Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2020 “Il diario di Frida” di Paolo Vettori

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2020

Centossessanta chilometri, o poco più, separano Danzica da Kaliningrad, la più giovane città della Federazone Russa, costruita nell’immediato dopoguerra sulle rovine di Konigsberg e diventata oggi un’exclave della Russia di Putin nel cuore dell’Unione Europea, tra Polonia e Lituania.

Un tinerario tranquillamente percorribile in quattro/cinque ore, ivi compresi i tempi di attesa alla frontiera. Dall’estate del 2013, da quand ho preso l’abitudne di trascorrere un paio di settimane sulle spagge di Sopot, la “Rimini Polacca”, nei pressi di Danzica, mi è captato diverse volte di percorrere quell’itinerario.

L’autobus che collega le due città baltche, attraversando il confine russo-polacco, parte da Danzica ogni mattina verso le sei e mezzo. Viaggiando su quella linea, ho avuto l’occasione di riassaporare, a distanza di quarant’anni, l’atmosfera dei miei viaggi degli anni ’70, quando, in treno, dovevo affrontare, con un pizzico di ansia, i minuziosi controlli della Polizia Cecoslovacca o della “VolksPolizei” della DDR, per oltrepassare la “Cortina di ferro” che, dalla fine della II Guerra Mondiale, divideva l’Europa in due blcchi contrapposti. Proprio perchè sono preso dai miei ricordi giovanili, mi capita raramente di intrecciare conversazioni, più o meno formali, con gli altri passeggeri. Una sola volta, a inizio settembre del 2015, il viaggo per Kaliningrad mi ha offerto l’opportunità di un incontro breve ma di grande impatto emotivo.

Quella mattna ero in forte anticipo, circostanza piuttosto insolita, almeno per me. Accanto al pullmino (un vecchio modello volkswagen con una capenza massma di 16 posti) c’era già un’anziana signora, molto elegante. La presenza di quella “dama ingioiellata”” mi parve subito assai curosa, su una linea frequentata da studenti, operai o casalinghe, tutta gente abituata a viaggiare “al risparmio”. Approfittai del quarto d’ora d’attesa, prima della partenza, per scambiare con lei qualche rapida battuta, in Inglese.

Disse di chiamarsi Frida ( o Frieda) e di venire da Lubecca, in Germania. Aveva programmato (aggiunse) già da tempo un viaggo in auto con la figlia sino a Kaliningrad, con tappe a Stettino e a Danzica. Poi, subito dopo l’arrivo a Danzica, la figlia era stata costretta, per problemi di lavoro, ad antcipare il ritorno a casa e lei, a quel punto, aveva deciso di proseguire il viaggio da sola.

“Sei mai stata a Kaliningrad?”, provai a domandarle. Frida non rispose subito; si mise a fumare nervosamente una sigaretta.

“No, a Kaliningrad non sono più tornata, però quella è la città dove sono nata, tanti anni fa, prima della Guerra, quando si chiamava ancora Konigsberg”. Pronunciò queste parole sotto voce, quasi stesse parlando con sè stessa, mentre si apprestava a salire sul pullmino.

Scelse un posto vicino al finestrino e io andai a sedermi accanto a lei.

Temevo di apparire invadente ma al tempo stesso non volevo rinunciare all’occasione, del tutto insperata, di poter parlare con una testimone diretta della conquista sovietica della città di Kant, per secoli capitale della Prussia Orientale, e dell’esodo in massa della popolazione tedesca.

Frida, però, non sembrava avere alcuna intenzione di raccontare la propria storia ad uno sconosciuto. Se ne stava assorta nei suoi pensieri e ogni tanto lanciava uno sguardo distratto alla campagna circostante. “Manca ancora molto al confine?”, mi chiese, alla partenza da Elblag.

