i riflessi cangianti, che il lago proiettava sull’edificio, e tuttora sulle rovine, modulati dalla luce del giorno, lo svelavano come un brulicante mondo a parte.

Nel castello nessuno, mai, aveva accesso, ma di certo era noto a tutti lo stemma dell’antica famiglia nobiliare: in campo azzurro, un tronco d’albero d’oro posto in palo, cimato da un gabbiano d’argento dal volo spiegato, caricato in petto da un bagliore bianco raggiato, racchiuso in un cerchio, simile a una stella o a una perla investita dalla luce. Ai piedi dell’albero, piantata su di un terreno d’oro, un’agata blu, avente la fattura di una goccia. Il tutto incorniciato da un cartiglio mistilineo di colore avorio e sovrastato da una corona ornata di una conchiglia d’argento.

Lo stemma era autentico, perché un mercante di un borgo vicino si vantava di possedere uno splendido boccale di maiolica fregiato dello stesso, ricevuto in dono direttamente dal re D’Agata per avergli procurato agate e perle che da secoli erano le gemme simbolo dell’antico casato. L’oggetto passò di padre in figlio e resta a testimonianza dell’esistenza della famiglia, insieme a stemmi di pietra scolpiti a rilievo e ad altri reperti.

Inoltre, l’interesse rivolto dalla famiglia verso le agate e le perle, desumibile dallo stesso stemma e dalle iscrizioni, era giustificato non solo dal nome del casato, ma dalla ricerca della protezione divina. In quanto, per la nobile famiglia, e ciò trova riscontro nei Lapidari medievali, l’agata rappresentava Giovanni Battista, la perla Gesù Cristo, mentre il gabbiano e la stella alludevano allo Spirito Santo.

Ma, risulta più difficile stabilire quanta verità contenessero le storie sul principe, che si sono tramandate fino a noi.

Il nome del principe significa dominatore glorioso. E infatti, la sua gloria proliferava tanto più egli si adoperava a tenere nascosta la propria identità.

Si narra che Romaldo, abbia conosciuto, nei pressi di una cascata, una fanciulla dalla bellezza radiosa, il cui nome sembrava recare in sé l’origine di tale splendore, in quanto Lucinda significa luce.

Gli incontri furono pochi. E, l’acqua, quando, vicino alle cateratte, prima di giungere alla cascata, per la minore pendenza, scivolava sulle rocce emergenti con dolcezza, suscitando la sensazione che si prova nell’osservare la pelle tenera di un bimbo che dorme, suggeriva ai due giovani lo scambio di carezze su cui indugiare, per un tempo incommensurabile. Poi, la cascata creava un tale senso di dispersione, nelle loro menti e nei loro cuori, acuito dal nascente sentimento, da annullare ogni barriera tra i due diventati come delle lievi patine volteggianti nell’aria e aderenti alle rocce e all’acqua spumeggiante, a tal punto che mai sembrò loro di essere stati divisi, perfino da ciò che li attorniava. I due amanti amavano ascoltare, seguire, perdersi dietro lo scroscio fragoroso dell’acqua, abbandonandosi ai pensieri che rapidi balenavano nelle loro menti, per poi essere proferiti dalle loro bocche tremanti e a un tempo decise, come per effetto dell’impeto con cui l’acqua cade giù e si impone e domina l’ascolto. Un giorno, si avvicinarono intrecciando le dita dell’uno in quelle dell’altra e sfiorandosi appena le labbra, ma essendosi sporti troppo dal dirupo dal quale osservavano la cascata, come piume bagnate e dai filamenti aggrovigliati, scivolarono. Romaldo sopravvisse, Lucinda non scampò alla morte.

Per lungo tempo Romaldo rinunciò a prender moglie. Era molto ambito dalle donne dei borghi vicini e dalle fanciulle altolocate, nonostante nessuna l’avesse mai visto in volto. Eppure, si diceva che durante i suoi tanti viaggi, avesse avuto numerose amanti.

Egli sfrecciava tra la fitta vegetazione dei boschi, tra i tanti rami, tronchi, rovi soprattutto all’imbrunire sul suo cavallo avorio come la sua pelle. Era alto e i suoi capelli corvini, più lunghi nella parte superiore del capo, si scompigliavano dandogli un’aria ribelle.

Sembra che si limitasse a toccare attraverso una botola segreta le mani delle donne di tutte le condizioni sociali, come a voler risvegliare in sé le sensazioni del tocco di Lucinda per placare almeno la sua pena, rifiutandosi di guardare in volto le donne, sicuro che mai avrebbe ritrovato in loro lo stesso splendore. E ogni qual volta le donne, con le quali entrava in contatto, chiedevano, sia pur con discrezione di più, con afflizione ritraeva la mano ferito nell’orgoglio, quasi sdegnato da tanta sfacciata presunzione. E ciononostante, quanta pazienza si celava nei cuori delle donne, quanta capacità di vedere oltre l’esteriore freddezza del principe, in germe, ancora la capacità di specchiarsi negli occhi di una donna, di compenetrarli alla ricerca del vero se stesso. Così le donne, disposte a tacere il segreto incontro, sia per la speranza di ripeterlo, che per l’ebrezza del rischio, tornavano alle loro dimore, sicure di aver ricevuto grandi doni nascosti in scambi d’affetto così parsimoniosi, sebbene non fossero state le prescelte.

