Premio Racconti nella Rete 2020 “La Stanza” di Alessandro Spadoni
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2020Molto spesso gli eventi più importanti, accadono quasi in sordina. Come se fossero faccende di poco conto. Così è avvenuto a me. In effetti, doveva durare poco. Qualche settimana al massimo e poi tutto sarebbe finito. Tutti lo dicevano, persino il mio vicino di casa l’ultima volta che sono riuscito ad incontrarlo: “Si tratta solo di una situazione passeggera”, aveva affermato con sicurezza “non ci dobbiamo preoccupare e poi non si muore mica per questo. Ci sono fatti per più gravi e nessuno se ne accorge. Lo dicono anche gli esperti”. Aveva ragione? Sì che aveva ragione. Oppure no. Io non lo so.
Sono sempre stato dalla parte del torto, anche quando credevo di essere nel giusto. Ma ormai non ha più importanza e poi ho dimenticato quanto tempo è trascorso. Mesi? Forse anni. Qualcuno riesco ancora ad intravederlo attraverso le finestre della mia camera. Prima ci mandavamo un cenno di saluto, persino qualche sorriso, ora più nulla. Quelle che ero certo fossero persone in carne ed ossa, ora sembrano diventate ombre fugaci che appaiono dietro ad una tendina. E’ possibile che non siano nemmeno reali e che sia solo la mia immaginazione a giocarmi qualche brutto tiro. Alla radio ed in televisione non giungono più notizie. Dopo il precipitare degli eventi, è stato imposto un silenzio assoluto ed è vietato muoversi, soprattutto per chi, come me, è risultato contagiato, anche se non ho mai mostrato sintomi evidenti. Sono stato definito un portatore sano e quindi ancora più pericoloso, perché posso far ammalare altre persone. Io mi sento bene, ma non è così. Sono malato. In verità, avverto solo una certa pesantezza alla testa, ma forse dipende dalla cervicale che mi ha fatto sempre dannare l’anima. Prima venivano a controllarmi a scadenza regolare, adesso più nulla. Sono solo e confinato dentro pochi metri quadri di quella che dovrebbe essere ancora la mia casa. Nel frattempo ho cercato di resistere e di dare senso ad tempo che scorreva sempre troppo lentamente: ho letto tutto quello che riuscivo a trovare nella mia piccola libreria. Letteratura, poesia, storia, filosofia, arte e tanto altro ancora. Ho sempre adorato leggere, fin da piccolo ed ero certo che i libri avrebbero potuto salvare la nostra anima. Lo penso ancora, ma adesso le mie certezze vacillano e credo che spesso le idee possano confondersi fino a sfiorare la follia. E poi mi sta accadendo un fatto del tutto inaspettato: leggere è diventato gravoso, come un peso sulla coscienza che fa ancora più male, come quei ricordi che restano appesi all’anima e non se ne vanno più via, nemmeno se cerchi di stordirti in qualunque modo. Per fortuna, mi portano ancora da mangiare, ma fanno passare il vassoio da una fessura ricavata sotto la porta per evitare qualsiasi contatto e poi lo ritirano quando ho finito.
Mi danno anche delle pasticche per farmi stare tranquillo. E’ un rituale a cui mi sono abituato e, in qualche modo, si ravviva dentro di me una briciola di speranza: c’è quindi ancora qualcuno, intendo qualcuno vivo. E’ già molto per uno confinato come me, ma non parlo più con nessuno. Ho tentato di chiedere qualcosa, di scambiare anche solo qualche frase, ma non mi rispondono mai. Talvolta mi portano anche delle riviste e qualche vecchio film che posso guardare, ma non so più nulla del mondo esterno. Riesco a scorgere qualcosa soltanto attraverso la finestra che mi permette di osservare una piccola parte di strada, ormai invasa da erbacce, e uno spicchio di cielo. Spesso scorgo il sole e questo mi rinfranca un poco. Ma quando cala la sera la disperazione afferra la mia anima e non la molla più. E’ come una lama che ti penetra il cuore e il dolore è così intenso che devo distendermi sul letto e attendere parecchie ore prima che riesca a controllarlo e farlo cessare. Come è potuto accadere tutto questo? Come siamo arrivati a tanto? La malattia si è sviluppata così rapidamente e nessuno, all’inizio, l’aveva presa sul serio. Anzi veniva consigliato di non pensarci, di lasciar correre perché si sarebbe risolto tutto nel giro di pochi giorni, tanto che nemmeno ce ne saremmo ricordati. Tutti continuavamo la vita di ogni giorno senza darci troppo pensiero con il nostro lavoro, i nostri impegni, le nostre gioie e i nostri divertenti. Ogni cosa era al suo posto e questa certezza ci rassicurava. C’era divertimento e svago per tutti. Ed è così che accade. Si scivola verso l’abisso senza che possiamo percepirlo. In verità, avevo avvertito che c’era qualcosa che non andava, come un vago senso del pericolo, ma mi si rimproverava ad ogni mio accenno: dovevo imparare a tacere e non creare allarmismi. Così ho fatto, tutti l’abbiamo fatto, anche quando era chiaro che le cose iniziavano seriamente a peggiorare. Si conduceva la vita si sempre e si trovava persino tempo per discussioni che adesso sembrano così inutili. Come sciocca e futile spesso appare l’esistenza umana con tutto il suo gioco di specchi e di luci: sembra molto simile ad un teatro senza alcun senso. E, del resto, nemmeno io comprendevo bene gli avvenimenti, la realtà mi sfuggivano di mano e ne coglievo solo brandelli con cui ricucire un pensiero pieno di falle. Era allora che mi rendevo conto di quanto debole e limitata fosse la mia ragione. Tante volte mi sono chiesto se dentro di me albergasse un qualche barlume di intelligenza, oppure seguissi lo scorrere degli eventi come tutti gli altri senza pormi alcuna domanda. Spesso mi sorprendo ad arrampicarmi su alcune certezze che credo forti e solide come la roccia, invoco la libertà di pensiero, il ragionamento, la sensibilità dell’intelletto, poi cado rovinosamente a terra, contraddetto da altre riflessioni che possono avere il loro fondamento e che io non avevo considerato. Sentire il proprio limite è già qualcosa, ma come comportarsi quando tutto appare limitato e non ci sono più punti approdo sicuri? E’ davvero difficile. Come è dura restare chiuso qua dentro. Queste pareti ormai scrostate e sudice mi soffocano: sembrano chiudersi su di me, peggio di una prigione. Come se qualcuno avesse escogitato una nuova forma di tortura e si divertisse a verificarne gli effetti su di me. I primi tempi riuscivo a distrarmi, potevo persino osservare qualcuno per strada. La tentazione di aprire la finestra e gridare per richiamare la sua attenzione era forte, ma mi era proibito. Successivamente sono comparse le camionette della polizia, infine l’esercito. Poi più nulla.