“Poco più di un’ora. Posso chiederTi perchè hai decso di tornare?”, azzardai. “Tornare da straniera nella città in cui sono nata è certo un’esperienza dolorosa, per cui ho esitato a lungo prma di intraprendere questo viaggio. Alla fine, però, ha prevalso, dentro di me, il desiderio di rivedere il mio fiume, il Pregel, sulle cui rive ho trascorso giornate felici, da bambina”. Così dicendo, si mise a rievocare alcuni moment dell’infanzia, in una famiglia borghese di Konigsberg, su cui le ombre della guerra non tardarono a far sentire la loro minacciosa presenza, sin dall’autunno del ’40, con la partenza per il fronte del padre, catturato, due anni dopo, dagli Inglesi nel corso della seconda battaglia di El Alamein. Man mano che si avvicnava alle fasi finali del Conflitto, il suo racconto si faceva più sofferto. Si fermò di colpo, per estrarre dalla borsetta una vecchia agenda, ormai del tutto scolotita.

Era il diario dell’anno scolastico 1944/1945, su cui Frida annotava, per ciascuna giornata, le lezioni in classe e i compiti per casa. Una routine scolastica bruscamente interrotta a metà gennaio, nei giorni in cui aveva avuto inizio l’assedio dell’Armata Rossa alla città. Da allora le pagine del diario riportavano soltanto l’elenco di parenti, amici, vicini di casa compagni di scula, uccisi dalle bombe, dalle malattie e dalla fame.

L’ultima annotazione portava la data del 20 marzo 1945:”Arrivata con Mamma al Porto di Pillau. Imbarco in serata su una nave diretta in Germania”. “E’ l’unico ricordo che mi è rimasto del terribile inverno del ’45.-ci tenne a precisare lei – l’ho ritrovato per caso nel doppiofondo di una vecchia valigia proprio alla vigilia della partenza per questo viaggio della memoria”.

Sfogliava le pagine del diario, rileggendo le annotazini vergate di suo pugno settant’anni prima, quando era una bambina di appena dieci anni.

Il suo volto compassato era visibilmente scosso dal tumultuoso riemergere di emozioni, rimaste sepolte per decenni sotto una spessa coltre di ghiaccio.

Sembrava un fiume in piena. Si mise a rievocare gli ultimi mesi nella sua città natale, segnati da una catena interminabile di lutti( tra cui alcuni degli affetti più cari, il fratellino e i nonni materni) e dall’angoscia per un futuro che si preannunciava funesto. Le truppe sovietiche erano ormai a un passo dall’espugnare Konigsberg, che sarebbe caduta il 9 aprile. Gli abitanti della città cercavano d raggiungere con ogn mezzo il porto di Pillau (oggi Baltijsk) da dove la “KriegsMarine” aveva organizzato una gigantesca operazone di evacuazione della popolazione civile e dei soldati feriti verso i territoti ancora in mano alla Wehrmacht.

“Quale è il ricordo più emozionante di quelle giornate?”, le domndai.

“La partenza da Pillau e la lunga notte nella stiva, in mezzo a centinaia di persone atterritte dallo spettro della morte, magari per un siluro sovietico che avrebbe potuto affndare la nostra nave, come era già successo a decine di altre imbarcazioni, che avevan tentato la stessa va di fuga. Poi, al mattino, l’esplosione di una gioia incontenibile, all’annuncio dello sbarco nel porticciolo di Sassnitz, da dove, qualche giorno dopo, siamo ruscite ad arrivare a Lubecca, la città nella quale avevano trovato riparo i miei nonni paterni”. “E’ stata -concluse- una fuga disperata, che ha consentito però a me e a mia madre di sottrarci alle violenze e alle sopraffazioni di ogni tipo che, con la resa della città ai primi di aprile, si sarebbero abbattute sulla popolazione inerme di Konigsberg, costretta infine ad abbandonare per sempre la propria terra”.

Mentre il nostro pullmino si fermava alla Dogana, per l’avvio dei minuziosi controlli della Polizia di Frontiera, Frida accennò ad un sorriso, come se si sentisse finalmente pronta ad affrontare il ritorno nei luoghi della sua infanzia. Un momento desiderato ma al tempo stesso temuto da oltre settant’anni.

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1 commento »

  1. Un bel racconto basato sulla nostalgia, sui ricordi di una vita lontana, passata. La protagonista Frida sta facendo ritorno nella sua città natale e vive con emozione l’avvicinarsi a casa, lasciata durante la guerra quando la sua vita ha subito un improvviso arresto come testimoniano le pagine di diario ferme agli avvenimenti terribili del 1944-45 . settant’anni dopo questo ritorno tanto temuto sembra farle ritrovare se stessa.

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