Premio Racconti nella Rete 2020 “Il segreto di Sofia” di Gianni Audisio
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2020Via Donaudi, antiche abitazioni che sembrano soltanto vecchie. Edifici che si fanno coraggio sostenendosi l’un l’altro, generando un’unica lunghissima parete spezzata da minimi ritagli di luce, piccoli bagliori rubati al cielo insufficienti a eliminare una sgradevole e costante sensazione di umidità. Sofia è anziana e per raggiungere il suo alloggio, situato al primo piano, deve salire una scala ripida, una sola lunghissima rampa in pietra, sfida giornaliera al suo respiro asmatico.
La sua è una piccola casa di ringhiera con bagno alla turca sul balcone. Quando apre la porta d’ingresso, viene accolta dalla voce di un vecchio cucù. Sotto l’orologio staziona un portafiori in legno, orfano di piante ornamentali, occupato da una cofanetto per dolci, cioccolatini scaduti per ospiti che non si presentano mai. Nel minuscolo cucinino, vicino alla porta-finestra, si nasconde, incassato nel muro, un profondo lavandino in marmo. Sotto il lavabo, dietro ad una tendina di stoffa a quadretti, qualche bottiglia vuota e un catino di zinco. E’ una cucina povera: un fornello, un tavolo, due sedie di fòrmica, un vecchio frigorifero con chiusura a chiave e alla parete una foto di Papa Giovanni che Sofia ha personalizzato pizzicando sul retro una fronda d’ulivo benedetto. Il ramo ormai rinsecchito e quasi senza foglie, pare una malconcia penna d’oca che sbuca dalle immense orecchie del pontefice. Un letto di legno scuro, alto e corto, occupa quasi interamente la sua camera e le tante coperte sovrapposte, lavorate all’uncinetto con lana di recupero, cercano di contrastare un freddo pungente che la stufa non riesce a contenere. Sul comodino una cornice racchiude una fotografia a colori scattata in campagna. Sofia indossa un pesante cappotto invernale troppo grande e porta in braccio un bambino con i pantaloni corti e un cappello da marinaio giallo, un intruso di due anni che pare provenire da un’altra stagione, un’immagine in cui non riesco a riconoscermi. Il suo cognome, Mignola, è poco diffuso in Piemonte, la sua famiglia è originaria di Mortara. Mio figlio, un giorno, tornando dall’asilo, ha portato con sé i segni di un morso in faccia e la prima parolaccia imparata da un compagno: “figlio di Mignola” che mi ha fatto sorridere. La madre di Sofia è morta giovane. Un tumore contratto negli anni ‘20 quando la terapia antidolore non esisteva. Di sette fratelli è stata lei, ancora adolescente, a stare al fianco della madre e le atroci, ininterrotte urla di dolore, risuoneranno per sempre nella sua mente generando una forma di ansia spesso incontrollabile. L’asma, la mancanza di fiato che cerca di placare ingenuamente succhiando caramelle alle erbe alpine, è la conseguenza di una vita durissima. Il lavoro da mondina, le gambe e le braccia immerse nell’acqua per dieci ore al giorno, un’umidità che corrompe ossa e polmoni. E poi, giunta a Saluzzo, il lavoro nel vecchio pastificio Costa, la schiena curva tra i vapori delle impastatrici. Una vita senza tenerezza. A vent’anni il suo pallore contrasta spiacevolmente con una massa incontrollabile di capelli nerissimi e il gozzo, causato dalla mancanza di iodio, ne deforma il viso. Non è una bella ragazza, nessun uomo ha mai cercato di rubarle un sorriso, nessun fidanzato le ha mai scritto lettere appassionate. Con la maturità la sua fisicità si è ingentilita, gli occhi azzurri, affiancati al candore del suo chignon, la valorizzano e la sua persona emana una piacevole sensazione di ordine e pulizia.
Quando durante la processione di Maria Ausiliatrice la fiamma della candela votiva si riflette nel suo sguardo, ravviso una dolcezza che raramente ho ritrovato negli occhi di tante donne liberate.
Nella casa di Sofia c’è ancora una stanza dimenticata dietro ad una porta sempre chiusa, una camera buia che odora di freddo e di vuoto. Le pareti non sono imbiancate e sui muri s’inseguono strisce di colore grigie e azzurre passate a rullo, un motivo geometrico che si atteggia a tappezzeria. I fili elettrici a vista portano a un interruttore di bachelite, ruotando la manopola s’illuminano i filamenti agonizzanti di una lampadina che pare appesa a un cappio.
Sul pavimento, ricoperto di piastrelle ottagonali di gres rosso, due cassette di frutta vuote tengono compagnia all’unico mobile della stanza, una cassettiera con scrittoio dell’ottocento che appartiene, da sempre, alla famiglia di Sofia. La ribalta interna conserva cicatrici di incisioni infantili, piccoli atti vandalici di generazioni passate che non sono riuscite a scalfire la sua elegante austerità.
A fianco dei cassetti destinati a contenere la carta da lettere, un doppio fondo, nasconde pagine ingiallite. Tra le lettere del padre di Sofia indirizzate alla futura moglie e le pagelle scolastiche, spicca un documento di grandi dimensioni che riporta nell’intestazione la dicitura “Regno d’Italia”.
La pergamena attesta la partecipazione del nonno di Sofia alla battaglia di Ancona del 1860, combattuta, in qualità di cannoniere, contro le truppe pontificie comandate dal generale Lamoricière.
Il suo nome è Giuseppe Baudo (ebbene sì, proprio come Pippo Baudo, a riprova che, anche nelle situazioni più drammatiche e teatrali, i componenti della mia famiglia mostrano sempre una componente surreale). Un uomo semplice, un bovaro, come viene riportato vicino alla voce “professione del soldato”, una testimonianza tangibile che l’unità d’Italia è stata materialmente fatta da persone semplici.
Il mobile, dopo un accurato restauro, abita da anni in un salotto teleriscaldato ma ancora conserva la memoria del sacrificio di chi ha lottato, più o meno volontariamente, per un grande ideale e il privato eroismo di chi è riuscito a sopravvivere ad una vita difficile, affrontandola semplicemente, con un sorriso sulle labbra.