Tutto è diventato immobile ed è calato un silenzio irreale, quasi di tomba. E se tentassi di uscire? Non posso più restare qui dentro; mi sento come sepolto vivo e la stanza è diventata una cripta. Riesco a lavarmi a malapena e credo di puzzare persino molto, ma ho paura. Basta questo a immobilizzarmi. La paura è un’arma potente. Te la fanno germogliare dentro come un virus che di penetra fin nel profondo e una volta che ha preso il controllo della tua mente non puoi fare più nulla, se non quando ti viene concesso. Ogni tanto bussando sulla parete della mia stanza, ricevevo qualche colpo di risposta. C’era qualcuno nella mia stessa condizione. Anche sopra di me potevo udire dei passi. Era un piccolo sollievo. Ma poi tutto svaniva. Anche la speranza è un seme pericoloso, perché ti può ingannare e farti sopportare cose spaventose nella fiducia che ci possa essere alla fine un termine al tuo dolore e le cose possano volgere al meglio. Nulla di più falso. Tutto quello che noi abbiamo, persino la nostra salvezza, non è stata ottenuta semplicemente sperando in qualcosa, ma combattendo con le unghie e con i denti. Con il nostro sangue. Ma lo abbiamo dimenticato e anche io resto qui fermo e non mi muovo. Inchiodato come una farfalla ad un muro. E posso solo disperarmi per il tempo che ho sprecato e per quelle possibilità che mi sono presentate e non ho saputo cogliere. In me alberga il rammarico e l’amarezza che, in questa solitudine assoluta, si ergono come una montagna troppo ardua da scalare. Forse si tratta di una punizione per i troppi peccati che ho commesso, per tutto quello che il genere umano ha fatto contro la Natura e contro se stesso. Non ci meritiamo di restare in vita.. E’ tempo che altre specie prendano il sopravvento e portino avanti l’evoluzione che, in fondo, non è mai stata una linea retta, ma piuttosto una serie di cicli e di continue svolte. Io però non resisto più. Ora aprirò la porta ed uscirò. Magari mi spareranno. E’ una possibilità.
Ci saranno dei cecchini appostati per fermarmi al mio primo accenno di fuga. Come è possibile che siano morti tutti e che nessuno bloccherà il mio atto. In fondo, chi può darmi la certezza assoluta? Devo verificarlo da solo e capire cosa è accaduto al mondo. E’ rimasto intatto oppure è andato in pezzi? Ora metterò la mia mano sulla porta e girerò la maniglia. La porta non è mai stata serrata. Il libero arbitrio in effetti non mi è stato mai tolto. Mi era concessa l’idea di una scelta che però non ho mai compiuto. Ma io non ho fatto nulla. Ho semplicemente obbedito e ho seguito quanto mi è stato detto senza discutere. E se morissi? E se accadesse qualcosa di tremendo? Io posso davvero essere l’ultimo rimasto e con me finirebbe la storia del genere umano. E’ una faccenda che devo considerare. E’ una responsabilità che mi porto appresso e che non posso gettare al vento per un mio gesto impulsivo. Ma ecco che le domande si affollano nella mia mente e rendono vano ogni mio atto. E’ poi importante che resti traccia della storia dell’uomo? Ha davvero importanza? E se fossimo soltanto un errore che si è protratto troppo a lungo per una sorta di misericordia divina che ora ne ha abbastanza di noi? Di me? Riuscirò mai ad uscire dalla mia stanza? Forse è il mio guscio ed io sono la lumaca che se ne serve. E intanto io resto davanti la porta e non so cosa fare. Fisso le sue crepe che si rincorrono lungo il legno e non muovo un muscolo. In attesa. Come sempre. Come tutti.
Un piacevole racconto introspettivo che con ritmo incalzante coinvolge e fa vivere le ansie e le emozioni del protagonista che vive una situazione drammatica relegato in quarantena per il COVID19
Interessante racconto dal sapore distopico, penso descriva molto bene l’atmosfera del periodo
Aprire o non aprire quella porta? Restare nel guscio o uscirne fuori. L’apocalisse incombe e le le ipotesi restano tali. E se…….?In un periodo come questo leggere ‘La stanza’ ci mette di fronte al nostro vissuto e non possiamo non identificarci con il protagonista. L’autore sembra sussurrarci all’orecchio i suoi pensieri nonostante la distanza.