Romaldo, aveva colto la verità almeno su un aspetto, ma viveva come una pianta in un vaso angusto. Perché al termine degli incontri chiedeva alle donne di dargli un pugno di terra che esse stesse avevano raccolto e si premuravano di porgere al principe con le loro mani. Romaldo deponeva la terra parte sulla tomba di Lucinda, sperando che la terra gliela restituisse, e parte nel suo giardino, là dove le piante e gli alberi crescevano in libertà, così come le donne solo nella libertà sviluppano il meglio di sé. Ma le donne di Romaldo erano fin troppo libere! Il rischio, per alcune, era che la troppa libertà ottundesse i cuori, non le portasse a spingersi oltre l’apparenza! Ci si deve sentire sempre un po’ legati, radicati, specie in tali situazioni, per riconoscere i benefici dell’amore.

Ormai, Romaldo era oltremodo maturo, sempre più magro, la barba nera riluceva di sparsi fili argentei e con la punta gli toccava le clavicole. La pelle del viso era spenta, quasi senza vita, non fosse che per un lieve guizzo di luce che talvolta come una girandola veloce sembrava muoversi nei suoi occhi che subito tornavano ad appannarsi. Ed il sorriso, appena dopo aver toccato l’apice della tenerezza, sembrava quello di un ebete istupidito dall’avere, da tempi immemorabili, smarrito la chiave del suo essere, chiuso chissà dove.

Ed è a questo punto che la sua storia si lega alla nostra, si, alla nostra di oggi. Perché il cielo reca ancora in sé le stelle! Era solito Romaldo, che quasi non lasciava più il castello, di notte prima di andare al letto, trascorrere il suo tempo in un ampio terrazzo ad osservar le stelle. A guardarlo, con le vesti trasfigurate dalle luci della notte, lo si sarebbe potuto scambiare per un saggio vegliardo, un profeta intento a ragionar con Dio del destino umano, e invece Romaldo era un re.

Forse cercava lo splendore della fanciulla amata, perché nelle notti senza vento era possibile udire una voce di uomo che urlava: – Luce, luci, Lucinda! – . E qualcuno giurava di aver visto provenire, una volta, dal castello, una sorta di lampo silenzioso e persistente.

Romaldo, come se si fosse svegliato da un sonno che dà tormento, di soprassalto, con la voce che gli proveniva dalle viscere più profonde, emessa con uno sforzo immane e con sovrumano spavento disse: – Dunque muoio! Sono cieco… o forse è un gran bagliore ciò che precede la fine! -.

E dalla Luce accecante, giunse la risposta: – Romaldo, la luce dell’alba e quella del crepuscolo sono tenui, diffuse, ti permettono di scorgere senza clamore le persone, gli oggetti e i loro aspetti. Esse sono l’inizio e la fine di un’esistenza, le puoi ritrovare nel corso della vita, ti renderanno parte di Tutto, ma puoi anche smarrirle prendendo abbagli – .

Romaldo, leggermente chino, muoveva gli occhi adagio da una parte all’altra, come se cercasse vanamente un appiglio nel bagliore e, con un tono basso, cavernoso e di solenne rassegnazione, proferii: – Si, sei il mio Dio che mi strappa alla vita….spenta -.

E la Luce: – Spogliati della tua maschera superficiale, perché per quanto ti appartenga ti tiene lontano dalle emozioni della vita! L’alba e il crepuscolo sono la zona in cui con atteggiamento misurato, perché interessato e distaccato a un tempo, navighi cogliendo le infinite combinazioni degli opposti, dei colori, delle luci, in cui vivi nell’equilibrio instabile di tutte le cose, in cui incessantemente il male si trasforma in bene e il dolore in felicità, in cui tu non sei solo della luce o del buio: non persegui accanitamente uno dei due, smarrendone il senso. Senti questa mutevolezza di opposti, senza lasciarti catturare da uno dei due estremi, ma cogliendo in tutto gli infiniti rapporti con il resto. E così, anche tu sarai sempre nuovo farai emergere il te stesso profondo: quello che non teme eccessivamente fino all’immobilismo il proprio o l’altrui dolore, ma lo affronta e gioisce nel constatare che esso subito si trasforma in altro. Non temere la vita o sarai una larva umana, un fantasma! -.

E nel mentre, frammenti mobili di materiale traslucido, colorato, opaco, tenuti insieme da una telaio di luce, che dava loro la parvenza di una vetrata gotica, si riflettevano in un gioco di specchi, producendo infinite combinazioni di immagini e colori; quanta fantasia si rivelava in forme che trovavano continuamente la loro simmetria, come in un caleidoscopio proiettato sulla tela bianca della luce.

– Hai lasciato che la sua bellezza fosse solo un abbaglio, ti sei perso. Adesso recupera quella luce, negli sguardi delle donne, e con essa la possibilità di scorgere i tanti aspetti che fan parte di una donna giovane o matura che sia, sappi individuarli anche solo in germe ed essi si manifesteranno prima o poi in loro, e in te con conseguenze e in forma diversa -.

Romaldo, con un tono che manifestava una strana forma di stordimento cosciente, come se stesse rinsavendo da uno stato di prolungato torpore della mente disse:- Pur di non soffrire, mi sono limitato a sfiorare di sfuggita le donne. Ho assunto la parte del dominatore che stabilisce le condizioni dell’incontro per trionfare sempre, perché la mia immagine non fosse intaccata da nulla, perché nessuno avesse l’ardire di trovare mancanze in me. Mi sono limitato a cogliere solo il loro vano affanno nel catturarmi, nel quale percepivo sempre qualcosa di spropositato… mentre spesso la loro non era brama di possesso, ma il sentore della mia fuga all’impazzata verso il nulla. E così, ho evitato il confronto, la condivisione.

E invece, adesso, intuisco quanto è bello sentire che nel confronto la nostra immagine di presunta perfezione si sgretola, per partorire il nuovo, come la farfalla nasce dal bruco già perfetto nella sua ragion d’essere, ma non abbastanza, se non mutasse in un’ulteriore forma.

Se solo avessi saputo vedere altro in loro, che non fosse per forza da ricondurre a me, che non mi portasse a temere per me stesso! La loro unicità, se l’avessi lasciata parlare, cosa avrebbe detto?

Chissà a cosa avrebbero potuto condurmi quelle donne che sanno donarsi, senza pretendere! Chi erano, veramente, quelle donne? Se solo per un attimo fossi andato loro incontro cosa avrei scoperto di me, che adesso ignoro? E io quali effetti avrei avuto su di loro? Come e quanto sarebbero state in grado di amarmi?…. non c’è più tempo… -.

E ancora la Luce: – Si, Romaldo, Fermarsi all’abbaglio della gioventù o che si manifesta lungo il cammino della vita è fuorviante, cedi al fascino dell’abbaglio, per poi spingerti oltre e cogliere la complessità mutevole dell’animo di una donna, le tante luci diverse che si riverberano nell’abbaglio stesso della bellezza, non averne troppa paura o rischierai di essere uno specchio vuoto.

Lucinda stessa, nel ricordo è frantumata in pezzi che si mescolano a quelli di tua madre, delle tue amanti e dei tanti tocchi risanatori di donna da cui hai tratto giovamento. Lei non è più quella dei primi incontri, il suo stesso ricordo è maturato in te, riconoscilo!

Non sai, Romaldo, da quanto esistano le stelle, le donne e gli uomini sono fatti di una luce che non ha tempo. Luce senza tempo che rende presente, in modo più completo, ciò che sembra assente – .

Romaldo, come novello Battista rallegrato dalla certezza di essere dinnanzi al figlio di Dio, Cristo “sole che sorge dall’alto, per risplendere su quelli che stanno nelle tenebre [Luca, 1,79]”, alzò lo sguardo più che poteva estasiato, e svenne.

Non molto tempo dopo il fatto, Romaldo, la cui parabola esistenziale legata all’amore lo aveva portato a perdersi e a ritrovarsi attraverso un abbaglio, simile per il duplice effetto alla lancia di Peleo che ferisce e risana, sposò una vedova di poco più giovane di lui, nei cui occhi non ebbe paura di specchiarsi.

 

Loading

3 commenti »

  1. Favola forse a lieto fine di un Don Giovanni…scopritelo se vi va!!!

  2. Una favola d’altri tempi, in cui trionfa, prepotentemente, l’amore. Un invito a riflettere a fondo su una delle tante sfaccettature del sentimento più puro e più bello del mondo, antico quanto l’uomo. Parole scritte col cuore, da una donna, l’autrice, che sa sicuramente amare. Come poche.

  3. Penso che questi complimenti mi mancheranno!! Non tanto per il complimento in sè , ma perché fa bene essere presi in considerazione, fa sentire vivi. Grazie di cuore, Corrado Giusti!!
    Credo che bisogna andare incontro agli amori piccoli o grandi che siano con coraggio, senza preconcetti, determinati da esperienze passate, accettare il tempo che passa, depositando segni indelebili sulla nostra pelle, vivere le varie stagioni della nostra vita, anziché restare ancorati a un amore adolescenziale, immaturo, nel quale la frontiera della condivisione, del noi è ancora lontana.
    Per quanto queste siano cose ovvie, nella società dell’immagine si fa fatica ad inglobarle nel proprio vissuto a interiorizzarle, e si finisce per essere tanti narcisisti tristi.

    Viva coloro che si nutrono della profondità dell’essere della sua capacità di stupirci, viva i coraggiosi che ogni qualvolta sbattono contro un muro o le sbarre del proprio carcere sanno mettere a tutto ciò ancora le ali, e riscattare e riscattarsi!!!

Lascia un commento

Devi essere registrato per lasciare un commento.